Voleva vincere facile il presidente tunisino Saïed, per dare una verniciatina democratica al colpo di mano realizzato un anno fa. Da qui la comparsata della nuova Costituzione scritta da mani esperte e ritoccata con le sue manone da 'Robocop' a quattro settimane dal voto referendario. L’esperto di questioni giuridiche Belaïed, che aveva contribuito alla prima stesura della bozza, s’era dissociato. Ma il nuovo presidente-padrone, desideroso solo di superpoteri, non s’è minimamente scomposto. Anzi, non vedeva l’ora di giungere al capolinea della finzione con cui aveva promesso: “un Paese migliore“, “minor disoccupazione“, “un Parlamento disciplinato“, “una giustizia responsabile”, “tolleranza religiosa”, “una democrazia sana”. Eccolo dunque vincitore d’un referendum senza quorum, per il quale ha votato meno d’un quarto dei 9.5 milioni di tunisini iscritti nelle liste elettorali. Il manipolo dei fan festeggia, in testa tanti ragazzotti ingaggiati probabilmente a suon di dollari oppure semplicemente inconsapevoli d’un futuro peggiore del passato. Del resto fra la popolazione dei villaggi interni interpellata nei giorni scorsi da alcuni reporter in viaggio nel Paese profondo, dall’entroterra desertico alle aree minerarie, c’era chi rispondeva che sì era a conoscenza del referendum costituzionale, ma non aveva alcuna nozione sul contenuto della nuova Carta. Qualcuno annunciava che avrebbe votato, probabilmente sì, mentre l’opposizione, iniziando dall’islamista Ennahda, e anche altre forze o associazioni come gli avvocati dei diritti, ribadivano decisi il boicottaggio. 'Robocop' può vantare il 92,3% di consensi, ma trova circa otto milioni di concittadini che voltano le spalle alla sua imposizione.
Quanto alla tanto promessa distensione sociale, credere che riuscirà a prender forma è una pia illusione. Perché l’enorme impegno governativo per inseguire il progetto costituzionale ha tralasciato le reali questioni del Paese. Che oggi, come ieri, sono economiche. Avere la zavorra dei clan familiari (Meddeb, Idriss, Mabrouk ecc.) che lucrano dividendosi gli affari dell’agroalimentare, turismo, grande distribuzione senza offrire alternative alla rinascita dell’imprenditoria interna, è un quadro logoro ereditato da regimi presidenziali che né islamisti, né liberisti hanno voluto risolvere. Saïed è incanalato sulla stessa via, con l’aggiunta di voler tornare al passato in fatto di polizia intimidatrice e sanguinaria. Il rischio che i quattro milioni di nuovi poveri corrono è non avere pane, né semola per il cous-cous, non solo per il blocco dei rifornimenti ucraini nei porti sul Mar Nero, ma per l’ondeggiamento dei finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale. Certo, l’autocrate Saïed piace all’Occidente, meno agli Stati Uniti da quel che s’è visto nei rapporti diplomatici degli ultimi mesi. Sul fronte nord-africano - quello che un occhio arabo definisce Maghreb e Mashreq - è in atto un plurischieramento di nuovi assetti. Le manovre che hanno visto la ‘dinastia Muhammad’ marocchina avvicinarsi a Israele e l’attuale Algeria, tornata in auge nelle relazioni coi volponi del vecchio continente per questioni di rifornimenti di gas, cercare nuovi spazi, devono fare i conti con l’Egitto di Sisi forte dei petrodollari emiratini che vuol dettar legge nella regione. Primi attori, protettori e alleati sono impegnati su una scacchiera mobile. La Tunisia, bisognosa di tutto, dipende per oltre il 70% del rifornimento energetico proprio dal suo confinante occidentale, e non può sottrarsi a una relazione con Algeri che, a est come a ovest, non vede di buon occhio le mosse di Rabat e del Cairo. Perciò il successo del super presidente inizierà presto a fare i conti con un Paese insoddisfatto che continua a emigrare, e otto milioni di oppositori o scontenti. I poteri offerti dalla nuova Costituzione possono servire a incatenare la popolazione, non a incantarla.
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