sabato 2 maggio 2020

Egitto, l’ultima vittima di balaha-Sisi


Chi definisce balaha, che vuol dire dattero, Abdel Fattah Al Sisi, il presidente-golpista che continua a tingere di sangue l’Egitto? Semplice: il popolo. Non solo quel popolo che lo odia, anche quello che l’accetta per paura. Un po’ come l’italiano medio d’un tempo,  che obbediva al puzzone-Mussolini pur detestandolo, tanti egiziani chinano la testa davanti al dittatore e lo sbeffeggiano a mezza bocca. Ma certi giovani coraggiosi e scanzonati, che credono nella democrazia e nell’ironia, non si autocensurano. Uno di loro era Shadi Habash, che la gioia di vivere la trasmetteva con un sorriso accattivante, e da ieri aggiunge il suo nome alla lunghissima lista dei defunti in carcere. Per CoronaSisi, non per Coronavirus, sebbene nelle galere cairote si muoia anche di quello. Rispetto ad altri tiranni il dittatore egiziano non è stato neppure sfiorato dall’idea d’una moratoria sulle carcerazioni di persone che non possono essere neppure annoverate fra gli oppositori. Shadi era uno di loro. Aveva partecipato al montaggio d’un video (diventato virale prima d’essere cancellato dai social) in cui compariva il nomignolo del generale egiziano, che non ha certo nell’altezza un punto di forza. Dunque, è bollato come dattero. Per quel video Shadi era finito nella peggiore galera egiziana, la famigerata Tora nella capitale.

Aveva vent’anni quando confezionava quel materiale, considerato peggio di una bestemmia contro Allah. Conteneva la canzonetta con cui il cantante Rami Essam canzonava il generale. Rami, per non fare la fine di tanti connazionali, era prudentemente riparato in Svezia. Non Shadi che ha terminato una vita breve ma intensa a ventidue anni. Davanti al suo malore i compagni di cella invocavano l’aiuto delle guardie carcerarie. Nessuno ha mosso un dito. Ieri il pesante portone s’è aperto per portarne via il cadavere. Uno di meno, conteggiano nei palazzi del lubrico Potere. Uno di più in una lista immensa di morti ammazzati, oppure fatti morire nelle immonde prigioni dove il ‘dattero’ interna anche chi semplicemente ne deride la goffaggine, non fisica, ma mentale. Shadi era un artista, amante della fotografia, una professione egualmente perseguitata in quel Paese, a meno che non si ponga al servizio della lobby militare e inquadri l’esercito che sfila, vigila, protegge (chi? cosa?) o lanci i primi piani di mister Balaha. Habash non era fra costoro. E’ finito nell’immenso cimitero dei deceduti, dentro e fuori le galere, che è l’Egitto di Sisi. Dove prosegue il perfido tormento dello “stop and go” che una magistratura asservita all’esercito ha adottato nei confronti di migliaia di giovani. Fermati, arrestati, rilasciati e ricondotti alla spirale di partenza.

Ribadiamo, non necessariamente oppositori, rapper, blogger, giovani e basta. O ricercatori come Patrick Zaky, di cui s’è parlato perché veniva da Bologna, perché la sua famiglia è benestante e qualche contatto con Ong internazionali l’ha preso. Ma è servito a poco, visto che resta tuttora rinchiuso. Condizione comune con persone che non hanno goduto neppure d’una traccia sulla stampa e se spariranno, com’è accaduto ad altri prima di loro, il governo del Cairo potrà dire che quei casi non esistono. Come non esistono quegli individui. E’ solo grazie a una rete non ancora tagliuzzata, ma continuamente minacciata, di attivisti che dall’estero seguono la triste sorte dei connazionali piegati, torturati, lasciati morire da secondini, poliziotti, militari, che si sussurra di questo scempio. L’Egitto-lager che la geopolitica e la geoeconomia fanno finta di non vedere, come bene sanno i genitori Regeni. Così un ragazzo che chiameremo Khaled, per non metterne ulteriormente in pericolo la già precaria condizione di carcerato-rilasciato-carcerato, è nuovamente scomparso dopo essere passato per il commissariato  di Kasr el Nil. I conoscenti pensavano fosse stato rigettato in cella a Tora. Invece da alcune settimane di lui non si sa nulla. Gli amici disperano. Hanno davanti agli occhi l’immagine martoriata di Giulio Regeni e quella dei tanti ragazzi estratti esanimi dalle celle. Corpi seviziati o denutriti. Un cartoccio di ossa e indumenti di cui, se va bene, resta un nome. Da dimenticare.

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