Qual è la colpa di Patrick George Zaky, ventisettenne
egiziano, attivista e ricercatore all’Università di Bologna? Per il regime del
presidente-torturatore Al Sisi lui è: un diffusore di notizie false, un
istigatore di proteste di piazza, un attentatore del sistema politico e della
sicurezza nazionale egiziani. In una parola un terrorista. Per questo quando la
scorsa settimana, incautamente, ha provato a rientrare nel suo Paese dopo
cinque mesi trascorsi per gli studi nell’Università felsinea, è stato fermato
all’aeroporto del Cairo e condotto dai poliziotti in un luogo segreto. Come i
cento, come i mille e i diecimila attivisti egiziani che dal 2013 subiscono un
simile trattamento finendo in fetide celle di famigerate galere, dove vengono
seviziati e lasciati marcire con conseguenze letali per i più deboli. Oppure
spariscono, definitivamente assassinati. Alcuni, un caso a noi noto porta il
nome di Giulio Regeni, ricompaiono come cadaveri violati. Di altri si perdono
definitivamente le tracce e guai a cercarne notizie. Le strutture di sicurezza del
Cairo possono agire verso parenti, amici, attivisti, avvocati dei diritti che
cercassero di sapere qualcosa sulle misteriose scomparse. Pronti per loro le
accuse di terrorismo con cui l’apparato della forza e quello politico
terrorizzano novanta milioni di egiziani. Quelli che detestano tale sistema e
anche chi gli strizza l’occhio per consenso o timore di finir triturato nei
suoi ingranaggi repressivi.
Fior fior di associazioni internazionali dei diritti pongono da
anni domande alla politica internazionale attorno alle violazioni e al clima
liberticida avallato dalle più alte cariche dello Sato: il presidente Al Sisi, i
ministri dell’Interno (Ghaffar), degli Esteri (Shoukry), della Giustizia
(Marwan), apparati della magistratura sono implicati in prima persona in questa
saga dell’infamia assassina, ma non ne rispondono. Non l’hanno fatto neppure
davanti alle inchieste ufficiali dei procuratori di Roma che per due anni hanno
svolto indagini per scoprire responsabili e mandanti dell’omicidio Regeni.
Ufficialmente l’Egitto prigioniero del clan di Al Sisi ha ostacolato quelle
indagini facendosi beffa d’una nazione che le si mostra amica, chiedendole
aiuto in un’iniziativa di giustizia. In quattro anni non s’è mosso nulla e i quattro
governi italiani che si sono succeduti hanno ingoiato amaro e accettato quelle infamie.
Prigionieri, come sono stati e sono, degli affari economici che ci legano all’altra
sponda del Mediterraneo, con l’Eni a sostenere il mantenimento dei rapporti in
cambio dello sfruttamento dei giacimenti di gas, la Finmeccanica infoiata nella
fornitura di armi e il quadro geopolitico della Nato che inserisce il regime
militare egiziano nel gruppo degli alleati garanti del conservatorismo
ideologico-sociale-militare in Medio Oriente accanto alle petromonarchie del
Golfo. Per la cronaca Zaky aveva diffuso sui social media frasi come "Il governo egiziano limita il dissenso" oppure "voci contrarie non sono ammesse". E aveva la 'colpa gravissima' di collaborare con l'ong Egyptian Commission for rights and freedoms.
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