lunedì 18 agosto 2025

Morti o profughi

 


Lasciare Gaza city “volontariamente” chiede un pezzo di Israele, il pezzo maggioritario, i nove milioni che attivamente o stando a guardare garantiscono a Netanyahu di proseguire gli eccidi contro il milione che chiede il rientro a casa di Tsahal. Chi non scende in strada sta col governo sterminatore? Beh sì, secondo una parte ulteriormente minoritaria dei manifestanti, la componente pacifista a prescindere, mentre gli altri contestatori del premier vogliono il recupero dei prigionieri tuttora detenuti da Hamas. Poi della Striscia rasa al suolo, per loro, sarà quel che sarà. Invece, al Kiryat Hameem pensano al futuro secondo il mai archiviato piano di evacuazione di chi abita da millenni quella terra, un termine dai contorni chiari e storicamente tragici per molte etnìe, compresa quella ebraica: deportazione. Per la ritrosia dei vicini Egitto e Giordania -  che comunque in base alle logiche del compenso economico, militare, geopolitico non restano esclusi a priori dall’ingrato compito di carcerieri per delega - si rincorrono le alternative africane e asiatiche. Sì, si pensa di collocare migliaia di famiglie, oltre due milioni di persone, per salvarle, proprio così, da bombe e fame, in Libia, Sud Sudan, Somalia. E poi in alcune delle migliaia di isole indonesiane. Migliaia e migliaia di chilometri dalla terra natìa, lontano dalla propria storia, cultura, tradizione. Al desiderio di cancellarne il rapporto ancestrale col passato che fa dei palestinesi un ceppo semita lavorano i sostenitori del disegno politico del Grande Israele, che non nasce certo con Netanyahu, ma che lui sposa e sostiene col sollazzo degli alleati ultraortodossi di governo. E’ un moto che si trascina l’idea della totale sottrazione della Cisgiordania agli abitanti di quei territori, occupati nell’ultimo sessantennio per mano militare dall’Idf, e da oltre trent’anni dalle armi dei coloni messianici e non. Eguale strategìa riguarda la fascia meridionale del Libano, l’occidente siriano, tutto rimescolato dai venti di guerra regionali e interni rinfocolati da vari attori, con vantaggi strategici solo per alcuni e disastri umanitari per milioni di cittadini ridotti a profughi. 

 

La condizione di fuggiasco ed esule, consigliata e imposta, ai gazawi in alternativa alla morte certa sulla propria terra, segue la persecuzione stabilita con fasi periodiche nelle quali il ceto politico d’Israele meditava l’espulsione o la galera di fatto per la gente della Striscia, impossibilitata ad allontanarsi, tenuta in uno spazio limitato con privazioni esistenziali crescenti viste le periodiche e sempre più atroci operazioni belliche e inumane. Così, per rassicurare la società ebraica raccolta in Medioriente i gazawi dovrebbero finire in situazioni geopolitiche ulteriormente turbolente, in Stati falliti come l’attuale Libia, dove sette milioni di abitanti prevalentemente islamici si barcamenano fra il governo sedicente unitario di Hamid Dbeibah, che controlla il nord-ovest, e le milizie del generale Haftar padrone del Levante. Un luogo dove sono reclusi decine di migliaia di migranti subsahariani, dove spiccano centri di detenzione e tortura come la tripolina Shara al-Zawiya, dove s’aggirano criminali stupratori di nome Almasri, beneamati da governi occidentali come quello italiano perché gli contiene gli sbarchi di migranti. Oppure il Sud Sudan, in cui dieci milioni di locali che seguono riti animisti e cristiani e attualmente rispondono al presidente ex generale Kiir Mayardit, potrebbero riprendere il conflitto geopolitico e tribale con lo Stato del nord interrotto un quindicennio addietro. Per tacere della Somalia, un territorio di bande e signori della guerra che annovera disastrosi interventi di sostegno economico, ma anche militare, da parte dell’Occidente ex coloniale, capaci di offrire fiato al jihadismo di al-Shabab. Attualmente su dodici milioni di abitanti si contano quasi due milioni di sfollati interni, mentre l’esecutivo di Sheikh Mohamud, in carica dal 2012 e legato ad al-Islah (Fratellanza Musulmana), non offre la stabilità sperata a fazioni federali, unioniste, separatiste ciascuna padrona d’un pezzo della nazione macchiata da aree fuori da qualsiasi controllo ben trentun’anni dopo l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Quindi il gigante indonesiano: 290 milioni di abitanti, Islam maggioritario e altre sei fedi, Prabowo Subianto come neo premier, legato comunque alla lobby militare che col colpo di mano di Suharto (al potere dal 1967 al 1998) oscurò il nazionalismo di Sukarno emancipatore dai Paesi Bassi nel Secondo dopoguerra. Siamo ancora nell’era di trapiantare le afflizione d’un popolo sulle altrui cicatrici?

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