Draupadi Murmu, che il prossimo 25 luglio rivestirà il ruolo di Capo di Stato indiano, è la seconda donna presidente del Paese. L’aveva preceduta dal 2007 al 2012 Pratibha Patil, laureata in legge e membro del Partito del Congresso. Murmu consegue un altro primato: è la prima ‘adivasi’ a salire così in alto. Sessantaquattro anni, giunge in politica dalla professione d’insegnante ed è stata candidata dal Bharatiya Janata Party il partito del premier. Draupadi è di origini indigene, appartiene alla tribù Santals, la maggiore dell’India, e nella mossa di Modi si può leggere il molteplice intento di lanciare una figura femminile a bilanciare il machismo politico vigente, giocare la carta di far rivestire l’alto incarico istituzionale a esponenti di aborigeni per velare l’apartheid confessionale rivolto dal suo governo ai musulmani interni. E ancora: promuovere una persona che ha speso anni di vita per l’emancipazione dei ceti poveri dell’area dell’Orissa, dov’è nata. Insomma un’operazione da populismo di ritorno, senza togliere nulla al valore di Murmu. Questo perché nella primavera che verrà la federazione indiana andrà alle urne e il Bjp, desideroso di conservare il potere, ma orfano del suo uomo-guida giunto al secondo mandato dunque impossibilitato a ricandidarsi, cerca di arrivare a quella scadenza coi maggiori punti d’appoggio possibili. La figura presidenziale nella nazione-continente ha poca voce su questioni politiche; ma se, come nel caso della Murmu, è un elemento amico, potrà (potrebbe) garantire quella tranquillità di cui necessita la focosa nazione indiana per rispondere a sfide sempre più complesse. Per questo il partito di governo e gli alleati, fra cui forze fascistisssime dell’estremismo hindu come Shiv Sena, hanno offerto il voto di sostegno alla presidente.
La speranza che la società civile depone nell’ex insegnante riguarda i lunghi anni dedicati a poveri e diseredati, soggetti che in verità rientravano nella campagna populista di Modi sin dal primo successo elettorale. Analisti locali temono che la nuova presidenza ripercorra la strada di chi sta dismettendo l’incarico - il dalit Ram Nath Kovind - che nel quinquennio al vertice del Paese mai s’è ricordato delle origini e ha vestito i panni del fantaccino del premier. Se per l’elezione della Murmu ogni realtà ‘adivasi’ è in festa, gli studenti su tutti, alcuni commentatori posano lo sguardo su un manifesto di propaganda che mostra Draupadi con una scopa in mano, intenta a far pulizia in un tempio hindu ovviamente per renderlo più pulito, bello, accogliente. Metafora neppure tanto velata per un concetto di luogo di culto e casa madre per il popolo indiano. Ma si fa notare come la propaganda Bjp rivolta alle minoranze indigene voglia lanciare a esse accanto al richiamo alla scontata fede hindu, l’adesione all’inquietante progetto dell’hindutva, tutto razzismo e violenza. Su questo gli ‘adivasi’ dal pensiero libero sentono puzza di bruciato, intuendo come l’indipendenza della propria origine e cultura rischia di finire schiacciata. In passato figure di attivisti indigeni sono stati repressi e addirittura uccisi con le accuse più varie, anche di terrorismo. Di recente un movimento locale nel Chhattisgarh è stato azzittito con minacce di persecuzioni. I diritti delle minoranze tribali, su cui la politica governativa e parlamentare si misurano in promesse, non ricevono l’attenzione che meritano. Anzi, il rischio soffocamento è dietro l’angolo. In vari casi gli interessi economici, legati allo sfruttamento del sottosuolo, diventano oggetto di aggressione di aziende private nelle aree tribali - Chhattisgarh, Jharkhand, Odisha - già afflitte da malattie e malnutrizione. Sperare che il simbolo della presidente le aiuti non è un sogno, ma deve fare i conti con gli stessi grandi elettori di Draupadi Murmu.
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