lunedì 1 settembre 2025

L’altro organismo

 


Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva, assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza. Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’ pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi. 

 

 

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India, rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh, e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da soli fanno un quarto della cittadinanza   globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan, perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil. Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori, da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso vale  per la Turchia erdoğaniana, liberata dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto collo, ma tant’è. 

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