giovedì 26 febbraio 2015

Afghanistan, a chi serve il marchio Isis

Maschere per nuove insorgenze - Se l’Isis trova nella propaganda uno dei suoi più potenti cardini c’è chi usa questo marchio e la sua maschera per accreditare un’antica presenza nel sistema di potere afghano. Perciò la nuova vocazione di alcuni leader talebani ‘folgorati’ dal Daesh non sarebbe altro che una metamorfosi tattica.  Almeno così la spiega il locale ministro della difesa Enayatullah Nazai: “Certi comandanti trasformano le loro apparenze, addirittura mostrando una fede salafita, ma restano attaccati alla tradizione talebana”. Una posizione diversa se non opposta da quella sostenuta da taluni politologi che monitorano l’Asia centrale evidenziando fratture e defezioni nella galassia dei turbanti. Entrambe le tesi necessitano di verifiche, però certamente il combattentismo fondamentalista a cavallo del confine afghano-pachistano è in subbuglio. Il recente avvicinamento fra gli apparati di due nazioni che non si amano scaturisce da questa crisi; alle crepe talebane guardano anche gli uomini del Califfato per sondare alleanze e inserimenti possibili. Un punto a sfavore del loro programma, oltre al diverso credo islamico, è l’integralismo della propria visione di jihad, considerata superiore a qualunque altra. Essa entra in conflitto col senso di appartenenza di clan talebani poco inclini a rinunciare alle radici d’un localismo atavico. 

Infiltrazioni dei Servizi - Un politico sempre attento al peso tribale come l’ex presidente Karzai non ha dubbi e taglia corto, affermando: “Chi solleva la bandiera del Daesh in territorio afghano sono soggetti legati ai Servizi stranieri”. Idea sostenuta anche dal responsabile dell’Intelligence afghana Nabil che, nonostante le aperture e i crediti offerti dal presidente Ghani al potente vicino, non nasconde espliciti riferimenti all’Isi pakistana come struttura destabilizzante sempre pronta a mestare nel torbido. L’ipotesi, pur dettata dall’orientamento nazionale anti pakistano, può essere oggettiva, ma la stessa Islamabad è messa sotto pressione da quel ramo intransigente dei Tehreek-e Taliban nelle cui file si sono registrate defezioni in odor di Isis. Perciò una collaborazione che sta stretta ad afghani e pakistani diventa un atto di realtà politica. Fra le Intelligence anche la russa tiene l’occhio rivolto a quanto accade nelle aree a ridosso di Tajikistan e Turkmenistan, dove potrebbero crearsi sacche di adesione a quel piano e dove potrebbero addestrarsi combattenti locali o stranieri che vanno a rafforzare le milizie dello Stato Islamico. Per ora quelli conosciuti appartengono ai talebani che ospitano gli uzkebi del Movimento islamico, già attivi nella provincia di Faryab. Invece il reclutamento nelle province di Helmand e Farah ha a che fare con certe insoddisfazioni di capi talebani riguardo ai rapporti fra gruppi tribali.

Conflitti tribali – Una valutazione lanciata da alcuni ricercatori di questioni politiche afghane, che avevano esaminato e studiato il caso Khadem (il comandante talebano avvicinatosi al Califfato e caduto recentemente sotto il fuoco d’un drone americano), rileva un contrasto intestino a gruppi etnici locali come concreto motivo del suo allontanamento. Gli Ishqzai, uno dei maggiori clan del meridione afghano, già dal 2010 con due elementi minavano l’autorità del capo talebano. Il logorante conflitto avrebbe spinto Khadem ad allontanarsi con alcuni fedelissimi per cercare nuove sponde politico-militari e la prima occasione utile era diventata quella dello Stato Islamico. Comunque il leader taliban teneva a sottolineare che il suo gruppo non predicava il wahhabismo né pratiche devianti che potevano offendere la sensibilità del popolo e che non c’era alcun messaggio settario nel proprio orizzonte. Attorno a talune applicazioni della Sharia (amputazioni per furti, esecuzioni capitali per taluni crimini) ci sarebbero differenti interpretazioni fra talebani della vecchia guardia e miliziani del Daesh, quest’ultimi molto più radicali nelle punizioni e nei gesti estremi. Per tacere della facilità con cui utilizzano il termine takfir (empio) con un’accezione estrema che implica la pena di morte.

Oro bianco e cyber-jihadisti - Un ulteriore distinguo fra vecchi talebani e nuovi fondamentalisti è il rapporto con la droga. Il business dell’oppio rappresenta la maggiore entrata della “economia” afghana, assieme ai cosiddetti “aiuti” internazionali. Il mercato dell’eroina coinvolge clan tribali, familiari, politici, istituzionali. Tutte le fazioni islamiste e dei warlords accumulano proventi derivanti da questo smercio che prende la via dell’Occidente, e finanziano così le proprie attività e le bande armate. Gli stessi talebani, dopo un’iniziale contrarietà, si sono convinti della bontà del ricco bottino che ogni anno viene diviso. Quest’introiti possono far gola agli uomini dello Stato Islamico che da un punto di vista religioso dovrebbero opporsi a tale commercio. Però, valutati gli interessi in atto, i jihadisti potrebbero trattare questa come qualunque altra mercanzia, molto ma molto più vantaggiosa dell’oro nero dei pozzi occupati in Iraq. In fatto di finanziamenti anche i ricercatori afghani riferiscono i sospetti sulle donazioni provenienti da nazioni islamiche verso i talebani marchiati Isis. Poi c’è il web. La campagna comunicativa che vede l’Isis mutuare tecnologie e costruzione dell’informazione-propaganda dal proprio nemico occidentale crea fra i ragazzi afghani aperti alla rete un sentito appeal. Si può parlare di cyber-jihadisti, addirittura con presenze ufficiali sui social network e pagine su Facebook.

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