venerdì 12 dicembre 2025

La Siria nelle mani

 


Il cammino della Siria futura, cui il presidente ad interim al Sharaa sta prestando il volto politico, vede una rincorsa senza esclusione di dollari e petrodollari fra le monarchie del Golfo, la Turchia e le stesse istituzioni mondiali. Ultimamente s’è addirittura mossa la Banca Mondiale che da più di quarant’anni, complice il regime degli Asad, non allungava un dollaro verso quel territorio. Ne fa giungere 150 milioni che potrebbero essere di più se sul Paese non gravasse tuttora il blocco sancito dalle sanzioni americane denominate César Act. Il gradimento della gestione al Sharaa in relazione agli investimenti di sceicchi amici di Trump potrebbe fungere da presupposto per la cancellazione di quell’ostacolo. Proprio il presidente siriano ha richiesto più investimenti che aiuti, evidentemente già pensa ai doveri di restituzione che i prestiti si trascinano dietro o forse perché è allettato dai capitali che hanno iniziato a circolare e trasformano il panorama. Su tutti troneggia il progetto qatarino da sette miliardi di dollari per una sfilza di centrali elettriche, a gas e solari (5mila megawatt) per ridare energia al Paese. Dietro c’è Urban Concession Contracting Holding, uno dei colossi mondiali di appaltatori d’energia che per il piano avviato a Deir El Zor, centoventi chilometri a sud-est di Raqqa, utilizza anche le aziende turche Cengiz e Kalyon, più la statunitense Power International. “Il lancio del progetto dovrebbe avere un impatto positivo sulla regione e sull'economia nazionale creando decine di migliaia di opportunità di lavoro dirette e indirette sia durante le fasi di costruzione che operative” sostiene il comunicato diffuso in questi giorni dalla holding qatarina, mentre il ministro siriano all’Energia Bashir, fotografato insieme ai manager che hanno posto la prima pietra, già sogna “l’avvìo di operazioni industriali, agricole e commerciali”. Dopo i primi mesi di assestamento politico, tuttora claudicante sul confine occidentale dove Israele bombarda e occupa, mentre resta incompiuto il reclutamento dei guerriglieri kurdi nelle file dell’esercito nazionale, Qatar e Arabia Saudita non stanno perdendo tempo sul terreno dei movimenti di denaro. Hanno allungato oltre cento milioni affinché al Sharaa appagasse il vuoto di retribuzione dei numerosi dipendenti pubblici, all’epoca degli Asad zoccolo duro dell’elettorato di regime. Fanno bella mostra di sé i succulenti appalti per ripristinare l’aeroporto della capitale (4 miliardi di dollari) con l’onnipresente Ucc Holding in prima fila, quindi altri due mega lavori: una metropolitana sempre a Damasco per due miliardi di dollari, più un altro miliardo per l’implementazione del porto di Tartous, che interessa anche alla marina russa, sono appannaggio dell’emiratina National Investment Corporation. Accanto agli affaroni per fare la Siria a immagine degli investitori occorre comunque acquietare talune carenze primarie. Sanare le necessità è il bisogno principe dell’attuale governo cui servono mano d’opera e tecnologia, visto che molti che la possedevano l’hanno portata con sé all’estero durante la guerra civile. Per un ritorno alla normalità il Paese dovrà riacquisire anche le competenze espatriate, ma per il possibile rientro a casa deve poterle occupare e pagare. Il cerchio è chiuso su sé stesso: serve denaro sonante per risollevare il Pil d’uno Stato fallito. Certo per l’immediato futuro la fiducia e le speranze sono un tutt’uno imprescindibile, però sul fronte della sovranità Damasco potrebbe conoscere una situazione simile al Libano del dopoguerra negli anni Novanta, quando sempre le petromonarchie tenevano in piedi l’economia d’un Paese stremato, influenzando e orientandone la leadership. Ora il fronte dei benefattori e imprenditori è più ampio: c’è pure la Turchia meno solvente degli sceicchi arabi ma politicamente rodata, motivata e agguerrita.


 

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