Il Libano che spera di salvarsi tornando una colonia parigina non
poteva che rispolverare nel passato, seppure recente, un ipotetico primo
ministro servile con l’Impero che fu. In realtà come in tanto Magreb e Mashreq
la mano coloniale è rimasta tale nei decenni, nonostante le acquisite
indipendenze. Ma specie al piccolo Libano - straziato dal quindicennio di
guerra civile e dal rischio di finire fagocitato dalle smanie d’annessione
israeliana e siriana - anche altre mani hanno contribuito a impedire un futuro.
Mani che facevano discendere denaro, tanto denaro. Mani soprattutto saudite ed
emiratine, ma pure iraniane. Capitali buoni per speculazioni edilizie e
finanziarie che hanno drogato la pseudo emancipazione del Paese negli anni
Novanta, quando a condurre il piano liberista era Hariri padre. Un progetto, è
stato detto più volte, imploso su se stesso, annuncio di quel controllo che
potenze regionali volevano avere del fragile sistema multiconfessionale. La
durissima crisi interna che da oltre un anno spingeva in piazza giovani
generazioni e anche cinquantenni e sessantenni coi conti correnti azzerati,
diceva innanzitutto basta a qualsiasi ingerenza straniera, all’assistenzialismo
economico che impediva lo sviluppo autoctono, al modello della spartizione
confessionale foriero del clanismo e del clientelismo cronici patrigni verso la
stessa massa dei gruppi etnico-religiosi
che si spartiscono il potere. Ribellandosi al controllo del territorio l’avevano
gridato per via i ragazzi poveri della cintura sciita, lo gridavano accanto
agli ex ceti medi sunniti e drusi. Un’incrinatura minore s’intravvedeva fra i
maroniti, seppure la crisi mordeva e seminava sfiducia pure lì. Le fiammate
d’un anno fa capaci di bruciare le banche del centro e portare scompiglio fra
le vetrine di Hamra, nel cuore della Beirut da godere, sono state niente davanti
alla catastrofe del porto esploso per la ‘bomba al nitrato di ammonio’ a lungo
serbata fra incuria, connivenze, omertà di politici, amministratori, forze dell’ordine,
Intelligence e paramilitari in servizio permanente effettivo.
Davanti ai morti (oltre duecento), ai feriti, taluni menomati a vita
(seimilacinquecento), ai senzatetto (trecentomila), ai senza speranze
(centinaia di migliaia), la politica interna aveva promesso di cambiare. Dopo
due mesi dalla tragedia d’agosto non solo non cambia nulla, ma riappare il
modello noto col presidente Aoun al suo posto e il neo ricandidato alla carica
di primo ministro, Hariri junior, che si sorridono e parlano di “ultima occasione per il Paese”. La ricca
occasione sarebbe l’accondiscendenza al piano Macron: un classico pacchetto
d’aiuti in stile imperialista che chiede in cambio asservimento geopolitico. A
uno Stato fragile e disorientato si continua a non permettere un proprio
sviluppo, si suggerisce un percorso che utilizzi servizi esterni, magari
privilegiando quelle multinazionali francesi attive nell’Africa mediterranea
come Veolia, e si farà opzionare lo
sfruttamento dei bacini gasiferi di competenza libanese alla sorella per tutte
le stagioni Total. Ecco, la
popolazione desiderosa di cambiamento resta avvinta alla sua dannazione. E come
Hezbollah e Amal si sono opposti al prosieguo del premierato flebile e confuso
di Adib, l’asse para francese del presidente della Repubblica ripesca il
fantoccio dal nome celebre, pur accartocciato dal tempo, dagli scandali
personali, dalle maraldeggiate subìte dai padrini e padroni sauditi e lo
ripropone alla guida d’un esecutivo. Del resto il suo partito Corrente Futuro
continua a esistere, come esistono gli altri gruppi e clan di potere. Si
ricomincia precisamente da dove si era lasciato il Paese: davanti a un cumulo
di macerie.
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