mercoledì 12 gennaio 2022

Tehreek-e Taliban, una vittima trasversale

E’ rimasto ucciso più per il suo passato che per il presente Khalid Balti, noto anche come Muhammad Khorasani, nominativo di battaglia poi adottato da altri portavoce talebani. Era un leader dei terribili Tehreek-e Taliban che dal 2007 hanno messo a ferro e fuoco il Pakistan. Una nota dell’Intelligence di Islamabad, ripresa dall’emittente Al Jazeera, sostiene che attualmente Balti non ricoprisse incarichi di vertice nel gruppo, considerato fra i più agguerriti del fondamentalismo islamico. L’agguato s’è svolto nella provincia afghana del Nangarhar, lungo il poroso territorio che la separa dal Paese confinante. Chi abbia sparato non è chiaro, ma negli ultimi tempi più frequenti sono diventati i pattugliamenti dell’esercito pakistano che teme scambi fra nuclei taliban di casa e quelli afghani. Quest’ultimi non sono solo gli attuali governanti di Kabul, bensì i dissidenti del Khorasan con cui i TTP condividono il piano jihadista di seminare violenza e terrore per disarticolare lo Stato. Nello scorso novembre, quando il premier pakistano Imran Khan aveva avviato colloqui coi Tehreek per ricomporre le tensioni che da un quindicennio insanguinano il Paese, il ministro degli Esteri afghano, il turbante Muttaqi, s’era offerto per un’intermediazione. Dopo un mese l’avvicinamento in terra pakistana era naufragato e con esso il cessate il fuoco sottoscritto dai TTP. Il loro capo, mullah Fazlullah, si mostrava scontento, soprattutto per la mancata liberazione d’un centinaio di prigionieri l’unico loro scopo della trattativa. 

 

Dal canto suo il premier cercava di attenuare lo scontro col fondamentalismo che ha contato finora 25.000 vittime fra le varie componenti e la popolazione inerme. E poi rilanciare il sostegno al proprio partito (Movimento del Pakistan per la Giustizia) e a se stesso tramite la potente lobby militare che, a detta dell’opposizione, ne ha decretato l’elezione nel 2018. Almeno la prima parte del piano è saltata e se la popolarità di Khan è in declino, così affermano gli osservatori interni, i militari potrebbero cercare nuovi volti su cui poggiare i propri interessi. Sembra, infatti, tramontata la lunga fase con cui, fra golpe palesi e mascherati, le Forze Armate scegliessero fra le proprie file i leader politici. E accantonate le soluzioni dei clan laici infarciti di corruzione - da Nawaz Sharif ad Ali Zardari, tutti caduti, tutti indagati e condannati - mascherarsi dietro il campione-guascone Khan poteva rappresentare per la lobby delle stellette una strada percorribile. Ma l’attuale governo vede complicarsi la vita. Un po’ per fattori contingenti legati alla pandemia di Covid, apparsa comunque in Pakistan meno drammatica rispetto a quanto accade allo storico nemico indiano, però appaiono le crepe dell’economia. E sono enormi. L’attuale battaglia parlamentare coi partiti storici (Lega Musulmana, Partito Popolare) ruota attorno al progetto di legge denominato ‘minibudget’ proposto dall’esecutivo. Si tratta d’un taglio all’esonero di tasse per merci di consumo, soprattutto alimentari, ma anche farmaci e telefoni portatili che coinvolgono decine di milioni di famiglie e gravano su quelle meno abbienti. Secondo gli analisti proprio queste fasce subiranno ulteriori colpi inflattivi già conosciuti nel 2021. Il guascone Khan, volendosi allontanare dall’interessato abbraccio statunitense, aveva dichiarato di morire piuttosto che chiedere prestiti al Fondo Monetario Internazionale. E’ dovuto tornare sui suoi passi. La contropartita consiste nell’attuare riforme, anche impopolari, su cui il governo di Islamabad sta facendo marcia indietro. Ballano sei miliardi di dollari, previsti nel 2019 e poi bloccati. 

 

Un’altra casseforte cui il vertice pakistano ha guardato è quella cinese. Negli incontri ufficiali avuti con Xi Jinping in persona, i progetti di Pechino erano, come s’usa fare da quelle parti, ciclopici: 60 miliardi di dollari per avviare corridoi economico ed energetico e trasporti elettrificati per i quali le aziende cinesi fornirebbero infrastrutture. Il ricambio riguarda la sicurezza sul pericolo jihadista che vede i Tehreek e altri gruppi del radicalismo pakistano fare comunella coi militanti uiguri. In questi mesi la ricerca di sostegno economico lo spavaldo Khan l’ha condotta anche sul fronte saudita. E l’ancor più spregiudicato Bin Salman non se l’è fatto ripetere, ben contento di ampliare verso un Medioriente più “orientale” l’influenza del regno. Il principe è atterrato a Islamabad, ricevuto con tutti gli onori, ha promesso e lanciato offerte. Pakistan e Arabia Saudita sono due competitori regionali ricchi l’uno demograficamente, l’altro finanziariamente e hanno un comune denominatore: il fanatismo islamico. Non è un segreto che gli emiri sauditi finanzino scuole coraniche d’impianto wahhabita in giro per il mondo. E il Pakistan, su questo fronte abbiente con le sue madrase del radicalismo deobandi, non avrebbe bisogno d’ulteriori scioccanti impulsi. Ma nel Paese dove la sfrontatezza politica è, e non da oggi, costume del potere ci si può attendere ogni mossa. L’esercito pakistano resta un padrone-creatore, però i jihadisti d’ogni sigla possono continuare i loro giochi e ringraziano la politica ufficiale.   


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