lunedì 12 ottobre 2020

Il Libano ad Hariri, tutto come prima

Il Libano che spera di salvarsi tornando una colonia parigina non poteva che rispolverare nel passato, seppure recente, un ipotetico primo ministro servile con l’Impero che fu. In realtà come in tanto Magreb e Mashreq la mano coloniale è rimasta tale nei decenni, nonostante le acquisite indipendenze. Ma specie al piccolo Libano - straziato dal quindicennio di guerra civile e dal rischio di finire fagocitato dalle smanie d’annessione israeliana e siriana - anche altre mani hanno contribuito a impedire un futuro. Mani che facevano discendere denaro, tanto denaro. Mani soprattutto saudite ed emiratine, ma pure iraniane. Capitali buoni per speculazioni edilizie e finanziarie che hanno drogato la pseudo emancipazione del Paese negli anni Novanta, quando a condurre il piano liberista era Hariri padre. Un progetto, è stato detto più volte, imploso su se stesso, annuncio di quel controllo che potenze regionali volevano avere del fragile sistema multiconfessionale. La durissima crisi interna che da oltre un anno spingeva in piazza giovani generazioni e anche cinquantenni e sessantenni coi conti correnti azzerati, diceva innanzitutto basta a qualsiasi ingerenza straniera, all’assistenzialismo economico che impediva lo sviluppo autoctono, al modello della spartizione confessionale foriero del clanismo e del clientelismo cronici patrigni verso la stessa massa dei gruppi etnico-religiosi che si spartiscono il potere. Ribellandosi al controllo del territorio l’avevano gridato per via i ragazzi poveri della cintura sciita, lo gridavano accanto agli ex ceti medi sunniti e drusi. Un’incrinatura minore s’intravvedeva fra i maroniti, seppure la crisi mordeva e seminava sfiducia pure lì. Le fiammate d’un anno fa capaci di bruciare le banche del centro e portare scompiglio fra le vetrine di Hamra, nel cuore della Beirut da godere, sono state niente davanti alla catastrofe del porto esploso per la ‘bomba al nitrato di ammonio’ a lungo serbata fra incuria, connivenze, omertà di politici, amministratori, forze dell’ordine, Intelligence e paramilitari in servizio permanente effettivo.
Davanti ai morti (oltre duecento), ai feriti, taluni menomati a vita (seimilacinquecento), ai senzatetto (trecentomila), ai senza speranze (centinaia di migliaia), la politica interna aveva promesso di cambiare. Dopo due mesi dalla tragedia d’agosto non solo non cambia nulla, ma riappare il modello noto col presidente Aoun al suo posto e il neo ricandidato alla carica di primo ministro, Hariri junior, che si sorridono e parlano di “ultima occasione per il Paese”. La ricca occasione sarebbe l’accondiscendenza al piano Macron: un classico pacchetto d’aiuti in stile imperialista che chiede in cambio asservimento geopolitico. A uno Stato fragile e disorientato si continua a non permettere un proprio sviluppo, si suggerisce un percorso che utilizzi servizi esterni, magari privilegiando quelle multinazionali francesi attive nell’Africa mediterranea come Veolia, e si farà opzionare lo sfruttamento dei bacini gasiferi di competenza libanese alla sorella per tutte le stagioni Total. Ecco, la popolazione desiderosa di cambiamento resta avvinta alla sua dannazione. E come Hezbollah e Amal si sono opposti al prosieguo del premierato flebile e confuso di Adib, l’asse para francese del presidente della Repubblica ripesca il fantoccio dal nome celebre, pur accartocciato dal tempo, dagli scandali personali, dalle maraldeggiate subìte dai padrini e padroni sauditi e lo ripropone alla guida d’un esecutivo. Del resto il suo partito Corrente Futuro continua a esistere, come esistono gli altri gruppi e clan di potere. Si ricomincia precisamente da dove si era lasciato il Paese: davanti a un cumulo di macerie.  

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