mercoledì 13 maggio 2020

Afghanistan, le bombe dalla culla alla bara


Non c’è tempo per vivere nell’Afghanistan devastato da kamikaze e autobomba. Non c’è futuro nella tua vita di poche ore o pochi giorni. Così muori in fasce fra le braccia di tua madre, oppure muori tu e lei si salva. Se accade il contrario è davvero cosa peggiore. Perché da maschio, pur sopravvivendo ad altri attentati, se ti va bene finirai in un orfanotrofio, dove con difficoltà però sarai  nutrito. Altrimenti t’aspettano gli stenti della strada, col tuo corpicino offerto alla miseria che impera, le membra che possono essere offese, stuprate, usate da chicchessia. E da bambino c’è chi ti guarda e, oltre a sfruttarti col lavoro minorile, sonda il disorientamento per gettare il tuo cuore nella mischia del fondamentalismo armato. Oppure cuce sul tuo corpo una divisa a difesa del leader corrotto che un certo mondo geopolitico designa e t’indica di votare come Presidente. Se sei una bambina e futura donna, la vita sarà ancora più dura, dentro e fuori le mura domestiche. Le storie le conosciamo e, fra coloro che non hanno voce, solo le ribelli - che rischiano, ma quale alternativa resta? - danno una luce e vendono cara la pelle. Ieri a Kabul la strage di neonati e delle loro mamme, ventiquattro vittime e decine di feriti, inizialmente non rivendicata, è opera dello Stato Islamico del Khorasan. In tre si son fatti saltare in aria fra i reparti dell’ospedale gestito da Medici senza Frontiere, colpendo ancora una volta la comunità hazara, e anche alcuni sanitari del reparto più bello, quello che dà luce a voci nuove. Invece gli uomini che s’immolano, seminando morte, hanno creato il black out dell’orrore. Ghani ufficialmente dichiara che l’esercito non può limitarsi alla sicurezza (che palesemente non riesce a garantire) deve riprendere l’offensiva. Quasi in contemporanea, in un funerale d’un comandante di polizia nella provincia di Nangarhar, esplodeva un’autobomba e si portava via ancora più persone. Venticinque, ma come da copione i morti nelle ore saliranno perché fra il centinaio di feriti molti sono in condizioni disperati. Fra i deceduti accertati c’è un noto comandante delle Forze armate afghane che assisteva al rito funebre. Quest’attentato era stato immediatamente firmato dall’Isil. In un Paese trasformato nel trionfo della morte, che s’impone alla vita appena sbocciata, a chi la crea e la festeggia, oppure ai cuori spezzati che assistono un defunto e che trovano in quel luogo sepoltura per se stessi. In quel Paese resta il quadro desolante che vuole seppellire la vita appena compare un vagito. Se i boia sono i fanatici dell’Islam, il fanatismo di chi rimane avvinghiato a un modello spettrale che parla di risposta, di guerra, di popolo da vendicare non è da meno. Quel popolo andrebbe rigenerato, ma non può farlo chi gli offre come futuro solo la fuga da un inferno creato e conservato per decenni.  

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