mercoledì 5 aprile 2017

Turchia, il presidenzialismo batte sull’urna

Il referendum turco, che domenica 16 deciderà se approvare la riforma costituzionale varata dal parlamento, ha un’onda lunga che s’agita sin da gennaio. I deputati del Meclis votavano i diciotto emendamenti dopo essersi scazzottati e gli attivisti del sì e del no ne hanno, in alcune circostanze, emulato le gesta. Il presidente in carica Erdoğan, che da questa mutazione genetica della Carta riceve poteri pressoché assoluti (abolita la figura del premier, introdotti decreti presidenziali al posto di leggi parlamentari e misure d’emergenza per ragioni di sicurezza, possibilità di controllo sul massimo organo giudiziario grazie a nomine dirette), aveva inizialmente tenuto un basso profilo. Evitava di spargere sale sulle ferite dell’ulteriore spaccatura in atto nel Paese per non collezionare l’ennesima accusa di polarizzazione. Nelle scorse settimane l’indole l’ha tradito. Dopo i dinieghi incassati dai ministri turchi a tenere comizi ai connazionali emigrati in Germania e Olanda, lui non s’è trattenuto. Ha accusato i governi di quei Paesi, membri della non amata Unione Europea, di conservare germi di nazismo. Così le polemiche sono rimbalzate sulla vetrina internazionale, prima di tornare in casa dove vengono rinfocolate da nuovi casi. I pochi media rimasti fuori dal controllo del governo, notano come Bahçeli, l’alleato tattico grazie ai cui voti la riforma è passata, sia impegnato ad allontanare da sé responsabilità in caso d’insuccesso. Non è un segreto che il leader nazionalista, che pur controlla parecchi onorevoli disponibili ad appoggiare la svolta presidenzialista (si vocifera in cambio di favori), sia parecchio contestato dalla base.

I kemalisti del Mhp sono divisi e una parte del partito sostiene il fronte del no. Perciò il vecchio lupo grigio cerca alibi e capri espiatori in caso di sconfitta referendaria, sa che l’ira del presidente sarebbe immensa e la vendetta dell’attivismo dell’Akp, metterebbe da parte ogni vicinanza dell’ultim’ora, rinfocolando gli antichi odi fra kemalisti duri e puri e islamisti altrettanto pugnaci. Così Bahçeli, fra un passo in un’intervista e un’insinuazione profferita a mezza bocca, parla di Gül e Davutoğlu. L’ex leader, premier e presidente ha lasciato cadere l’invito rivoltogli da un noto parlamentare dell’Akp a partecipare a comizi per il sì. In tal modo ha rinfocolato le voci che lo vogliono accanto a chi respinge apertamente il cambio di rotta costituzionale. I think tank più vicini al presidente fanno girare due parole, che si trascinano dietro concetti e insinuazioni poco lusinghieri: tradimento e inconsapevole. Nelle diatribe dell’islam politico turco - Gül e l’ex professore-ministro rappresentano un passato recentissimo del progetto che li vedeva uniti a Erdoğan e Gülen - il fatto che i due statisti neghino il consenso al referendum li marchia come traditori. Magari inconsapevoli (avranno smarrito il senno?) ma espressamente traditori. Per il clima di resa dei conti nella famiglia islamista, in atto dalla scorsa estate con la caccia ai fethullaçi, non è un bell’andare. Sino a qualche settimana fa le proiezioni del sì erano confortanti e s’attestavano attorno al 55%, ultimamente s’è insinuato il dubbio. Le sue aree forti sono nel centro anatolico, lo stesso che aveva approvato anche i referendum votati sotto le giunte militari negli anni Sessanta e Ottanta.

Roccaforte del no, la provincia di Istanbul e l’area costiera mediterranea centroccidentale. Poi c’è l’incognita del sud-est. Gli ultimi rumors danno il voto contrario in ripresa, tantoché si sono verificati episodi contestati davanti alla magistratura: casi in cui fedeli islamici, fedelissimi al presidente, che si sono disposti sul pavimento d’una moschea a formare un acronimo d’appoggio al sì. Molti dissensi sono sorti attorno a un uso spregiudicato di mezzi e fondi governativi per sostenere quella campagna. Il Chp ha denunciato una pervicace ostruzione alla sua propaganda per bocciare i referendum, mentre l’emittente TNT s’è rifiutata di mostrare il logo dello schieramento del no perché riproduce una stella che ‘imita’ la bandiera turca. Cosa giudicata irregolare. Per parare i colpi dallo staff presidenziale è ripartita una marcatura stretta anche verso i kurdi e la recente proposta del leader kurdo-iracheno Barzani su un altro genere di referendum: per l’indipendenza dell’etnìa in Iraq, che potrebbe avere ripercussioni anche oltre il confine turco, è passata quasi inosservata con una reazione mite della leadership di Ankara. Più d’un osservatore pensa si tratti d’una tattica per la ricerca del sì anche nell’area del sud-est. Stoppata, però, dal co-presidente prigioniero, il leader dell’Hhp Demirtaş, tuttora in galera nella provincia di Edirne. In un messaggio portato all’esterno ha scritto: Andate alle urne e votate no, senza distinguere se si è kurdi, turchi, aleviti, sunniti o di qualsiasi sigla di partito. Il coraggio è contagioso, sicuramente il bene vincerà”.

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