lunedì 5 luglio 2021

Viaggio a Kandahar, i talebani tornano a casa

Dire che i taliban si riprendono Kandahar è un eufemismo. Di quella provincia hanno le chiavi di casa. Da lì partì la conquista del potere in un Paese liberato dall’occupazione sovietica e caduto in un lacerante conflitto etnico, tribale, religioso, clanistica, affarista. L’avevano combattuto i peggiori Signori della Guerra locali, abilissimi nella resistenza a un’Armata Rossa tutt’altro che motivata, e comunque messa in ginocchio dalla sagacia di certi guerriglieri dipinti come supereroi. Prendiamo Aḥmad Massud, leone del Panshir, non era Alessandro il Macedone, ma di capacità tattica, intelligenza, empatia ne aveva da vendere. Era amato non solo dai seguaci tajiki, dalla stessa stampa internazionale che lo carezzava con panegirici, interviste alle quali lui si prestava sfoderando un impeccabile francese. Il glamour gli fu fatale, nel settembre 2001 con una finta intervista due kamikaze, spacciatisi per cameramen di un’emittente marocchina, lo fecero saltare per  aria e s’immolarono. L’anno seguente il comandante, considerato un eroe nazionale, venne insignito d’un postumo Premio Nobel per la pace. Pensate un po’: un passo che rientra perfettamente nella manipolazione della realtà afghana che, se con gli intrighi del ‘Grande Gioco’ imperialista ottocentesco è cosa antica, con le recenti occupazioni è diventato parossistico. 

 

I mujaheddin che liberavano il suolo patrio dagli improvvidi russi, avevano gli arsenali colmi di missili Stinger con cui abbattevano gli elicotteri d’assalto di Mosca, e le casse colme di dollari americani e petrodollari sauditi. E’ storia risaputa. Ma dal 1989 per tre anni consecutivi i tajiki di Massud e Rabbani, i pashtun di Hekmatyar e Sayyaf, gli hazara di Mazari e Mohaqiq, gli uzbeki di Dostum - e poi Fahim, Khalili la lista è lunga, può proseguire con vecchi e rinnovati nomi - non trovando un accordo per guidare il Paese pensarono di risolvere la questione sparandosi addosso. Intrecciavano alleanze di comodo che potevano durare mesi o lo spazio d’un giorno e vomitavano morte. Martellavano coi mortai, collocati su alcune alture attorno a Kabul, l’altopiano sottostante dove viveva la popolazione. In quattro anni fecero ottantamila morti, forse più. E da quel 1994 un mullah di Kandahar, di nome Omar, raccolse gli studenti coranici trasformati in combattenti per una battaglia contro altri islamici, i Warlords, che continuavano a mantenere la nazione prostrata ai loro piedi, massacrandone i figli, riempendo di caos e lutti l’esistenza quotidiana. Aggregando nelle proprie file migliaia di giovani afghani, Omar e i suoi, quando due anni dopo cinsero d’assedio la capitale, venivano visti da molta gente, non da tutta, come i messaggeri d’una prossima stabilità. 

 


Durò pochissimo, anzi niente. Poiché la Shari’a talebana era letta con lenti non dissimili da quelle dei fondamentalisti che scalzavano. Omar non era diverso da Hekmatyar, il leader che s’era conquistato l’epiteto di macellaio di Kabul. Lo stadio e altre spianate della capitale divennero i luoghi di esecuzioni pubbliche, rivolte si badi bene non ai Signori della Guerra che intanto erano riparati in Paesi limitrofi, su cui spiccano Pakistan e Iran, sempre desiderosi di decidere d’orientare l’Afghanistan verso i propri orizzonti. Le fucilazioni colpivano cittadini pizzicati dall’istituita ‘polizia religiosa’ e rei di non seguire indirizzi morali consoni alla legge coranica. Ovviamente le donne finivano in prima fila nella repressione: le si vietava d’uscire di casa se non accompagnate da un uomo di famiglia, s’impediva loro di studiare e lavorare. Le si lapidava al sospetto di adulterio. L’onta delle lapidazioni pubbliche segnò l’onda sanguinaria del regime talebano, inducendo una diffusa disillusione. Fino alla quintessenza di gesti simbolici d’ottusa follìa, come la distruzione dei Buddha di Bamyan, scavati nella roccia da circa due millenni, e disintegrati dai coranici con un’iconoclastìa non dissimile da quella mostrata più tardi dall’Isis a Palmira.

 

Con l’invasione della Nato, coi governi fantoccio Karzai e Ghani che riciclavano i Signori della Guerra e promuovevano fanatismo - sebbene mascherato nella Loya Jirga da leggi favorevoli alle donne - è proseguita la grande bugia d’una trasformazione della nazione afghana. Chi ama quel Paese e il suo popolo, l’ex parlamentare Malalai Joya lo predica da almeno tre lustri, afferma che non è così. Le truppe occidentali ora in smobilitazione, che contavano un decennio or sono oltre centomila soldati, hanno donato ai talebani, pur orfani di Omar, l’etichetta di patrioti resistenti. Loro se la sono appuntata al petto, perché agli occhi di qualsiasi afghano non servile agli interessi occidentali, quei tank, quegli aerei, quei droni, quelle extraordinary rendition, hanno colpito tanta gente comune e innocente, facendo duecentocinquantamila vittime, quattro milioni di profughi, un’infinità di sfollati interni, decine di migliaia di migranti obbligati all’anno. Se fra qualche giorno o settimana i taliban entreranno nell’area di Kandahar, su cui compiono incursioni da un decennio, nessun cittadino locale si sorprenderà. Come potrà accadere per altri centri, che un fuggitivo generale Miller dice bisognerà difendere. Nessuno può farlo, perché l’esercito interno finanziato, assistito, addestrato per otto anni a suon di miliari di dollari è una cartapesta senza speranza, peraltro abbandonato da chi non sa per chi e cosa combattere. Perché a Doha gli americani hanno deciso che saranno i nemici d’un ventennio a governare l’Afghanistan.

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