lunedì 16 febbraio 2015

L’ora della guerra

Sangue lavato col sangue. Come aveva già fatto re Abdallah di Giordania dopo l’esecuzione spettacolarmente crudele del suo pilota - abbattuto, catturato e bruciato dai jihadisti - egualmente il presidente egiziano Sisi fa lanciare i missili dei suoi caccia sulle zone dove i miliziani neri avanzano. Per vendicare i 21 copti sgozzati sulle rive del Mediterraneo, tornato a essere proscenio degli scannamenti di epoche lontanissime e vicine. Alla maniera degli alleati statunitensi e dei confinanti israeliani il presidente-generale parla di “Diritto di rappresaglia, con modalità e tempistiche che l’Egitto ritiene necessarie”. Il rischio che quelle bombe non cadano sulle teste dei soli jihadisti è reale. Lo insegnano altri interventi reattivi o meditati, taglioni o umanitari. Del resto la guerra si fa principalmente con le armi e l’uso di queste può essere offensivo oppure difensivo. Il coro dei sostenitori del ‘giusto intervento’ prende le misure per disegnarne le ragioni da porre accanto alla dimensione emotiva, ben sostenuta dallo sdegno per i crimini che sopravanza la stima di sé come stati, popolazioni, culture, civiltà. Minacciati.
Eppure la difesa, che per taluni non è guerra mentre per altri lo deve essere con la maiuscola, pare solo incarnata dalla tecnologia del fuoco dei cieli. Qualcosa che, ad esempio in Libia s’è usato e non è stato sufficiente, perché non faceva i conti con quello che a terra, fra i locali in armi o i mercenari di passaggio, doveva scaturire per andare oltre, con un nuovo governo, nuova classe dirigente sia amministrativa sia economica. Si dirà che soluzioni politiche non erano nei progetti di chi come Sarkozy sceglieva la via muscolare credendola una facile scorciatoia, e scoprendola un nodo scorsoio non solo per il futuro d’una nazione diventata terra di nessuno, ma per gli stessi dirimpettai d’Europa. Delle sciaguratezze dei giocatori d’azzardo che governano il vecchio continente si discorre da oltre un biennio e, sia dove sono intervenuti coi propri caccia (Libia) sia dove lasciano fare alle bombe altrui (Siria e Iraq), le situazioni sono precipitate. Negli stati disgregati, nei non luoghi caotici chi come il jihadismo fondamentalista pone la guerra come primo obiettivo del suo programma ha un considerevole punto di forza.

L’ipotetico altro versante, dov’è adagiato l’Occidente, s’arrabatta fra ricordi di potenza e magari la volontà di rilanciarla in una convinzione d’egocentrica superiorità (tecnologica, strategico-militare, ideologica, filosofica, religiosa e chissà quant’altre capacità in vari campi) e latenti frustrazioni o insicurezze frutto delle divisioni, delle mollezze d’un sistema in crisi sistemica non solo nell’economia delle cose ma nel decorrere di esistenze inappagate, contraddittorie, infelici. Frutto delle ingiustizie subìte da chi non crede in un sistema iniquo. Chi sul nostro fronte parla di guerra, può vantare solo la delega nel combatterla. Un passare il testimone ai professionisti in divisa, cui gli esempi afghano o iracheno di Saddam, mostrano i limiti visto quello che lì è accaduto e tuttora accade. Così a difendere dall’oppressione la bella bandiera della libertà e della democrazia, non diciamo di quel collettivismo da società nuova e autogestita che spaventa le menti placide della storia, lasciamo a rappresentarci e a combattere le ragazze e i giovani kurdi del Rojava. La domanda è semplice e solo parzialmente surreale: se la vecchia Europa dovesse, o se dovrà, difendere Roma e Parigi dai terribili piani esibiti dall’Isis su chi può contare? I jihadisti si battono per il Califfato e noi?

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