domenica 13 settembre 2020

Afghanistan, il prezzo della pace

Lo scenario è di quelli storici, come nei momenti topici degli accordi internazionali. Tavolate dove siedono le delegazioni a confronto, composte e quasi eleganti nei paramenti che gli sono consoni: completo scuro quella del potere afghano, guidata da Abdullah Abdullah, nominato presidente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale. Nel tradizionale shalwar kameez con annesso turbante il gruppo talebano diretto dal mullah Abdul Ghani Baradar. Nessuna parentela col presidente Ghani, che per mesi ha messo la sua persona e il ruolo di traverso agli accordi già sottoscritti nello scorso febbraio con la controparte statunitense, sotto l’occhio del gran cerimoniere Zalmay Khalilzad. Tutto questo è accaduto e si ripete a Doha, ospitati dall’emiro al Thani, dove la famiglia talebana ortodossa ha da anni un Ufficio Politico con le maiuscole, pronto a supportare la creatura che va riproponendo - l’Emirato Islamico dell’Afghanistan - versione forse corretta di quella attuata per un quinquennio prima d’essere estromessa dalla missione Enduring Freedom. Sono trascorsi diciannove anni di occupazione e guerra, aperta e strisciante. Sono trascorsi inutilmente. Hanno prodotto soprattutto stragi di civili. Le cifre risultano approssimative, perché col tempo i conti si sono confusi con la polvere e il sangue. Chi li ha tenuti come alcune Ong internazionali e quelle che, pur oggetto di attentati (Médecins sans Frontières) da parte di quelli che oggi cercano di patteggiare, offrono cifre ingrate: dalle 200.000 alle 300.000 vittime civili. Senz’altra colpa che abitare in quella terra contesa. Quindi i militari afghani morti (circa diecimila), quelli Nato (circa quattromila, più duemila contractor). Mentre gli studenti coranici reclamano un numero di perdite assai più elevato: settantamila. Eppure ci sarebbero nuove reclute da lanciare contro le truppe Nato, perché il ritornello di difendere la terra afghana dall’occupante straniero, nonostante i metodi dei taliban, fa presa su tanti giovani: per convinzione, costrizione, disperazione. Ma non è scomparso, anzi. L’hanno compreso anche i generali del Pentagono, quelli che sono passati per i terreni petrosi dell’Hindukush, quelli che si son dati alla politica, sul fronte repubblicano o democratico fa poca differenza, tanto da spingere un pragmatico, opportunista e narcisista come l’attuale presidente Trump ad accelerare il processo d’uscita dal pantano afghano e rivendere il disimpegno salvifico per le casse statali (questa guerra è costata ufficialmente mille miliardi di dollari, ufficiosamente duemila) in funzione della sua seconda corsa alla Casa Bianca. L’approdo dell’accordo sembra a buon punto, quello della sua rielezione è incerto, ma intanto a Doha si va a firmare e fermare un quadro afghano che dovrebbe chiudere un capitolo nerissimo durato quasi vent’anni.
Quanto a stilare un nuovo percorso per la vita del Paese ce ne passa. L’attuale ambiente istituzionale di Kabul, screditato secondo i talebani, dovrebbe accettare nell’enunciata formula dell’Emirato il futuro da costruire e ognuna delle parti sa che non si tratta di semplice enunciazione. La sostanza riporterebbe i costumi all’epoca delle esecuzioni pubbliche per lapidazione, ai divieti di studio per bambine e ragazze, a un ruolo femminile violentato e subordinato? I mullah dialoganti sostengono di no. Intervenendo all’apertura degli incontri Baradar ha citato un progetto “per uno Stato indipendente, sovrano, unito e libero, cui la popolazione può partecipare senza discriminazioni, in un’atmosfera armoniosa e di fratellanza”. Ma precedentemente aveva rilanciato i princìpi della Shari’a, e d’una personale lettura dei testi coranici, come cartina al tornasole per le leggi di domani. Posizione che affanna le donne e chi s’occupa della loro esistenza, meno la politica ufficiale imbellettatasi per anni con norme di genere anche sacrosante, per poi disattenderle di fatto, istituendo un ipocrita fondamentalismo democratico. Preoccupa la doppiezza talebana che enuncia da mesi il cessate il fuoco, sebbene periodicamente si registrino attentati e assalti. Gli accusati rigettano ogni responsabilità, ma delle due l’una: o bluffano (poiché nella propria galassia c’è anche chi è contrario a questo patto demoniaco) oppure i propri dissidenti e concorrenti (lo Stato Islamico del Khorasan) riescono ad agire indisturbati sui territori controllati dall’Esercito afghano e dagli stessi talebani ortodossi. La sostanza non cambia: la pacificazione del Paese non è garantita. Egualmente preoccupa la divisione fra coloro che nella parata di Doha vestono i completi occidentali della festa. Alcuni, cominciando da Abdullah sono capi clan che non vogliono perdere posizioni acquisite e sono disposti a tutto. Ci si trova, dunque, davanti all’ennesima recita di vari poteri sulla pelle della popolazione? Probabilmente sì. Alcuni passi appaiono consolidati: il ritiro d’una buona parte delle truppe Nato (rimarrebbero 4.000 militari, sugli attuali 12.000). Da collocare sicuramente nella dozzina di basi aeree che il Pentagono, in ogni caso, non vuol chiudere. 

