mercoledì 5 febbraio 2020

L’India di Modi non tira più


Nella grande nazione indiana le turbolenze di piazza degli ultimi mesi non hanno riguardato solo l’autonomia del Kashmir, che secondo i locali è stata azzerata dallo scorso agosto con l’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione imposta dal premer Modi. Né le proteste contro la successiva norma sull’accoglienza di minoranze etnico-religiose dai Paesi confinanti, che escludeva i musulmani. Tutto ciò continua a mobilitare. Però la gente scende per le strade anche per le crescenti difficoltà economiche, e in questo caso non si tratta di soli cittadini islamici. Il sensibile rallentamento economico è una realtà con cui gli indiani fanno drammaticamente i conti, nel senso che per tanti di loro il salario mensile non basta. Attualmente uno stipendio medio s’aggira sui 200 euro, ovviamente c’è chi ne guadagna molto meno e comunque cerca di tenersi il lavoro perché in troppe città s’aggira lo spettro della disoccupazione. In questi giorni la ministra dell’economia Nirmala Sitharaman ha annunciato un paio di misure per far tenere la rotta al governo: una riorganizzazione delle imposte e un piano di privatizzazioni. Questo coinvolge due pezzi pregiati dell’economia interna che verranno venduti: la compagnìa aerea nazionale Air India e la Life Insurance Corporation, l’assicurazione generale della nazione che era una vera istituzione. Sessantaquattro anni di vita, era sorta riunificando oltre 200 compagnie private, occupa 110.000 di indiani e vanta circa 300 milioni di clienti.
La Lic, finisce sul mercato dando vita a una delle maggiori capitalizzazioni borsistiche del continente-nazione, contabilizzata a oltre 100 miliardi di euro. Tutto per sostenere un’economia che non va, con un Pil fermo fra il 5 e il 6%, mentre gli esperti finanziari sostengono che il minimo accettabile dovrebbe essere l’8%. Peraltro gli osservatori economici, analizzando il programma che la ministra di Modi ha presentato a fine del 2019, guardano alla sua scommessa di privatizzazione come a un’incognita. C’è una lista di ben 6500 progetti e 1.300 miliardi di euro che coinvolgono prevalentemente trasporti, con la previsione di costruire un centinaio di aeroporti, energia e irrigazione. Quest’ultima coinvolge il settore agricolo che non ha più le percentuali di prodotto dei decenni passati, però continua a occupare centinaia di milioni di abitanti di tantissime aree rurali. Insomma la trasformazione dell’economia in senso tecnologico con un’ampia ricaduta occupazionale (Modi alla prima elezione nel 2014 prometteva 20 milioni di posti di lavoro all’anno) appare ferma. Ma gli stessi introiti maggiori che lo Stato pensava d’ottenere aumentando le imposte di vari prodotti dal 22% al 30% subirà un freno poiché potrebbe bloccare quella spinta al consumo che proprio il governo cerca d’incentivare. Coi bassi salari e l’aumento dei prezzi il mercato si ferma, un baco vizioso del vizioso sistema mercantile. Le rivendicazioni, dunque, si spostano sul fronte economicistico, forse anche per questo il diversivo del conflitto etnico-religioso pareva un salvagente. Ma non è escluso che l’onda anomala del conflitto sociale renda Modi un naufrago in un Oceano indiano sempre più agitato.  

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