venerdì 12 luglio 2019

Turchia, effetto crisi


Se ne va Ali Babacan non solo dal governo, non aveva più cariche, ma dal partito della Giustizia e dello Sviluppo di cui era cofondatore. Erdoğan lo critica, anche perché insistenti voci, che l’interessato continua a smentire, parlano di piani per formare un nuovo partito. Dice il presidente: “(Quella di andartene) è una tua scelta ma non dimenticare che non hai il diritto di rompere la Umma” e la frase è più d’un avvertimento. Ribadisce il fulcro del pensiero politico del sultano dove comunità, partito e programma sono elementi inscindibili d’un progetto che è una missione. La perdita per l’Akp è grave. Babacan non è un politico qualsiasi, anzi non è proprio un politico, ma quel genere di tecnico di cui la politica necessita. Proprio il suo bagaglio di competenze accresciute in decenni di studio, prima all’Anara College, quindi all’Università tecnica di Ankara dove si laureò in Ingegneria, cui sono seguite borse di studio statunitensi in Management ne hanno impreziosito valore e ruoli. Così nel 2002 s’è prestato a offrire conoscenze economiche al doloroso piano di riforme sostenute dal Fondo Monetario Internazionale i cui prestiti servirono a far decollare gli investimenti interni. Il tecnocrate Ali è stato sempre stimato da Erdoğan che ha avuto bisogno di personalità come la sua che spiccavano nei Forum internazionali, tenendo testa ai potentati della finanza internazionale, comprese certe lobby alla Gruppo Bildelberg.
E quando insistenti dicerie consideravano Babacan vicino ai fethullaçi del movimento Hizmet all’ex ministro non accadde nulla, né finì nelle retate o nelle dismissioni forzate tutte ispirate dalla vendetta erdoğaniana. Ora è lui a dimettersi, sostenendo di non nutrire più quel senso d’appartenenza che aveva condiviso col partito islamista. Su questa scelta il presidente non ha dato vita a quelle reprimende che ne hanno caratterizzato il percorso politico nei confronti di avversari e anche amici diventati ex. Si toglie solo la soddisfazione di sottolineare una certa ingratitudine d’un tecnico che lui ha portato molto in alto in cambio del consistente aiuto fornito in varie occasioni. Se questo passo è l’effetto della destabilizzazione che le elezioni amministrative di marzo hanno prodotto in seno all’alleanza di governo e al partito di regime si vedrà. Certo nell’Akp si spegne un’altra lampadina. La perdita della guida di tutte le maggiori metropoli turche ha avuto contraccolpi in seno a un raggruppamento che aveva retto di fronte a scontri politici, sociali, militari e terroristici interni ed esterni. Era riuscito a digerire anche i forfeit di personaggi come Gül e Davutoğlu, ma che perdita dopo perdita si trova ad avere un ceto politico mediocre. Quasi in contemporanea con l’uscita di scena di Babacan s’è verificato un ennesimo cambio al vertice per la burocrazia di Stato: in questo caso della Banca Centrale. Lascia la carica Murat Çetinkaya, secondo fonti presidenziali colpevole d’aver fallito al cospetto delle norme di mercato, e subentra Murat Uysal, chiamato direttamente da Erdoğan in base ai poteri del presidenzialismo introdotti dalla modifica costituzionale del 2017.  

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