Non può essere solo una questione di
gas, che certo raddoppia di prezzo, in un Paese produttore e da percorrere in
lungo e largo solo su gomma con autovetture tutte mosse a Gpl. Anche perché il reddito
pro capite (27.000 dollari) è un tesoretto non trascurabile, cresciuto
sensibilmente nell’ultimo ventennio, un periodo vissuto sotto l’asfissiante
paternalismo dell’odierno ottantunenne Nazarbayev, il vecchio di cui i
rivoltosi rovesciano le statue. Uno degli autocrati post-sovietici cui la
storia recente ha conservato ruolo di padrone assoluto, come fosse un Ceausescu
fuori dal tempo. Ma questa è la geopolitica e dopo lo sgretolamento dell’Urss,
l’Occidente brindava e s’inebriava d’affari con gli ex Stati dalla bandiera
rossa, mentre ex residuati della burocrazia spadroneggiavano su quei territori
e sulle ricchezze del sottosuolo. Il Kazakistan è uno di questi, tanti
chilometri quadrati (quanti nove Italie) e riserve a sfinimento: petrolio,
metano, uranio e pure vecchio carbone che ha nutrito, e tuttora nutre, le
fabbriche asiatiche cinesi. Il Bengodi della finanza energetica che fa business
col mondo senza guardare chi lo governa, tranne poi entrarci in conflitto com’è
accaduto con l’Iraq di Saddam o la Libia di Gheddafi, guardava a Nazarbayev e
all’attuale fantoccino Tokayev, come ai tenutari di quelle ricchezze con cui ExxonMobil, Chevron e altre immarcescibili sorelle dell’oro nero stipulano contratti
miliardari. Non sempre puliti. Ad esempio a Tengiz, verso la costa nordorientale
kazaka del Mar Caspio, dove Chevron
sfrutta da un trentennio un giacimento di petrolio ad alta concentrazione di
zolfo. Procedimenti chimici fissano quest’elemento e l’azienda immette sul
mercato un prodotto normalizzato. Ma la lavorazione crea scorie che
s’accumulano con conseguenze ambientali di cui non s’occupa né Chevron né i padri-padroni dello Stato
kazako. Negli anni la politica ha offerto ai circa venti milioni di abitanti che
vivono in spazi enormi, l’immagine di un’economia in espansione e il boom del
Prodotto Interno Lordo (179 miliardi di dollari) nel primo quindicennio del
Terzo Millennio ha fatto dire alla Banca Mondiale che la nazione ha un reddito
medio-alto. Un Pil energetico rivolto prevalentemente all’Europa, dove finisce
il 70% del greggio e dei suoi derivati, e di metalli del sottosuolo che per
oltre il 50% prendono la via asiatica. Visto che l’agricoltura odierna, che
potrebbe estendersi all’80% del territorio, contribuisce solo al 5% del Pil c’è
chi pensa di diversificare, ma coltivando cereali, patate, ortaggi, meloni le
finanze non girano come estraendo quello che la terra serba in seno. La terza
via è il terziario, ed è qui che guardano multinazionali di tecnologia
sostenibile, trasporti e ultimamente anche del turismo.
Ovviamente la pandemia ha congelato
progetti e creato anche squilibri lavorativi con tensioni attorno al reddito
che innescano le proteste sugli aumenti dei carburanti. Sebbene voci raccolte
in loco da agenzie stampa hanno evidenziato un malcontento, soprattutto
giovanile, rivolto all’impaludato quadro socio-politico. Mancano confronto e
intermediazione fra la popolazione e i Palazzi, dove circolano parenti di
potentati come il nipote di Nazarbayev, che Tokayev in queste ore di fuoco ha
fatto dimettere insieme ad altri esponenti del governo per salvare se stesso. Perciò
la gente, quella che raccoglie salari ben più bassi (600 dollari mensili) della
media, ha di che incazzarsi. Però vertici del Paese accusano forze esterne di
fomentare la rivolta e di sostenerla. Ma da parte di chi? La Russia putiniana
che già ha conosciuto, e combattuto, sul fronte ucraino allerta i suoi
“portatori di pace” per possibili sostegni armati alla leadership kazaka,
mentre l’ipotesi di un intervento viene annunciata dal premier armeno Pashinyan.
Non è un caso che lo faccia lui, perché in tal modo rientra in gioco lo scontro vissuto nel settembre 2020 fra il suo Paese e l’Azerbaijan attorno al
Nagorno-Karabakh, con tanto di eserciti contrapposti e protettori russo e turco
al fianco. Allora il temuto coinvolgimento di Mosca e Ankara non ci fu, anzi un
intervento diplomatico di Putin determinò la chiusura delle ostilità con lo
scorno degli armeni e la soddisfazione di Erdoǧan. I due presidenti-autocrati
dopo aver condiviso la ‘pacificazione siriana’ erano impegnati a cogestire
l’intricato panorama libico e fra affari e geostrategie si son tenuti bordone.
Ora la tensione potrebbe riprendere. Nei mesi scorsi il presidente Tokayev ha
compiuto scelte in materia di sicurezza differenti dal passato. Acquistando i
temibili droni turchi e guardando a quell’ombrello, commerciale e non solo, di
nazioni panturche (Organizzazione degli Stati turchi) proposto da Ankara. Un
passo innaturale per il vecchio Nazarbayev, un azzardo per il delfino che
appaga la smania erdoǧaniana di supremazia regionale e irrita il Cremlino che
ai confini non vuol perdere Stati satelliti o amici. Se le fibrillazioni kazake,
oltre alle maldestre liberalizzazioni dei carburanti, siano sostenute anche da
fomentatori esterni, occorrerà capirne il colore e l’orientamento dal momento
che i presidenti russo e turco, da giocatori incalliti, sorprendono nelle decisioni e nei bluff.
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