lunedì 22 gennaio 2024

Modi prega Ram e prepara la rielezione

 


Tutti in posa davanti al tempio, per mostrare e mostrarsi più che celebrare. E se oggi una celebrazione c’è stata ad Ayodhya, cittadina sulle sponde del fiume Gaghra nel popoloso Uttar Pradesh, è quella della forza del nazionalismo religioso hindu sempre più potente, invasivo, partecipato. Dagli strati umili ai ricchi industriali, fino alle star di Bollywood che hanno prenotato un posto in prima fila nell’appuntamento caro al premier Modi, al suo governo, al suo partito. Un vero preludio della campagna elettorale per il primo ministro “venuto dalla strada” che insegue un terzo mandato. Nell’India della tradizione e delle radici Bharat (il termine sanscrito con cui il ceto dirigente che rinomina le città vuole chiamare d’ora in poi il Paese) e nel nazionalismo esasperato del Bharatiya Janata Party, che da tempo va a braccetto con la fanatica, razzista, fascistoide ideologia dell’hindutva, non c’è spazio per altre fedi. E neppure per altri gruppi etnici estranei o interni allo Stato. Tempi durissimi, dunque, per islamici e cristiani, che finiscono derisi, vessati, perseguitati, uccisi dai fondamentalisti hindu senza che polizia e ancor più le Forze Armate muovano un dito. Le aggressioni sono diventate pressoché quotidiane in tante, troppe aree della Federazione. Eppure oggi davanti al tempio della divinità Ram Mandir, costruito a tempo di record e costato 217 milioni di dollari, la folla dei fedeli è parsa festante e coloratissima. Il colore giallo che vira all’arancio di drappi e festoni risplendeva di suo e si rifletteva sui volti noti e sulla gente comune, offrendo una cornice lucente e dorata all’insieme delle forme umane e di quelle plasmate nelle varie statue delle decorazioni. Ma la memoria d’una cronaca tragica, che anno dopo anno sedimenta in storia, riporta alla mente la macabra violenza del 1992 quando il declivio su cui ora sorge questo tempio, fu luogo di follìa collettiva e distruzione. 

 

Rivolte contro una moschea del XVI secolo, Babri Majid, ridotta in macerie da quel fondamentalismo hindu che l’attuale partito di governo prese ad accarezzare, difendere e diffondere. Inserendo esso stesso, i suoi politici - laici e chierici - nel progetto di trasformare l’India pluralista e democratica, ereditata da Gandhi e Nehru nell’attuale Paese della discriminazione etno-religiosa. All’epoca il Partito del Congresso, erede di quella tradizione tollerante, iniziava un declino elettorale per le accuse di clanismo e affarismo accompagnate ad atti di terrorismo rivolte contro i Gandhi. Nel 1984 e nel 1989 furono uccisi prima Indira quindi il figlio Rajiv rispettivamente per mano di estremisti sikh e separatisti Tamil. Ma il veleno che s’insinuava nella quotidianità riguardava solo parzialmente le rivendicazioni separatiste di minoranze. Ben più corposo risultava  l’assolutismo totalizzante della maggioranza hindu capace di creare vere persecuzioni e saccheggi verso persone, cose finanche luoghi di culto. Anzi gli altrui templi vengono malvisti dagli arancioni, fedeli ai propri lavacri, ai riti, alle ricorrenze, alle preghiere e alle adunate collettive. Nel fatale dicembre 1992 la diceria che sotto il Babri Majid ci fossero vestigia d’un precedente tempio hindu, edificato dove si diceva fosse nato il dio Ram - tutte voci risultate infondate - portò gruppi induisti a incendiare e demolire la moschea d’epoca Moghul e uccidere duemila musulmani. Del resto certe diffuse teorizzazioni vogliono cancellare ogni traccia di passati ‘impuri’ così l’epoca Moghul viene stigmatizzata alla stregua della dominazione coloniale britannica. Ormai il sito di Ayodhya è assegnato all’orgoglio hindu, sebbene cinque anni fa la Corte Suprema abbia sentenziato che la distruzione del Babri Majid fu una grave violazione. Ma il nazionalismo religioso, con cui fanno i conti oltre 900 milioni di hindu, è ferocemente attrattivo. Scalda anime e corpi, consente di vivere felicità comuni, non importa se a discapito di altri indiani che, pregando differenti divinità, risultano ben poco indiani. Lo dicono Ram e Modi, il dio in cui credere e l’uomo per cui votare. 

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