Dice un proverbio: ”Un toro
non diventa re entrando nel palazzo, è il palazzo che diventa fienile”. E
ancora: “Una testa coronata diventa più
saggia, vediamo che non è vero”. Tagliente saggezza dei motti che se si
trasformano in metafore, come il portavoce del presidente turco Erdoğan sta
insinuando per accusare la nota giornalista Sedef Kabaș, possono produrre danni
gravi: da uno a quattro anni di reclusione. Per ora la commentatrice televisiva
ha negato ogni riferimento al Capo dello Stato, ma Fahrettin Altun, sua voce
all’esterno del Palazzo, è tranciante: “Una
sedicente giornalista insulta clamorosamente il presidente su un canale
televisivo col solo scopo di diffondere odio”. La cosa si fa seria e le registrazioni
di Tele1 vanno in mano alla
magistratura. Kabaș non è proprio l’ultima arrivata in fatto d’informazione e
conduzione televisiva. Dopo un primo periodo alla Cnn International, dalla fine degli anni Novanta ha condotto
programmi e interviste per diverse tv turche. Quindi ha intrapreso uno studio e
un dottorato presso l’Università di Marmara su un tema delicato: la qualità
delle interviste nel contesto giornalistico della stampa turca, mettendo in
discussione quella che definisce “l’élite del discorso” nell’orientare le
percezioni del pubblico. Nei suoi programmi in video ha dialogato con
intellettuali e letterati. Poi s’è infilata nello “scandalo corruttivo del
dicembre 2013”, occupandosi ovviamente dei risvolto socio-politici. Si trattò
d’indagini su: abuso d’ufficio, corruzione, concussione, tangenti, contrabbando
in cui venenro coinvolti ministri (Interno, Economia, Ambiente) del governo
Erdoğan, a quell’epoca premier. Indagato anche suo figlio Bilal. La dimissione
dai rispettivi dicasteri e un rimpasto governativo attenuarono l’inchiesta
giudiziaria. Successivamente il partito di maggioranza Akp accusò i magistrati e i poliziotti coinvolti nello scavo
documentario e negli interrogatori, di agire con intento politico, quali
aderenti al movimento gülenista, ex alleato con cui Erdoğan era entrato in
durissimo conflitto. L’operato giornalistico su quella vicenda di scontri
intestini rimasta in buona parte oscura, non giovò alla Kabaș, evidentemente bollata,
dal circolo del premier poi presidente, come una voce sgradita. Nel 2019, in un
clima autoritario ben più pesante di quello del quinquennio precedente, la conduttrice
incappò in una condanna di circa un anno proprio per “insulti al presidente”, pena
sospesa e rinviata. Ora, a seguito di quel precedente, la giornalista è agli
arresti e rischia fino a quattro anni di
reclusione. La direzione di Tele1 con
Merdan Yanardag ha criticato l’iniziativa repressiva: “Questa posizione è un tentativo d’intimidire giornalisti, media e
società”. Reprimende per boutade anche
meno esplicite hanno precedenti: nel 2014 l’ex miss Turchia, Merve Buyuksarac,
aveva condiviso sul suo profilo social un post satirico sull’inno nazionale
che, per le denunce da parte di alcuni cittadini, conduceva chi aveva fatto
girare il post davanti ai pubblici ministeri. La modella venne condannata a
quattordici mesi di galera, il suo avvocato la difese sostenendo che la parodia
non le appartenesse, non era stata elaborata da lei. La pena venne sospesa a
condizione che non ci fossero recidive nei cinque anni successivi. Da quella
fase la stretta autoritaria è cresciuta: si sono registrate oltre 160.000
indagini per presunti insulti all’autorità statale nella persona del
presidente. Se da una parte 35.500 sono state archiviate, quasi 13.000 hanno
prodotto arresti.
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