Può essere definita “diplomazia dei minerali”, il volto rassicurante per accaparrarsi elementi naturali strategici per produzioni di alta tecnologia civile, bellica e nano tecnologie, rispetto all’altro passo per ottenerli: le occupazioni territoriali e le guerre. Pronto a servirsene è il Pakistan, per rilanciare una relazione geopolitica pluridecennale verso il colosso mondiale statunitense. Il matrimonio politico fra Washington e Islamabad, passato attraverso i giri di walzer dei presidenti americani in Oriente e le ambiguità dei leader pakistani oscillanti fra un laicismo politico non esente ad aperture para confessionali benevoli col jihadismo, è da alcuni anni in aperta crisi. Con la ricaduta internazionale di una nazione in crescita demografica esponenziale, scelta negli anni Sessanta e Settanta dalla Casa Bianca quale alleato asiatico da contrapporre all’India pro sovietica e alla Cina rivoluzionaria, e perciò rimpinzata di testate atomiche e addestrata da “consiglieri” del Pentagono e della Cia. Ma il Pakistan dei clan Bhutto e Sharif, avidamente impegnati in intrallazzi familiari che consentivano ruberie ai reciproci governi alternatisi al comando, prendeva derive non sempre consone a una geopolitica che nell’ultimo quarto di secolo lo stesso Studio Ovale ha smarrito o fallito. Da lì stalli e intoppi che ora l’affarista Trump, interessato ad arricchire sé stesso e i suoi sodali dicendo di far grande l’America, punta a superare poiché parla il medesimo linguaggio della leadership pakistana: un incamerare dollari mascherato da “interesse nazionale”. Il rilancio d’un nuovo corso con premesse in atto dalla scorsa primavera, ruota attorno al mantra della “lotta al terrorismo”. Che se, un quindicennio fa raggiungeva l’apice con l’eliminazione ad Abbottabad del ricercato numero uno, Osama bin Laden, certificava pure l’ambiguo ‘doppismo’ dei Servizi pakistani, a metà strada fra l’inefficienza e la connivenza col qaedista latitante. Altra fase, comunque, che l’attuale binomio politico-militare pakistano con Shehbaz Sharif e Asim Munir, ritiene ampiamente superata e normalizzata attraverso rapporti sanati con gli alleati storici occidentali, Stati Uniti in testa. Dunque, largo agli affari.
Cinquecento milioni di dollari bussano alla porta del governo locale per ottenere minerali pregiati dal sottosuolo. E se gran parte del commercio mondiale piange e subisce i dazi imposti dal tycoon newyorkese per le merci esportate Oltreoceano (l’India se li ritrova addirittura al 50%), Islamabad riceve trattamenti al 19%, una gabella fra le più basse che il presidente Usa ha lanciato nelle sue maramaldesche trattative. Così nei mesi scorsi è stato posto il primo tassello allo scambio fra una delle principali strutture tecnologiche dell’Esercito pakistano, Frontier Works Organization e United States Strategic Metals, società del Missouri, specializzata nel riciclaggio di minerali critici come il litio. Cuore dell’accordo continuano a essere le ‘terre rare’, più rame e antimonio. Si tratta d’un pezzo dello scontro produttivo-economico che contrappone gli Stati Uniti alla Cina, avvantaggiatissima per avere in casa molte di quelle 17 polveri pregiate, indispensabili alla produzione dei famosi semiconduttori e sistemi di difesa. Il ventre pakistano può sopperire alle necessità primarie della Silicon Valley californiana, ma c’è un problemino. Buona parte delle miniere si trovano in due zone minate: il Belochistan a sud (che tesaurizza piombo, zinco, cromite, scandio, rame e oro, celebre la montagna Reko Diq), il centrale Khyber Pakhtunkhwa (ricco di rame). Però in quei luoghi insiste la presenza armata di gruppi jihadisti tutt’altro che propensi a far fare affari a un governo che combatte. Ulteriori giacimenti sono presenti al nord nella regione kashmira, tuttora contesa con l’India. Insomma sono aree dove le aziende di scavo dovranno fare i conti con chi su quel territorio vive e prospetta un proprio futuro. Distruttivo e distopico, ma tant’è. Ne sa qualcosa proprio Pechino la cui Metallurgical Construction Corporation, attiva dall’inizio del nuovo Millennio su quell’area depressa e povera, e oggetto di boicottaggi e attentati da organizzazioni come Baloch Liberation Army, Lashkar-e Taiba, Jaish-e Mohammad. Negli ultimi quattro anni una ventina di cittadini cinesi risultano fra le vittime di azioni armate dei suddetti gruppi che animano una protesta popolare. Contestano un utilizzo di manodopera, anche semplice, esclusivamente cinese a tutto svantaggio dei locali. Oggi anche Pechino guarda di buon occhio gli appalti americani: aumentare imprese e scavi può limitare l’incidenza di minacce e aggressioni jihadiste. Esistono milioni cubi di materiale da prelevare, ce n’è per tutti. L’importante è scavare e capitalizzare.
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