lunedì 16 luglio 2018

Gaza, gli occhi oltre la morte di Amir e Luay


Crepare sul tetto d’una costruzione abbandonata, perché sottoposta come tutte le case di Gaza, al fuoco di artiglieria, caccia e droni, è stato per Amir e Luay, trentuno anni in due, un passo scandaloso oltre che letale. Perché stare su un tetto sotto le bombe che arrivano da ogni parte? Perché e come non starci, in quell’area stipata di persone e di pericolo di morte che è la Striscia di Gaza. Dove l’aggressione è strisciante, s’infiamma e prende tregua per poi riversarsi ancora più violenta come un uragano in minuti lunghi come giorni. Lì dove l’esercito di Tel Aviv da quarantott’ore ha ripreso a bombardare fitto come non faceva da quattro anni. L’alibi è ristabilire la sicurezza degli attigui villaggi israeliani messa in forse dell’intensificato lancio di razzi della Jihad islamica che condivide con Hamas le azioni militari sui 40 km di terra, assediati dal cielo, dal mare e dai confini. La frontiera con Israele, in subbuglio dal 30 marzo per le manifestazioni di protesta denominate “Marcia per il ritorno”, s’è trasformata nell’ennesimo cimitero e ha visto cadere, settimana dopo settimana, centotrentotto palestinesi. Tanti giovanissimi, come Amir e Luay, e giornalisti e personale paramedico presi a fucilate dai cecchini con la licenza di uccidere ribadita più volte da Netanyahu e Lieberman.
I governi del mondo non si pronunciano sulla carneficina, le mobilitazioni degli attivisti, di associazioni per i diritti e umanitarie sono tante, però non bastano e soprattutto non fermano ciò che la geopolitica ha trasformato in cinismo criminale, in quella e altre aree mediorientali. I giorni sulla Striscia sono sospesi anche quando il sole rallegra e riscalda la vita, tutto può sfuggire di mano in un attimo. C’è la guerra, palese o strisciante, ma come tener fermi, a riparo centinaia di migliaia di ragazzi? Non puoi proteggere neppure i bambini in edifici attrezzati, i pochi bunker vengono spiati coi droni e spianati coi razzi potentissimi degli amici americani. Tutto azzerato d’intorno, perché secondo la democrazia israeliana in quello spazio ridotto in lager l’insicurezza degli assediati deve procedere con la loro umiliazione e perdita di dignità. Disprezzo per il popolo considerato nemico, nessuna pietà neppure per due ragazzi piazzati su un tetto, forse a giocare, forse ad allontanare lo sguardo dalle chiusure d’un orizzonte che la comunità internazionale tiene serrato, sostenendo che Gaza può restare bloccata nel destino che altri le decidono. Amir e Luay alzavano gli occhi dalla polvere per sperare, probabilmente sollevavano la testa, imitando le decine di migliaia di fratelli e sorelle che da oltre cento giorni vanno e vengono da quelle barriere, da quel filo spinato della vergogna che Israele irrora di sangue innocente.

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