Ha da poco superato i cinquant’anni, 51 per la precisione,
l’ennesimo uomo di fiducia del presidente Erdoğan, e attuale ministro dell’Interno
turco - che lanciando la polizia sugli studenti Bogazici, quelli della prestigiosa università del Bosforo in
rivolta contro la nomina tutta di parte del rettore - li ha anche etichettati
con l’insulto: “Devianti Lgbt”. La
perdita dei capelli decisamente invecchia l’aspetto di Süleyman Soylu, ma al di
là delle apparenze è la sostanza politica
a renderlo funzionale al braccio di ferro governativo e fedele, fedelissimo, a
chi come il presidente antepone la venerazione alla stessa ortodossia. E non ci
riferiamo al credo islamico che il Sultano ricorda e ostenta in ogni apparizione
pubblica, bensì all’appartenenza, al clanismo che supera lo stesso confine
dell’Adalet ve Kalkınma Partisi. Altri
sodali di questo partito - pezzi da novanta come l’ex presidente Gül, l’ex
ministro degli Esteri e premier Davutoğlu, l’ex capo del dicastero economico
Babacan - hanno rotto con l’odierno Atatürk, di fatto autoemarginandosi.
Nessuno di loro, pur lanciando creature politiche, è riuscito a impensierire
Erdoğan, che nel partito-regime dell’Akp promuove solo fedelissimi. Chi gli
gira le spalle ha come unico destino il fallimento. Dopo aver ricoperto per un
anno (2015) la carica di ministro del Lavoro Soylu è finito agli Interni
nell’agosto 2016. Quando iniziava il terremoto del repusti antigolpista. Sostituì
un dimissionario Efkan Ala, altro fedelissimo che s’era fatto le ossa nelle
province del nord-est, fra le province kurde di Batman e Diyarbakır, dove i
contrasti con quella comunità erano elevati anche nella fase “pacifica” dei
primi anni 2000. Erdoğan assegnava ad Ala un dicastero tanto delicato sebbene
non fosse neppure in Parlamento. La spinta per le sue dimissioni, dopo critiche
rivoltegli per la non efficace gestione della repressione contro il Pkk, giunsero
per le nomine ambigue da lui effettuate: capi di polizia, magistrati, burocrati
tutti poi accusati di aderire al movimento gülenista che aveva organizzato il fallimentare
golpe di luglio.
Spazio, dunque, a Soylu, soggetto cui piace da
morire la linea divisiva voluta dal presidente. Col tempo s’è fatto crescere un
paio di baffi per somigliargli. Certo la capigliatura non c’è più, però Süleyman
nella polarizzazione ci sguazza, e giù ad additare colleghi del Meclis rei
d’appoggiare i terroristi. L’accusa vola mica solo sul Partito democratico dei
popoli, anche sui placidi repubblicani del Chp. Insomma Soylu, fa professione
di altissima fedeltà. E lo conferma quando da ministro dell’Interno rimuove
dall’incarico numerosi sindaci dell’Hdp, tutti regolarmente eletti. L’ennesimo
servizio al presidente. Eppure Süleyman non nasce islamista. Diciottenne aderiva
al Democrat Party, raggruppamento
conservatore formatosi dopo il golpe del 1980. All’epoca era affascinato da un
non più giovane Demirel che prima di Özal, il politico del boom liberista di
quegli anni, aveva creato il mito dell’umo che si fa da sé, raggiungendo i
vertici della nazione. Una leggenda ritrovata in Erdoğan, ma non nell’immediato
della sua ascesa politica. Solo nel 2012 Soylu entrerà nell’Akp, dopo
un’espulsione dallo storico partito per il quale aveva rappresentato uno dei
maggiori distretti di Istanbul (Gaziosmanpașa). Lo cacciarono per aver aderito
alla campagna referendaria che introduceva nella Costituzione norme conformi a
leggi dell’Unione Europea. Per la cronaca il referendum ottenne il 57,88% di consensi.
Da quel momento Soylu fu fulminato sulla via di Ankara, entrando in Parlamento
e al governo. Che l’ha difeso un anno fa dopo le feroci critiche rivoltegli per
aver ordinato, da un giorno all’altro, il coprifuoco in oltre trenta città a
causa del Covid. I turchi s’infuriarono, mercanti in testa. Lui, offeso, si
dimise. Invece dalla presidenza partiva il suo salvataggio. Forse anche per
questo è diventato ancora più zelante col sistema politico che l’ha adottato.
Le scudisciate sulla protesta universitaria ha avuto duri risvolti nelle piazze di Istanbul, Ankara, Izmir dove
giovani coinvolti nel sostenere la lotta dei Bogazici hanno trovato manganelli, idranti, lacrimogeni, gas
urticanti, l’armamentario poliziesco “benefico” che gli oppositori conoscono da
anni, insieme a fermi e arresti. Il rischio è ciò che ne può derivare: le
accuse di complotto contro lo Stato e il marchio di terrorismo. Questo è
diventato l’alibi con cui il governo frena non solo proteste, ma ogni
pronunciamento non conforme alle posizioni statali, che poi sono quelle dei
partiti di potere: islamici e lupi grigi. Eppure un’agenzia rende noto un
recente sondaggio sul tema dell’attuale dissenso universitario: il 69% degli
intervistati, sebbene in forma anonima, sostiene chi s’oppone all’incarico
calato dall’alto che premia un altro fedelissimo del presidente - Melih Bulu -
assegnandogli il rettorato sul Bosforo. Oltre a opporsi a un’investitura
partitica, gli studenti e pure diversi docenti di quell’università, difendono
la propria tradizione antigerarchica, la voglia di dialogo, il bisogno di libero
pensiero. Con la loro azione s’oppongono al verticismo presente nelle altre
università turche, dove regnano silenzio, omologazione, autoritarismo. Dicono
di lottare per rendere libere tutte le accademie del Paese. La resistenza si
sta allargando nonostante gli oltre cinquecento arresti e la solidarietà con la
protesta è presente in 38 province, anche in luoghi non deputati allo studio. Nell’odierna
Turchia il problema è come trasferire l’opposizione nella vita quotidiana. Il
voto delle amministrative del 2019 ha rappresentato uno smacco per l’Akp che ha
perso la guida di tutte le grandi città. Eppure nel Paese l’alleanza
islamo-nazionalista tiene, le campagne patriottiche lanciate in politica estera
e sul versante economico, trovano ancora un consenso trasversale fra strati
popolari e imprenditoriali.
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