martedì 9 dicembre 2025

Metamorfosi geopolitiche

 


Una delle metamorfosi, perlomeno estetiche e formali, più temerarie della geopolitica degli ultimi tempi riguarda Ahmad al Sharaa, attuale leader e presidente ad interim della Siria post Asad. Nato qaedista e vissuto come jihadista col nome di Mohammad al Jolani fino alla definitiva presa di Damasco d’un anno fa, dopo poche settimane dall’iniziale gestione del potere per “il rilancio della Siria” ha dismesso la mimetica per una più rassicurante mise istituzionale che gli conferisce l’apparenza statista. Unico retaggio del passato l’ostentazione d’una folta barba, simbolo maschile di fedeltà alla Sunna e al profeta. Alcuni analisti che ne hanno esaminato l’ambiziosa scalata nella politica locale sin da quando praticava i primi spari da miliziano islamista, lo dipingono più adatto all’azione che alla teoria. Ma il suo sponsor geopolitico residente ad Ankara, prevalentemente il Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’Intelligence del potente vicino, interessata ai sommovimenti siriani del 2011 e coinvolta nella successiva guerra civile siriana, ha esaminato e promosso l’evoluzione del nucleo con cui l’allora al Jolani gestiva un’enclave diventata vitale per la corsa verso Damasco: la cittadella di Idlib. Passata dal controllo ribelle del Fronte al Nusra e Ahrar al Sham di cui il governo Erdoğan era finanziatore, alla riconquista dei lealisti di Asad e ai bombardamenti dell’aviazione russa che sosteneva il regime. Poi nel 2017 l’area venne ripresa da Hayat Tahrir al Sham di cui al Jolani era l’esponente di spicco. Note turche diffuse dopo la stabilizzazione dei rapporti con al Sharaa rivelano che inizialmente il Mit non aveva puntato con certezza su di lui, però gli islamisti rivali avevano subìto troppi intoppi e fallimenti proprio nello “staterello” di Idlib e nella gestione del passo montano di Bab al Hawa, a neppure cinque chilometri dalla frontiera turca, luogo di transito degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite. 

 

I Servizi turchi osservavano e valutavano, e la gestione di amministratore di al Jolani appariva la più efficace rispetto ai jihadisti foraggiati da Ankara. Chi oggi, pur a mezza bocca, ne parla evidenzia un gioco delle parti: lo stesso al Jolani dalla sua Idlib mostrava segni d’intesa verso chi fino al quel momento gli preferiva altri soggetti. Nel suo piano che, possiamo ipotizzare, mirasse a un posto di totale rappresentanza della ribellione anti Asad, Jolani cercava d’avvantaggiarsi strizzando l’occhio ad Ankara com’essa studiava la convenienza cambiando in corsa le sue preferenze. Non è dato sapere se lo sdoganamento del leader di HTS sia partito dalla mente che gestiva per Ankara il dossier siriano, Hakan Fidan. Certo è che quando quest’ultimo è stato proposto dal suo mentore al ministero degli Esteri (il 2 giugno 2023) il successo dei ribelli non era scontato, ma la fisionomia del conflitto era segnata dal locale disimpegno russo che da sedici mesi concentravano sul fronte ucraino ogni armamento di terra e d’aria. Probabilmente la scelta fra Turchia e gruppo Jolani è avvenuta in contemporanea e ognuna delle parti ha valutato vantaggi e bontà del rapporto. Detto col senno del poi il jihadista trasformato in traghettatore del futuro di Damasco sta piacendo a un pezzo del panorama diplomatico che osserva quel cuore squassato del Medioriente ch’era diventata la Siria. E pure chi come l’Unione Europea sta da anni concentrando attenzione e impegno bellico-economico sul versante ucraino, non disdegna prossime commesse di ricostruzione magari varando joint-venture con aziende turche. L’unico irritato è Israele perché si trova la Turchia a contatto di gomito, tantoché ha provato a riportare l’instabilità sul territorio siriano ampliando le sue occupazioni oltre il Golan, foraggiando il malcontento fra la minoranza drusa; quella alawita, pur scontenta del nuovo corso, è refrattaria a “protezioni” sioniste. 

 

Eppure fra una geopolitica applicata agli interessi regionali e i sottili percorsi ideologici che caratterizzavano la galassia del fondamentalismo islamico che per anni ha combattuto, s’è alleata e poi s’è divisa nel gran caos dei vari campi di battaglia siriani, il gioco più variegato, rischioso, azzardato l’ha condotto lo Stato turco. Oggi il suo ruolo politico internazionale appare ulteriormente rafforzato, ovunque. Davanti ai risolutori-impostori come Trump e Putin gestori di conflitti e tregue all’apparenza impossibili, quindi nei territori piegati e piagati da una scia sanguinaria com’era la Siria dove Ankara s’è liberata di due avversari: il regime degli Asad e l’esperienza del Rojava kurdo. E ancora attraverso la rottura del blocco jihadista che il governo Erdoğan ha utilizzato e selezionato. Scegliendo e promuovendo il “Signor metamorfosi” gestisce il presente in maniera più scaltra e intrigante rispetto a quanto altri contendenti regionali (Iran, Arabia Saudita, Qatar) hanno finora fatto tramite soggettive campagne ideologico-militanti o consumistico-attrattive. E’ una giostra nella quale il navigato premier, presidente e neo sultano turco è salito volentieri convinto di poterla controllare a suo piacimento e divertimento. Gli sviluppi gli stanno dando ragione, visto che gli intoppi maggiori alla sua gestione politica li aveva riscontrati tutti all’interno col susseguirsi di crisi finanziaria e un’inflazione stellare parzialmente rientrate per impulso della produzione bellica immessa sul mercato mondiale (è il segno dei tempi e l’industria tecnologica turca s’è adeguata) e l’attività di servizi in cui il turismo brilla. Mentre il pericolo di un’opposizione montante è stato disinnescato con una carezza riservata ai kurdi che archiviano la lotta armata del Pkk in cambio d’un riconoscimento delle proprie amministrazioni nel nord-est anatolico. E il pugno di ferro della repressione giudiziaria scagliato sugli esponenti del partito repubblicano, impossibilitati come accade a İmamoğlu a riscendere nell’agone elettorale. Quest’aria da micro impero basata su controllo, alleanze ed egemonia anziché conquiste dirette e dominio sembra pagare e appagare pure i soci che Ankara ritiene sudditi.

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