Dicono pace e la
firmano. Sui tavoli diplomatici di Doha, dove per mesi i rappresentanti
talebani e statunitensi si sono incontrati sotto la regia di mister Khalilzad,
l’ambasciatore dell’accordo. Alla stipula, evidenziata con enfasi dal
Segretario di Stato americano Pompeo, erano presenti delegazioni di Pakistan, India,
Turchia, Indonesia, Uzbekistan, Tajikistan e Qatar. Gli annunci delle parti
hanno sottolineato ciò che a ciascuno, fra un alterco e l’altro, stava maggiormente
a cuore: il ritiro delle truppe Usa per i turbanti, la cessata ostilità per le truppe
a stelle e strisce. Se sarà una vera pacificazione, si vedrà nell’immediato
futuro, perché in quella latitudine anche i patti sottoscritti può portarseli
via il vento di interessi che restano contrapposti. I taliban per quanto hanno
fatto intendere sino alla vigilia dell’accordo non accettano collaborazioni con
l’apparato politico gradito a Washington, che con le presidenziali meno votate
dal 2001 ha rilanciato la coppia Ghani presidente e Abdullah premier. Gli Usa
perché mai dovrebbero chiudere la decina di basi aeree superattrezzate con
caccia e droni per controllare, spiare, bombardare nemici nella vasta area
dell’Asia centrale dove l’Afghanistan si colloca? Certo, per ora restano le
dichiarazioni del portavoce talib, lanciate ufficialmente davanti ai microfoni
dell’emittente Al Jazeera, di “una guerra che è finita”. I tempi per il
ritiro delle truppe americane è indicato attorno ai quattordici mesi. Comprenderanno
i 14.000 propri soldati e gli altrettanti dei 39 Paesi Nato che hanno dato
manforte e vite a quell’occupazione. Nulla si dice dei contractor che ammontano
a 30.000. Il ritiro, anche per questioni logistiche sarà graduale, ma la stessa
gradualità s’era discussa durante l’amministrazione Obama nel 2013-14. Tanto
che l’operazione Nato in corso, Resolute Support, introdotta dal gennaio 2015 è durata finora quattro
anni e due mesi, alternando i militari, non ritirandoli. Alle contraddizioni
passate e presenti il rappresentante del gruppo Internazionale di Crisi Robert
Malley risponde con un filosofico “Nessun
accordo è perfetto e anche questo non fa eccezione”. Vero, verissimo. Ma la
puntualizzazione può anche far pensare al peggio, che vuol dire quella carta
può essere stracciata. In futuro i talebani dovrebbero incamerare la
cancellazione dei loro membri dalla lista dei sanzionati, o forse sarebbe
meglio dire militarmente cacciati. In questi mesi hanno guadagnato il rilascio
dalle prigioni di cinquemila loro adepti, gran parte combattenti e non solo. Effettivamente i turbanti nell’ultima
settimana hanno completamente azzerato qualsiasi iniziativa di guerriglia, cosa
che nell’anno e mezzo di colloqui non era mai accaduta. Mentre fra dieci giorni
dovrebbe seguire l’apertura d’un confronto inter afghano. C’è da chiedersi chi
parlerà con chi. Per i talib l’attuale establishment del Paese non è altro che
un fantoccio al servizio dell’Occidente, dunque proprio l’auspicata continuità di
colloquio potrebbe creare il primo intoppo a un risultato che l’amministrazione
Trump vuole usare come ennesimo traguardo raggiunto nell’ambito della sua
ricandidatura presidenziale.
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