giovedì 31 agosto 2017

Afghanistan, le leggi anti protesta

Che l’Afghanistan non sia un Paese a democrazia crescente è risaputo, solo la narrativa geopolitica dettata dalla Casa Bianca vuol farlo credere. Tranne poi oscillare attorno alla propria presenza armata sul territorio con un numero variabile di militari: ultimamente generali e Trump pensano di rispedirne in servizio effettivo quattromila. Così negli ultimi quindi mesi una parte della popolazione afghana, stanca di guerra interna e importata dalle missioni internazionali, aveva iniziato a protestare ricevendo in cambio le esplosioni mortali firmate Stato Islamico. Bombe rivolte anche contro i simboli dell’amministrazione Ghani, ma in varie occasioni lanciate sulle manifestazioni della comunità hazara, giudicata empia dai miliziani neri per il suo credo sciita. Di fatto l’obiettivo destabilizzante dell’Isis è, come altrove, quello di ingigantire le paure della gente inducendo sottomissione, e lanciare un messaggio anche ai talebani ‘ortodossi’ contattati dal presidente afghano per possibili accordi di cosiddetta pacificazione. Come ambasciatore per questo piano è stato cooptato il noto signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar che è potuto rientrare nella capitale da cui mancava da molti anni. I suoi fan l’hanno accolto con tutti gli onori, ma per migliaia di famiglie Hekmatyar è il macellaio di Kabul, il fondamentalista che combattendo contro suoi simili (Massoud, Rabbani, Dostum) ha contribuito a seminare lutti fra la popolazione nel quadriennio di guerra civile di metà Novanta. Già difeso dal presidente Karzai, che ha impedito qualsiasi rivisitazione legale dei massacri antecedenti all’invasione statunitense del 2001, questo criminale è stato richiamato dall’attuale leader Ghani in appoggio al suo progetto di dialogo coi talebani che controllano molte delle 34 province.
Il desiderio presidenziale non prende corpo per via della spaccatura presente fra i turbanti, di cui una minoranza si rapporta al Daesh. I restanti capi talib vorrebbero trattare da posizioni di maggior forza, conquistata sul campo con le continue incursioni che rendono insicuro ogni angolo del Paese. Contro simili intrighi nei mesi scorsi s’è sollevato un pezzo di società civile che ha dato vita a manifestazioni definite “Rivolta per cambiare” e “Movimento illuminato”. Proteste spesso organizzate fra gruppi etnici, tajiko il primo, hazara il secondo, due minoranze che si considerano storicamente discriminate dai pashtun. La contestazione hazara era mossa da motivi economici, perché l’area di Bamyan (abitata da una parte della comunità) risultava tagliata fuori dal progetto Tutap (acronimo di Turkmenistan-Uzbekistan-Tajikistan-Afghanistan-Pakistan, le nazioni dove passerà una nuova linea elettrica). Le alte sfere di Kabul, rapportandosi a questo business internazionale finanziato dall’Asian Development Bank, hanno optato per un passaggio della linea da nord attraverso il passo di Salang, da lì le proteste. Ma questo risveglio con cortei e sit-in, per i motivi più vari, comprese le contestazioni dell’accoglienza governativa a Hekmatyar, ora rischiano una reprimenda statale. E’ infatti in corso scrittura e riscrittura di un disegno di legge che ha l’unico scopo d’impedire manifestazioni di dissenso. Le misure vengono abilmente mascherate con l’intento di difendere da possibili attacchi terroristici chi partecipa ai sit-in; in realtà cerca di bloccare con divieti e iper responsabilizzazioni l’organizzazione degli stessi.
Un articolo del progetto di legge esautora la polizia dai compiti di verifica e di controllo che ricadono tutti su chi promuove il raduno, e in caso di disordini, violenze o peggio dovrà risponderne penalmente. S’impedisce ai minori di partecipare alle proteste, come pure agli stranieri e a personaggi noti, s’interdicono luoghi pubblici adiacenti a zone commerciali, sanitarie, d’istruzione oltre che agli edifici di rappresentanza amministrativa e governativa. Per timore di attentati i luoghi concessi potranno situarsi nella periferia estrema delle città o in aperta campagna. Oltre all’isolamento visivo delle manifestazioni dai centri abitati, il governo cerca di rendere difficoltoso ai potenziali partecipanti il raggiungimento dei luoghi d’incontro e se questa dissuasione non dovesse bastare li intimorisce con le conseguenze legali. Perché dall’entrata in vigore della legge si potrà protestare solo se si propongono alternative. Chi non le ha, non avrà diritto di azione e parola. E qualora ne avesse certe richieste potranno venire considerate “irrazionali”, come sostiene un gruppo di senatori vicini all’attuale Esecutivo. Con simili restrizioni, che s’aggiungono alle tante già esistenti cui si può sempre applicare “il divieto dei divieti” giustificato dallo stato d’emergenza, gruppi particolari etnici o religiosi (ad esempio i Sikhs afghani) non potranno più chiedere protezione a difesa del diritto di fede. Per offrire legalità alla stretta repressiva contro ogni libero pensiero e dissenso, l’ennesimo governo fantoccio di Kabul chiede di presentare un “permesso di protesta” - lo definiscono così - che sarà soggetto all’insindacabile valutazione di un organismo preposto (finora si poteva manifestare annunciando luogo e giorno del raduno). Ghani cerca di salvarsi il cammino politico silenziando ogni voce civile e patteggiando coi taliban. Ma quest’agognato accordo non gli garantisce un futuro.


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