Uno dei portavoce talebani a Doha ha lanciato l’ennesimo
invito, che è quasi un monito, per la ripresa dei colloqui fermi da oltre un
mese. C’è un cambio di staff fra gli statunitensi - Joe Biden introduce nuovi
collaboratori al gran cerimoniere degli incontri, Khalilzad, confermato dal
nuovo capo della Casa Bianca - ma il surplace
sembrerebbe foriero di ripensamenti. Le delegazioni che firmarono l’accordo
un anno fa ricalcano le posizioni: gli americani nel chiedere la rigida applicazione
d’un cessate il fuoco, che non c’è mai stato. L’ultimo sangue sparso risale a due
giorni fa con un doppio attentato a Kabul e Lashkar, obiettivi governatori e
amministratori, vittime reali alcuni passanti. I turbanti vogliono il ritiro totale
delle truppe Nato, fra cui circa 3.000 marines, e anche su questo versante
tutto è bloccato. Dopo dodici mesi di promesse suggellate con tanto di firme
ufficiali, ognuno ribadisce che terrà fede a quanto pattuito solo quando
l’altro farà altrettanto. Ma chi inizia? Un circolo vizioso che non fa
progredire d’un centimetro la situazione. In tal senso la diplomazia perde
colpi, anche per la presenza di altri attori. I fuori tavolo del governo di
Kabul, nella persona di primo piano: il presidente Ghani, detestato dai
taliban, finora snobbato dal realismo politico di Washington che gli ha
preferito il vice Adbullah e rappresentanti vari d’una sedicente società civile
(in vari casi figli di potentati locali presenti nella Loya Jirga e fuori). E i jihadisti dell’Isil, sia nella veste dei
dissidenti del Khorasan, sia come altri aggregati.
I think tank di parte statunitense sanno che uno stallo
prolungato non giova ad alcuna soluzione. Egualmente il gruppo di trattativa
che Akhundzada ha messo in mano a Baradar se sta sfiorando il traguardo di
tornare a governare Kabul, pur in condominio con altri fondamentalisti e non, può
perdere un’occasione d’oro. Perciò la mega diplomazia internazionale ha smosso i
suoi rappresentanti: il generale McKenzie da parte statunitense e Zamir Kabulov
inviato di Putin, per sondare le posizioni pakistane e far intercedere
Islamabad per bloccare la sequela di attentati. Il Pakistan dovrebbe agire su
un doppio binario: quello dell’ortodossia talebana che gestisce le trattative e
attraverso la sua Intelligence sulla sigla jihadista. Una sola esse divide l’Isi
di Islamabad dall’Isis del Khorasan, ma dietro l’acronimìa certe strategie del
caos collimano, ben oltre il credo fondamentalista. C’è poi la gran massa per cui
non cambia nulla: milioni di dannati afghani, gli sfortunati che muoiono per
via stroncati dalle esplosioni mentre arrangiano un lavoro anche per un paio di
dollari al giorno, quando va bene. E chi muore di fame nei ghetti ai margini
delle città. Le Ong tuttora impegnate in quelle latitudini dichiarano che i
fondi internazionali sono diminuiti, povertà e disoccupazione crescono
esponenzialmente, la sopravvivenza abbrutisce gli individui che vendono figli e
parte dei propri organi per poter mettere qualcosa sotto i denti.
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