martedì 23 febbraio 2021

Afghanistan, tutto fermo da un anno

Uno dei portavoce talebani a Doha ha lanciato l’ennesimo invito, che è quasi un monito, per la ripresa dei colloqui fermi da oltre un mese. C’è un cambio di staff fra gli statunitensi - Joe Biden introduce nuovi collaboratori al gran cerimoniere degli incontri, Khalilzad, confermato dal nuovo capo della Casa Bianca - ma il surplace sembrerebbe foriero di ripensamenti. Le delegazioni che firmarono l’accordo un anno fa ricalcano le posizioni: gli americani nel chiedere la rigida applicazione d’un cessate il fuoco, che non c’è mai stato. L’ultimo sangue sparso risale a due giorni fa con un doppio attentato a Kabul e Lashkar, obiettivi governatori e amministratori, vittime reali alcuni passanti. I turbanti vogliono il ritiro totale delle truppe Nato, fra cui circa 3.000 marines, e anche su questo versante tutto è bloccato. Dopo dodici mesi di promesse suggellate con tanto di firme ufficiali, ognuno ribadisce che terrà fede a quanto pattuito solo quando l’altro farà altrettanto. Ma chi inizia? Un circolo vizioso che non fa progredire d’un centimetro la situazione. In tal senso la diplomazia perde colpi, anche per la presenza di altri attori. I fuori tavolo del governo di Kabul, nella persona di primo piano: il presidente Ghani, detestato dai taliban, finora snobbato dal realismo politico di Washington che gli ha preferito il vice Adbullah e rappresentanti vari d’una sedicente società civile (in vari casi figli di potentati locali presenti nella Loya Jirga e fuori). E i jihadisti dell’Isil, sia nella veste dei dissidenti del Khorasan, sia come altri aggregati. 

 

I think tank di parte statunitense sanno che uno stallo prolungato non giova ad alcuna soluzione. Egualmente il gruppo di trattativa che Akhundzada ha messo in mano a Baradar se sta sfiorando il traguardo di tornare a governare Kabul, pur in condominio con altri fondamentalisti e non, può perdere un’occasione d’oro. Perciò la mega diplomazia internazionale ha smosso i suoi rappresentanti: il generale McKenzie da parte statunitense e Zamir Kabulov inviato di Putin, per sondare le posizioni pakistane e far intercedere Islamabad per bloccare la sequela di attentati. Il Pakistan dovrebbe agire su un doppio binario: quello dell’ortodossia talebana che gestisce le trattative e attraverso la sua Intelligence sulla sigla jihadista. Una sola esse divide l’Isi di Islamabad dall’Isis del Khorasan, ma dietro l’acronimìa certe strategie del caos collimano, ben oltre il credo fondamentalista. C’è poi la gran massa per cui non cambia nulla: milioni di dannati afghani, gli sfortunati che muoiono per via stroncati dalle esplosioni mentre arrangiano un lavoro anche per un paio di dollari al giorno, quando va bene. E chi muore di fame nei ghetti ai margini delle città. Le Ong tuttora impegnate in quelle latitudini dichiarano che i fondi internazionali sono diminuiti, povertà e disoccupazione crescono esponenzialmente, la sopravvivenza abbrutisce gli individui che vendono figli e parte dei propri organi per poter mettere qualcosa sotto i denti.

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