Nella sala dei colloqui sul versante talebano è presente anche Mawlawi Abdul Haqqani, chierico e giudice della Corte di Kandahar, un purista dell’Islam con un forte ascendente sulla delegazione dei turbanti. Nella delegazione trattante avrà di fronte tre donne che Ghani ha voluto inserire fra i “governativi”. Habiba Sarabi, prima governatrice in una provincia, quella di Bamiyan, molto vicina all’ex presidente Karzai. L’immancabile Fawzia Koofi, deputata ormai di lungo corso e vicepresidente della Wolesi Jirga, tempo addietro ferita in un attentato attribuito ai talebani che quest’ultimi hanno negato. Certo è che Koofi ha spesso lanciato accese critiche all’epopea taliban (1996-2001), ma il suo impegno a favore delle donne è stato anche bollato da oppositrici e femministe come funzionale al sistema corrotto delle amministrazioni, prima Karzai, poi Ghani sostenute dagli Stati Uniti. Infine Sharifa Zurmati, già giornalista prima di entrare in Parlamento. Suo un iniziale intervento sulla necessità di affrontare i diritti delle donne e le libertà civili nel nuovo sistema politico.  Fra i temi posti sul tappeto uno appare drammaticamente assente: l’economia futura della nazione. Andando a ritroso: diciannove anni d’occupazione statunitense, quattro di regime talebano, quattro di guerra civile, altrettanti di caotiche scorrerie dei signori della guerra e circa nove d’occupazione sovietica hanno segnato tre generazioni di afghani finiti nei campi profughi pakistani e iraniani, vittime civili sotto le macerie, morti combattendo contro e a favore dei talebani, fuggiaschi all’estero, migranti della disperazione, impossibilitati a lavorare liberamente e dignitosamente. Tutto a svantaggio oltre che di se stessi, della ricostruzione economica del Paese. Ancor’oggi gran parte della popolazione sopravvive con occupazioni minime da un dollaro al giorno, arrabattandosi in commerci poveri e più o meno leciti, i “fortunati” prestano servizio nell’apparato burocratico spesso colluso con la politica della corruzione. L’Afghanistan rientra nel perverso modello dei territori controllati dall’imperialismo con la forza e la politica degli aiuti che impedisce qualsiasi emancipazione autoctona. Tuttora gli apparati dello Stato, capiclan e capibastone, compresi coloro che siedono ai tavoli di Doha, sono i supervisori e gestori dei miliardi di aiuti dirottati in loco dall’Occidente. E’ questo il Convitato di pietra con cui i dialoganti devono fare i conti. Senza autonomia economica non c’è futuro, né può esserci pace.

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