Se la pace non cammina, ritorna la guerra. Devono ammetterlo a
Kabul: gli attentati riprendono il ritmo di due anni addietro. Non lo dice il apertamente
il governo, ma gli uomini del Sigar, l’Ispettorato speciale per la
ricostruzione. E sono attentati talebani, non dello Stato Islamico del Khorasan
che dalle trattative di Doha era escluso e si escludeva da sé. Peraltro negli
ultimi tre mesi coi marines poco schierati nei presidi di terra, l’impatto offensivo
ricade tutto sul claudicante esercito locale, sempre in affanno sul tema di
vigilanza e sicurezza. Più efficiente l’apparato statistico che dall’inizio di
marzo ha conteggiato un numero di attacchi doppio rispetto all’anno precedente.
Trattandosi di una fase dell’anno tradizionalmente scelta dalla guerriglia quale
“campagna di primavera”, la notizia non è confortante. Il comando statunitense
tuttora presente nella capitale afghana, punterebbe a un’applicazione dei
propositi sanciti con tanto di firma in calce a conclusione della trattativa.
Però, per bocca del generale responsabile Austin Miller giunge anche la
domanda: “Cosa dovremmo fare noi, restare
a guardare questi attacchi?”. In realtà le offensive non sono a senso
unico. Proprio Baradar, il mullah che guidava il gruppo talebano negli incontri
in Qatar, nelle scorse settimane ha denunciato la ripresa di operazione
antiguerriglia da parte dell’esercito di Ghani, con tanto di supporto dai cieli
di elicotteri e droni americani. Dunque le accuse s’intrecciano.
Proprio un rapporto Sigar ufficializza che ad aprile, fra una
ripresa di attentati e di azioni antiguerriglia, il generalone Usa ha attivato un
personale canale d’incontri (finora un paio) coi taliban, per capire come
gestire la piazza di Kabul. Gli accordi di Doha non proibiscono ai turbanti di
colpire obiettivi del governo definito fantoccio, quest’ultimo è alleato di
Washington, ma i rapporti sono ai minimi storici. Ciò che preoccupa Miller è
limitare l’impatto della violenza nella capitale, tenerlo basso, controllarlo. Sembra
un controsenso, ma è conforme all’agenda sostenuta dal Segretario di Stato
Pompeo che ha punito Ghani, boicottatore della concordata liberazione dei
miliziani prigionieri, tagliandogli un miliardo di dollari di aiuti. Comunque i
talebani sono infuriati. Ribadiscono che non si può esistere una situazione
tranquilla senza punire chi non rispetta gli accordi. Sostengono, poi, d’aver
ripreso l’offensiva, ma certi agguati non provengono dalle proprie file. E
richiamano, quindi lo spettro dell’Isil che, accordi o meno, per proprio conto tengono
vivi gli attentati. “La violenza colpisce
la volontà popolare di accettare compromessi e discredita la promessa del
processo di pace” ha dichiarato in un’intervista ai media di casa mister
Miller. Non chiarendo, però, se per violenza s’intenda anche quella dei suoi
reparti di terra e d’aria. Mentre i graduati afghani non cercano voli
pindarici, non credono al processo di pace e ritengono che i mesi di trattative
abbiano rafforzato i reclutamenti talib in tante province. Loro sono per la
guerra e tirano per la giacca i marines, incitandoli a restare e combattere.
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