La
fisicità di Alberto Michelotti ti travolgeva, sempre. Su un campo di calcio averlo come
marcatore, poteva essere più ingombrante che come arbitro. Ma la stazza, che
sentivi anche quando ti sedeva al fianco per osservare foto dei bei tempi del
suo calcio, ch’erano anche i bei tempi d’un certo calcio, era colma di gioia di
vivere. L’aveva appresa da ragazzo dietro la mamma, in condizioni che definire essenziali era fare un complimento. Decoro tanto, denari non ne vedeva quel
popolo inurbato di qua e di là dal ‘Perma’. E chi ricordava che Oltretorrente le camicie nere non erano arrivate per l'ardore degli 'Arditi del Popolo', non viveva sicuro fino a tutto
il percorso della guerra. Quella Parma che si ritrova dietro la statua al partigiano
è la città proletaria da cui veniva l’Albertone. Forte, roccioso già da
giovanotto quando giocava portiere e lavorava da meccanico. Sistemato poi nella ‘sua’
officina che ricordava orgoglioso da uomo fatto con le sue grandi
braccia, e il calcio non più giocato ma diretto, in un mondo dove i fischietti
giravano solo in mano a ragionieri e assicuratori, per quanto alcuni meritori e
impeccabili per il ruolo. Il giovanottone parmigiano dalla faccia aperta, la
battuta dialettale in tasca, usata quanto i cartellini del mestiere, sembrava
un marziano. Arrivò tardi alla Scala del calcio - San Siro, Comunale, Olimpico
- ma ci rimase da sovrano. Quando lasciò al San Paolo lo omaggiarono col Modugno
nazionale. E gesti suoi, non stizzosi, però seri e severi come la legge può
essere, intaccarono un Totem chiamato Gianni Rivera, da lui espulso, contro l’universo
mondo, forse con l’unico assenso del Giuànbrerafucarlo che non amava gli abatini. A calcio
e sport, suoi spazi conosciuti dai più - ai quali ha offerto emozione,
passione, sorrisi (ah, quella risata da simpatica canaglia che non era,
perché buono e generosissimo) e un’infaticabile dono divulgativo - univa l’altro
incommensurabile ardore: la melomanìa. Passione morbosa sì, per la musica che,
immagino, i loggionisti del Regio
hanno medesima degli altri Olimpi musicali, con la dote geografica d’avere a
tiro di schioppo Busseto e Roncole, lì dove il Maestro ha lasciato che il tempo
si fermasse. Non si fermava mai Alberto, nei suoi rapporti d’arte canora che
l’aveva insignito – onore e onere – del ruolo di Don Carlos, nella prestigiosa
istituzione cittadina del “Club dei 27”.
E come dimenticare un giorno d’ancora
inverno, quando il giovanotto plurisettantenne ch’era, mi accoglieva fra le
braccia vicino alla statua dell’eroe. “E
l’altra che amo?” diceva l'ospite. “Certo” e
subito passammo per i giardini a salutare il simbolo cittadino col mitra
d’ordinanza. Parlare fitto, calcio che fu, calcio del momento, nasi storti,
qualche melanconìa, dopo un pasto luculliano in ora quasi da convento, giungeva l’attimo
del Rigoletto. S’entrava con Alberto Don Carlos nel Ducale. Un onore da
piangerci al ricordo. E gustare le sublimi note, fra Maddalena e Gilda, con
commenti e chiacchiere dopo una giornata da leoni. Resti per sempre Alberto,
dal pallone al palco. Il calcio non ha mai conosciuto un figlio del popolo così
gioiosamente appassionato della vita, dei sentimenti, della gente.
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