Chi definisce balaha, che vuol dire dattero,
Abdel Fattah Al Sisi, il presidente-golpista che continua a tingere di sangue l’Egitto?
Semplice: il popolo. Non solo quel popolo che lo odia, anche quello che
l’accetta per paura. Un po’ come l’italiano medio d’un tempo, che obbediva al
puzzone-Mussolini pur detestandolo, tanti egiziani chinano la testa davanti al
dittatore e lo sbeffeggiano a mezza bocca. Ma certi giovani coraggiosi e scanzonati,
che credono nella democrazia e nell’ironia, non si autocensurano. Uno di loro
era Shadi Habash, che la gioia di vivere la trasmetteva con un sorriso
accattivante, e da ieri aggiunge il suo nome alla lunghissima lista dei defunti
in carcere. Per CoronaSisi, non per Coronavirus, sebbene nelle galere cairote
si muoia anche di quello. Rispetto ad altri tiranni il dittatore egiziano non è
stato neppure sfiorato dall’idea d’una moratoria sulle carcerazioni di persone
che non possono essere neppure annoverate fra gli oppositori. Shadi era uno di
loro. Aveva partecipato al montaggio d’un video (diventato virale prima
d’essere cancellato dai social) in cui compariva il nomignolo del generale
egiziano, che non ha certo nell’altezza un punto di forza. Dunque, è bollato
come dattero. Per quel video Shadi era finito nella peggiore galera egiziana,
la famigerata Tora nella capitale.
Aveva vent’anni quando confezionava quel materiale,
considerato peggio di una bestemmia contro Allah. Conteneva la canzonetta con
cui il cantante Rami Essam canzonava il generale. Rami, per non fare la fine di
tanti connazionali, era prudentemente riparato in Svezia. Non Shadi che ha
terminato una vita breve ma intensa a ventidue anni. Davanti al suo malore i
compagni di cella invocavano l’aiuto delle guardie carcerarie. Nessuno ha mosso
un dito. Ieri il pesante portone s’è aperto per portarne via il cadavere. Uno
di meno, conteggiano nei palazzi del lubrico Potere. Uno di più in una lista immensa
di morti ammazzati, oppure fatti morire nelle immonde prigioni dove il ‘dattero’
interna anche chi semplicemente ne deride la goffaggine, non fisica, ma
mentale. Shadi era un artista, amante della fotografia, una professione
egualmente perseguitata in quel Paese, a meno che non si ponga al servizio
della lobby militare e inquadri l’esercito che sfila, vigila, protegge (chi?
cosa?) o lanci i primi piani di mister Balaha.
Habash non era fra costoro. E’ finito nell’immenso cimitero dei deceduti,
dentro e fuori le galere, che è l’Egitto di Sisi. Dove prosegue il perfido tormento
dello “stop and go” che una magistratura asservita all’esercito ha adottato nei
confronti di migliaia di giovani. Fermati, arrestati, rilasciati e ricondotti
alla spirale di partenza.
Ribadiamo, non necessariamente oppositori, rapper, blogger,
giovani e basta. O ricercatori come Patrick Zaky, di cui s’è parlato perché
veniva da Bologna, perché la sua famiglia è benestante e qualche contatto con
Ong internazionali l’ha preso. Ma è servito a poco, visto che resta tuttora
rinchiuso. Condizione comune con persone che non hanno goduto neppure d’una
traccia sulla stampa e se spariranno, com’è accaduto ad altri prima di loro, il
governo del Cairo potrà dire che quei casi non esistono. Come non esistono
quegli individui. E’ solo grazie a una rete non ancora tagliuzzata, ma
continuamente minacciata, di attivisti che dall’estero seguono la triste sorte
dei connazionali piegati, torturati, lasciati morire da secondini, poliziotti,
militari, che si sussurra di questo scempio. L’Egitto-lager che la geopolitica
e la geoeconomia fanno finta di non vedere, come bene sanno i genitori Regeni. Così
un ragazzo che chiameremo Khaled, per non metterne ulteriormente in pericolo la
già precaria condizione di carcerato-rilasciato-carcerato, è nuovamente
scomparso dopo essere passato per il commissariato di Kasr el Nil. I conoscenti pensavano fosse
stato rigettato in cella a Tora. Invece da alcune settimane di lui non si sa
nulla. Gli amici disperano. Hanno davanti agli occhi l’immagine martoriata di
Giulio Regeni e quella dei tanti ragazzi estratti esanimi dalle celle. Corpi
seviziati o denutriti. Un cartoccio di ossa e indumenti di cui, se va bene,
resta un nome. Da dimenticare.
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