venerdì 4 aprile 2014

Erdoğan, pericolosi orizzonti di gloria


Volendo disegnare la Turchia erdoğaniana in base ai dati ufficial-ufficiosi delle amministrative - visto che le contestazioni di schede sono numerosissime e diffuse - la lampadina arancione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo illuminerebbe tutta la penisola anatolica spolpata dei contorni. Perché delle 81 province il ‘partito-regime’ ne prende 48, quasi tutto il blocco centrale da nord e sud, lasciando il margine occidentale ai repubblicani:  Edirne, Çanakkale, Smirne, Aydin, Mugla. E quello sudorientale al coriaceo corpaccione kurdo, dove i 15 milioni della maggiore minoranza interna hanno votato copiosi per i propri co-candidati, proseguendo la consolidata prassi di presentare come parità di genere una coppia, ovviamente politica, in ogni municipalità grande e piccina. Qualche macchia di territorio è andata agli ultranazionalisti del Mhp (Mersin, Adana, Osmaniye) e altri scampoli fra Mar Nero (Bartin) e area caucasica (Kars). Comunque residui, perché il gruppo di Devlet Bahçeli, che pure la conta dei voti accredita d’un 17,6% nazionale, disegna contorni esclusivamente nostalgici che non attraggono chi, giovane o meno, guarda alla vita e al futuro.

Partiamo da quanto tuttora riempie le cronache: le denunce di brogli, schede manipolate e bruciate, i ricorsi accettati, il conteggio riproposto e nuovamente ripetuto. Oltre ai noti casi che assegnavano l’incarico di primo cittadino nelle metropoli di Istanbul e Ankara, si sono registrate le proteste del Mhp ad Adana, del Chp ad Antalya, le polemiche del Bdp a Ceylanpınar e Urfa, e quelle anti kurde dell’Akp ad Ağrı, e se ne potrebbero citare ancora decine. E’ il segnale di quanta tensione questa scadenza ha riversato in ogni angolo del Paese. Al di là dell’eccesso violento che ha concluso nel sangue una faida familiare sul confine siriano, sono comparsi gruppi, principalmente filogovernativi, di pressione psico-fisica pronti a intimidire avversari, elettori e osservatori internazionali. Fatto di per sé grave, in un ambiente politico che si picca di difendere il confronto democratico. Ma la paura che il sogno e il segno del comando erdoğaniani potessero incrinarsi è stata davvero tanta, se parecchi attivisti islamici sono ricorsi al marcamento a uomo con sgambetti, spinte, calci degni delle più intimidatrici linee difensive del Fenerbahçe. In alcune zone calde, come l’area del Kurdistan settentrionale, la protesta è scesa in strada e la repressione l’ha seguita.

L’agenzia filo governativa Anadolou cita la situazione di Şanlıurfa, minicipalità conquistata dal Bdp e poi assegnata all’uomo del’Akp che ha portato alcune decine di cittadini (kurdi) a far prendere aria al fucile e inneggiare al Pkk. All’inverso questa comunità reclama l’opera minacciosa dei militari, nei seggi durante il voto e ora nelle strade, presidiate e sottoposte a una legge marziale di fatto che scioglie assembramenti a suon di lacrimogeni. Però, ben oltre il singolo caso, il quadro dell’opposizione a Erdoğan, s’è mostrato perdente nello spirito prima che nei numeri. Dell’ultradestra abbiamo detto: è presente ma ha fatto il suo tempo, qui il conservatorismo assume altre forme. I repubblicani sono divisi fra un laicato in linea con la tradizione kemalista poco comprensivo dei pruriti dei giovani che guardano il suo versante, e una componente efficientista e moderata che non trova nel partito spiragli di vera socialdemocrazia. Una buona parte dei voti il Chp li raccoglie fra i ceti medi urbani e lungo le coste mediterranee, fra la borghesia che parla due-tre lingue, è ipertecnologica e vuole un Paese moderno. Icona che l’Akp lancia all’intera Turchia, ma coi toni moraleggianti del grande capo sempre pronto a parlare d’interesse e sviluppo nazionali, della grande famiglia raccolta sotto una bandiera e un modello. I suoi. Una linea che cementa il proprio elettorato interclassista di affaristi e manager, commercianti e semplici lavoratori, di gente delle campagne che ha anch’essa cambiato volto negli ultimi vent’anni.

