domenica 15 febbraio 2015

Afghanistan, l’Isis contro i talebani

Nella “palude” afghana - Nel suo progetto d’espansione ad ampio spettro l’Isis non risparmierebbe il martoriato territorio afghano. Almeno secondo quanto spera e afferma un sedicente portavoce dello Stato Islamico, Abu Muslim Khurasani, che tramite un video ha lanciato i suoi strali contro il governatore della provincia di Ghazni, accusato di corruzione e reiterate ingiustizie. Questa provincia centrorientale è separata da quella di Kabul dall’area di Vardak. Il governatore in questione, tal Musa Khan Akbarzada, ha immediatamente risposto negando gli addebiti perché, a suo dire, non ci sarebbero stati investimenti né progetti con finalità speculative. L’attacco del portavoce del Daesh ha toccato gli stessi talebani che “sotto gli ordini dell’Isi (l’Intelligence pakistana, ndr) uccidono innocenti civili”. Per tali motivi l’Isis programma di arrestare e impiccare questi comandanti, e minaccia conseguenze simili verso quei gruppi che s’opporranno allo Stato Islamico. Da parte talebana non c’è finora risposta. Chi ha commentato criticamente l’operato dei miliziani in nero è un jihadista doc, anche se ormai avanti negli anni, il signore della guerra Abdul Sayyaf, che riferendosi all’Isis ha detto: “Questo gruppo sta offrendo una pessima immagine dell’Islam. Le sue attività sono contro la nostra religione come dimostra la crudele uccisione del pilota giordano”.
Famiglia divisa - La variegata componente talebana vive una fase articolata, di espansione ma anche di aperture e chiusure fra i clan. Per ammissione di recenti documenti delle Nazioni Unite i talib controllano stabilmente 7 delle 34 province afghane, ma altre aree non sono esenti dalla loro presenza. Sempre più spesso si mescolano alla popolazione senza dare nell’occhio. Un’infiltrazione sociale alla stregua di quanto compiuto nelle Forze armate nazionali. L’insorgenza contro l’occupazione Nato è vista dalla gente come un processo accettabile, seppure la gestione militare e politica d’ogni iniziativa dei turbanti non tiene conto degli interessi primari di chi vive fra mille difficoltà, indifferentemente in campagna o nelle città. Contradditoria è la morte procurata ai civili con gli attentati, che nel 2014 sono sensibilmente aumentati alla stregua dei bombardamenti Nato. Dalle milizie talebane del sud-est, molto ideologiche e caratterizzate da un approccio religioso alla gestione amministrativa, si distinguono quelle raccolte nell’area di Badakhshan (impervio estremo nord-est) che mostrano tratti particolari. Sia etnici, sono un mix di tajiki e uzbeki, sia politici. Questi taliban, vagamente allineati col comando centrale dei combattenti afghani, manifestano fedeltà al mullah Omar. Il quale, a detta di svariati analisti, è un fantasma mitizzato che aleggia senza che nessuno l’abbia più visto da tempo.
Omar e gli indipendenti - L’ipotesi d’una sua scomparsa non è così peregrina, anche lui potrebbe essere deceduto sotto le bombe di caccia e droni statunitensi, com’è accaduto ad altri leader. La provincia del Badakhshan è un angolo strategico dove s’incrociano tre nazioni (Pakistan, Cina, Tajikistan) e rappresenta uno degli ingressi per il contrabbando dell’oppio verso l’Europa. Proprio il traffico di questa merce richiestissima dall’Occidente costituisce una delle maggiori entrate di questo ceppo talebano sui generis, di cui si mormora non siano né mullah né studenti. Altri loro finanziamenti provengono da una sorta di tassa doganale che i guerriglieri, armi in pugno, richiedono a chi transita sulle strade di fondo valle che controllano da tempo. Fra i pagatori i commercianti, neppure tanto minuti visto che ci sono multinazionali straniere, di marmi e metalli ferrosi, ma anche di pietre preziose. Dei giovani che finiscono fra i taliban del Badakhshan un buon numero è attirato dalla promessa di salario e cibo. Altri s’accorpano perché non trovano posto nell’esercito nazionale dopo dispute coi potentati locali e anche contrasti con antichi combattenti mujahedin. Gran parte dei miliziani sono nati alla fine degli anni Ottanta, quando i talebani vedevano luce.


Quarant’anni di guerra – Di fatto indipendenti godono, comunque, d’una buona fama. Storie di alcuni abitanti rapiti dai miliziani locali e condotti in rifugi sui gelati monti dell’Hindu Kush hanno registrato un lieto fine col rilascio dei sequestrati senza violenza alcuna. Chi temeva la decapitazione e ha visto come i carcerieri la rifiutavano, continua a ribadire che costoro sono diversi chi aveva governato a metà degli anni Novanta. Occorre vedere se la minaccia dell’Isis rivolta a questo prodotto interno del jihadismo locale possa trovare seguito fra le varie etnie molto legate alle proprie tradizioni. Per tacere del combattentismo mujaheddin di marca pashtun che ha dato vita a tutte le bande che si sono divise la nazione dietro i warlords. Quarant’anni di guerriglia che incrina il mito dell’Armata Rossa, introduce la macelleria della guerra civile, l’oscura parentesi del governo talebano, la resistenza all’invasione Nato e lo stillicidio di guerra interna-esterna rappresentano un quadro che nel male più che nel bene non ha altri esempi al mondo. L’Isis troverebbe pane per i suoi denti. E’ la terza generazione di afghani che cerca di sopravvivere alla morte violenta, oltreché per stenti, che non merita questo. E’ un popolo sofferente che non ha bisogno di aggiungere crudeltà ad angherie, men che meno quelle del fondamentalismo dei cavalieri del Califfato.

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