giovedì 6 febbraio 2025

Gaza, dopo le bombe il resort

 


Davanti alla massa di sfollati tenuti assieme da identità, ideali e lutti si materializza l’esca per sbarazzarsi di loro con la lusinga d’un futuro. Anziché morire in una prossima guerra israeliana per ogni famiglia palestinese è più opportuno riparare altrove. Lancia mellifluo il messaggio Donald Trump, orgoglioso delle sue proposte spiazzanti amplificate ed esaltate dai media amici. Ma il presidente americano non lo fa in una festa privata nella villa di Mar-a-Lago, lo dice ufficialmente in conferenza stampa dopo aver accolto a braccia aperte il premier Netanyahu. Che è, sarebbe, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, però il primo cittadino statunitense non dà importanza al mandato di cattura, come fanno peraltro altri grandi del mondo. A Netanyahu, al suo governo, alla destra d’Israele, ma pure all’oppositore Gantz (‘proposte creative e interessanti’ le ha definite) piace il gioco subdolo dell’amico americano. Se da una parte giunge la reazione sdegnata di quel che resta della geopolitica civile e anche del mondo arabo più compromesso con l’affarismo proprio e le amicizie imperialiste, l’emergenza che durerà mesi, il logoramento delle vite sul fronte primario della sussistenza fra scorte alimentari che potrebbero nuovamente scarseggiare, quelle sanitarie egualmente tarate, le igieniche completamente assenti, una ricostruzione lontana anni, potrebbero insinuare l’idea che in fondo è meglio finire profughi sotto un tetto a migliaia di chilometri di distanza. Non nella  Giordania hashemita, ora solidale coi detestati palestinesi,  non nell’Egitto di Sisi che non vuole in casa gli odiati islamisti e rifiuta l’idea, ma in Paesi come quelli (Irlanda, Norvegia, Spagna) che il ministro della Difesa di Tel Aviv Katz dice “obbligati per legge” ad alloggiare gli abitanti della Striscia.

 

Con loro chissà quanti altri in Europa o altrove possono diventare accoglienti verso due milioni di persone, dal momento che nel decennio scorso dalla Siria sono “traslocati” in sette milioni. Quella che sembra una boutade, tipica del trumpismo che straparla su tutto, potrebbe avere applicazioni pratiche. Se non nell’immediato e sulla fantasmagoria d’una nuova riviera nel Mediterraneo, nell’intreccio col piano B di Israele che risulta più efficace delle guerre finora intraprese: allontanare i palestinesi occupandogli terra e case, impedendogli l’esistenza, negandogli di bere e mangiare, finanche di respirare, togliendogli ogni spazio con i coloni. Perché continuare a sopravvivere dove non si può vivere, potranno domandarsi i figli dei figli che non scelgono di vendere cara la pelle con la determinazione  dell’Intifada? Se tutto è distruzione, se i propri rappresentanti ammessi a discutere col mondo continuano a essere gli impresentabili faccendieri alla Abu Mazen, se soprattutto lo ‘stato di diritto’ che pure questo popolo non ha mai conosciuto, viene smantellato e ridicolizzato dalle nuove leve del comando geopolitico internazionale, la soluzione di ritrovarsi in una “riserva” più o meno presentabile a migliaia di chilometri dalla propria terra promessa, può diventare realtà. E’ il fatalismo imposto dai nuovi poteri, avallato da chi fa in modo che accada perché non ha reagito davanti ai massacri dei mesi scorsi, di chi li giustifica sostenendo la tesi della giusta risposta a un precedente massacro. Questa teorizzata politica della forza, che ha molti più sostenitori degli espliciti fan, s’avvantaggia della vituperata indifferenza, letterariamente ricordata e inesorabilmente protagonista di numerosi passi della tragica Storia del Novecento. Le si aggiunge la linea del ricatto, del raggiro o dell’accettazione d’un disperante futuro, parente prossimo della disperazione quotidiana.

 

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