mercoledì 18 luglio 2018

Il Pakistan sceglie il premier fra jihadisti e clanisti


Fatto fuori l’ex primo ministro Nawaz Sharif per vie legali, con una condanna a dieci anni per corruzione, il Pakistan, bomba geopolitica del Grande Medio Oriente, si avvia al voto del prossimo 25 luglio. Il forte partito di governo, la Lega musulmana, presenta fra gli altri un candidato recentemente graziato Shahid Abbasi, a conferma d’un andirivieni dalle galere. Ma ciò che gli osservatori sottolineano è la variegata presenza di gruppi e leader estremisti, vicini al jihadismo d’ogni tipo, dai talebani dissidenti che rinfocolano il Daesh centrasiatico (Tehreek-i Labbaik), a formazioni vicine a Lashkar-i-Jhangvi, considerate terroriste non solo dal cartello internazionale che dice di combatterle, ma da se stessi, vista la quantità di attentati contro la popolazione civile che vanno a compiere. Il principale obiettivo di questi gruppi sono i fedeli della minoranza sciita, spesso però sotto le esplosioni di camion-bomba e kamikaze restano anche tanti cittadini pakistani, che per oltre il 90% appartengono alla Umma sunnita. A una figura controversa, tempo addietro arrestato proprio per prossimità col jihadismo sanguinario filo qaedista, è stato concesso di presentarsi alle elezioni.
E’ Aurangzeb Farooqi, capo del raggruppamento Ahe Sunnat Wal Jamaal considerato appunto la maschera politica dei miliziani di Lashkar-i-Jhangvi. Un partito ammesso alle urne nonostante persegua una campagna di radicalismo confessionale caratterizzata da aperte manifestazioni d’odio verso le altre fedi. Tendenza che va molto al di là dell’impegno coranico verso i cosiddetti kafir. I passi che hanno portato la Commissione elettorale a chiudere entrambi gli occhi davanti a simili presenze ufficiali vanno ricercati nella continua ingerenza nella vita politica del Paese di quelle eminenze grigie che sono l’esercito e soprattutto l’Intelligence Isi. Entrambi perseguono da decenni interessi spesso contrapposti, appoggiando politici diversi pur di ottenere la conservazione d’un eccezionale potere di corpo, a seconda dei casi in accordo o in contrasto fra loro. Difficile dire se siano più potenti le Forze Armate o i Servizi di Islamabad, di fatto dall’epoca del golpe del generale islamista Zia-ul Haq la sfera politica coi vari Bhutto, Musharraf, Sharif ha rappresentato solo la facciata dietro la quale agisce, in maniera indipendente, l’apparato della forza.
Che ha propri interessi politico-economici, agendo da lobby, seppure lascia alla politica spazio per quell’affarismo di clan familiari che spesso conduce figure di primo piano (l’ultimo è Nawaz Sharif, ma pensiamo a mister 10% Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto) ad avere seri problemi con la giustizia per colossali ruberie. Ai danni d’una popolazione in crescita esponenziale, oggi supera i 200 milioni di abitanti, con sacche amplissime di povertà e problemi sociali d’ogni genere. Su queste purulente piaghe s’inserisce la propaganda del radicalismo religioso che riesce a superare la stessa opposizione di organismi internazionali che provano a contrastare finanziamenti a tali componenti, anche quando passano come sostegni per iniziative culturali e religiose. Non è un segreto che le madrase del deobandismo pakistano sono una fucina per quella tipologia di argomenti ripresi anche da candidati come Farooqi, ma tant’è. La politica interna ammette la sua e altre discutibili candidature e, come su tutto, potrebbe tranquillamente esserci lo zampino dei militari. Costoro, in certe fasi, hanno compiuto lotte serratissime al jihadismo, e per questo sono stati oggetto di attentati indiretti, come quelli odiosi attuati nel 2014 a Peshawar nella scuola frequentata dai pargoli degli ufficiali.  
Ma l’ondivago e più ampio gioco di potere vede in altre fasi, accordi, protezioni, sostegno e addestramento di talebani - come accade nei territori delle Fata - soprattutto in funzione disgregativa verso il vicino e di per sé caotico Afghanistan, su cui i governanti pakistani hanno mire di subordinazione, molto più dei taliban. Pur con l’aperta presenza di fondamentalisti dichiarati, la corsa alla carica di primo ministro pone in testa tre figure ‘perbene’ che piacciono all’Occidente, due delle quali appartengono agli immarcescibili clan gestori della vita pubblica. Il fratello del premier incriminato, Shehbaz Sharif, ricco di famiglia e comunque forte dell’industria Ittefaq, colosso dell’acciaio e della metallurgia, che dirige in prima persona. Il figlio d’un altro corrotto o mister corruzione, il citato tangentista Zardari. La nemesi storica non deve inficiare il presente di Bilawal Bhutto Zardari, ma clan e interessi di famiglia incombono. Quindi il candidato che sembrerebbe più free: Imran Khan, ex campione di cricket, già asceso sulla scena politica attorno al 2011. Analisti giudicarono i suoi programmi un guazzabuglio di idee, fra riforme para classiste, ben viste solo dalla destra conservatrice, e un vago populismo. Più l’ombra, mai smentita, dell’appoggio dei militari. Che danno e ovviamente prendono, con tutti, in ogni occasione.

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