lunedì 7 ottobre 2019

Usa, via dalla Siria


Messaggia Trump: “E’ ora di uscire da questa ridicola guerra tribale infinita e portare i nostri soldati a casa…”. Così gli americani iniziano il ritiro dal nord della Siria, non è chiaro se con un manipolo simbolico o con tutte le truppe lì presenti. Su quel terreno per tre anni avevano sostenuto i combattenti del Rojava kurdo nell’azione di contrasto e riconquista dei territori occupati dai jihadisti dell’Isis. Tutti ricordano le controffensive delle Ypg per riprendersi non solo l’enclave di Kobanê, ma anche la città di Raqqa, divenuta nei progetti dell’autonominato califfo Al Baghdadi la capitale dello Stato Islamico. Questo ritiro offrirebbe all’esercito turco campo libero per eventuali azioni di pulizia militare contro le milizie delle Unità di Protezione del Popolo, mal sopportate anche da Damasco e considerate da Erdoğan un ramo del Pkk, che la Turchia combatte militarmente e perseguita legalmente, come nel caso del leader Öcalan prigioniero da vent’anni. Da mesi il presidente turco ripete che il suo esercito può intervenire senza preavviso in quei luoghi perché non può tollerare gruppi ‘terroristi’ ai confini. Per accattivarsi consensi interni e internazionali fra le sue proposte c’è quella di creare nelle zone da occupare strutture dove convogliare una parte (si pensa a due milioni) dei tre milioni e mezzo di profughi siriani attualmente accolti in territorio turco. Per il governo di Ankara quest’area dovrebbe essere lunga 480 km e profonda diciannove miglia (30 km).

Le unità kurde sono allertate doppiamente, sia per la battaglia da sostenere contro la possibile invasione dell’esercito della mezzaluna, sia per un ritorno di fiamma dei miliziani dell’Isis. Insomma si corre il rischio di vanificare almeno in parte i successi conseguiti contro i jihadisti, tanto che un annuncio ufficiale del fronte kurdo ha definito l’uscita statunitense “una pugnalata”. I russi, protettori di Asad e da tempo in buoni rapporti con Ankara, hanno comunque dichiarato che un aspetto prioritario resta quello di preservare l’integrità territoriale siriana. E nel gioco delle parti nessuno dello staff erdoğaniano sostiene di mettere in discussione tale unità territoriale, visto che le principali aree d’intervento riguarderebbero i territori del Rojava kurdo, lì dove i lealisti di Asad non mettono piede.  Eppure la Turchia ribadisce l’intento di ridisegnare il nord del Paese confinante anche con azioni militari unilaterali, qualora le aspettative generali non coincidessero con le proprie. Secondo una lettura di taluni osservatori la smania turca di fare e strafare coincide con la comprensione che l’amministrazione Trump cerca di allentare l’impegno militare in varie aree mediorientali, dall’Afghanistan verso ovest. C’è poi la questione dei prigionieri jihadisti. Solo Turchia e Stati Uniti si sono posti il problema, l’Unione Europea latita. Si potrebbe rimpatriarli? Ma le dinamiche non sono chiare e poi molti di costoro sono detenuti dai kurdi che, abbandonati da tutti, dovranno programmare soluzioni.  

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