Costoro pensano che un centro commerciale valga molto più degli alberi che verranno sradicati per fargli posto e i fatti, finora stanno dando ragione a Tayyip, il pianificanitore consumista. Pochi pensieri gli dà un’ultrasinistra frazionata oltre che perseguita come terrorista. Diverso l’ambiente kurdo il cui partito della Pace e della Democrazia si conferma conquistando 10 province e 67 municipalità, ma non sfonda il Hdp (Partito Democratico dei Popoli), il gruppo che si rivolgeva a ogni etnìa  dell’ovest turco. Con gli avversari Erdoğan non dialoga, invece di convincere propone aggregazioni e crea spaccature. Da più parti gli si fa notare come tale polarizzazione, nella quale punta al 50% più qualcosa, potrà diventare un boomerang. L’obiettivo di conseguire questa quota per la prima tornata delle presidenziali se pure andasse in porto lascerebbe comunque una nazione divisa. Con l’eventuale secondo passo, volto a sottomettere i poteri giudiziario e legislativo al ruolo conquistato di  super presidente, che neppure Atatürk riuscì a essere, le tensioni socio-politiche salirebbero ulteriormente. Da leader navigato Erdoğan sa che un Paese destabilizzato non è attrattivo per l’economia, il business non fa rima col caos (l’Egitto insegna), l’allarme dei mercati esiste eppure va avanti come un caterpillar. La popolarità del suo disegno era legata a un rilancio nazionale che prometteva via pacifica e riforme, percorso finora tortuoso, abbandonarlo per battaglie interne ed esterne può rivelarsi un gravissimo errore. Il primo scotto è già evidente in politica estera, dove una boutade del suo staff, credibile sino alla fine del suo secondo mandato (al mondo esistono due leader e mezzo: Erdoğan, Putin e …), è ora improponibile.

Tuttora il sultano medita progetti istituzionali putiniani, ma di quel ‘mezzo leader’ che nella frase citata è Obama potrebbe avere bisogno fuori dai propri confini. Lo sguardo rivolto da un paio d’anni a est con velleità egemoniche regionali diventa sempre più problematico in un Medio Oriente che ribolle. La cercata e detestata Unione Europea resta matrigna verso la Turchia e la sua politica, e quello svariare da certe partnership economiche guardando alla Shangai Cooperation Organization, non è frutto di semplice ripicca ma d’un ‘piano due’ che il sultano negli ultimi mesi ha cercato di lanciare riavvicinandosi a Mosca e Teheran. In politica interna c’è da capire come il suo entourage socio-finanziario reagirà agli attacchi sulla corruzione che potranno proseguire riproponendo il logorio del conflitto. Un contrasto che Erdoğan non fugge anzi rinfocola contro gli ex sodali d’un tempo, i gülenisti, con cui si scambia bordate politico-giudiziarie. Lo scontro abbraccia tre livelli: economico con le restrizioni al businness delle scuole private gestite dal movimento Hizmet, ideologico-culturale riguardo a chi fra lui e il predicatore migrato in Pennsylvania sia il depositario del modello dell’Islam moderato, comunicativo e dei diritti per la repressione lanciata contro vari media, come le testate di proprietà di Gülen, di cui si perseguono anche i giornalisti.

La guerra della comunicazione coinvolge Zaman’s Today e altri pezzi di quell’industria attraverso accaparramenti anche recenti (il quotidiano Sabah, la rete televisiva ATV) in cui sarebbe stato favorito il fratello del genero del premier, ovviamente con un ritorno di propaganda per l’Akp. Oppure gli attacchi al Doğan Group. Ma ogni tipo d’informazione diventa una mina vagante per il suo orizzonte di gloria e su questo terreno Erdoğan mette in atto l’azzardo più grosso: azzerare la libertà di comunicazione e di pensiero colpendo i social network come fa qualsiasi dittatore refrattario alle critiche. Il divieto ha ricevuto il profondo dissenso di Gül che, come altri membri dell’Akp, può sollevare uno scontro di linea nel partito una volta terminato il mandato di Capo dello Stato. La Turchia che risponde di pancia al richiamo patriottico-paranoico del premier gli ha dato ragione nell’urna, considerando più importante la stabilità politico-economica che la libertà d’espressione, ma come dicevamo l’economia non marcia spedita nelle turbolenze. Se aggiungerà altri passi autoritari, quali la prevista legge che per ragioni di sicurezza nazionale offre all’Intelligence lo strapotere di controllo sulla cittadinanza, la nuova nazione che il presidente in pectore promette sarà vicina alla democrazia solo in quella farsesca recita che sanno darsi i regimi d’ogni latitudine.    

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