martedì 3 marzo 2015

Cairo, il crescendo esplosivo

L’ultima esplosione, dove una vittima non è confermata, ma dieci feriti gravi sì, s’è verificata in un luogo centralissimo e simbolico: l’Alta Corte di Giustizia a Ramses Street, uno dei punti più frequentati e commerciali della capitale egiziana. Un palazzo, peraltro, controllatissimo. Evocativo di anni di udienze e sentenze clamorose, sebbene molti processi contro gli oppositori del regime dello Scaf, prima che dello stesso Al-Sisi, si sono consumati e si stanno svolgendo in luoghi protetti come le carceri di massima sicurezza situate nell’immenso hinterland del Cairo. Chi abbia interesse a seminare terrore è da mesi un argomento dibattuto. Il presidente Sisi e il suo contestato entourage repressivo si sono ultimamente guadagnati la considerazione internazionale coi raid aerei sui jihadisti di Tobruk e di Derna, anche sul fronte interno hanno colpito duro nel Sinai, allentando la stretta delle detenzioni. Sono stati scarcerati i giornalisti di Al Jazeera, detenuti per oltre un anno, e proprio ieri 120 giovani e studenti che avevano partecipato a cortei non autorizzati (non la guida della Fratellanza Badie e al-Shater condannati invece a morte). Il Cairo e qualche altra importante città egiziana subiscono attentati che seminano morte e paura. E risentimento fra la gente che, com’è accaduto ieri nell’area prospiciente il Palazzo di Giustizia, reclama a gran voce sicurezza e repressione.

Il terrore urbano s’è avviato a cavallo fra il 2013 e 2014, quando bombe e autobombe iniziavano a scoppiare lungo strade ad alta percorrenza (per la carenza di mezzi pubblici ogni via cairota è sempre strapiena di traffico privato) e si registrò il clamoroso boato notturno in un altro luogo assai vigilato: il quartier generale della polizia. Secondo i mukhabarat si trattava delle prime mosse armate della Brotherhood; ipotesi possibile ma non certa, anche perché la componente maggioritaria della leadership ancora a piede libero condannava passi radicali e armati,  reclamando la fruibilità della scena politica di massa. Nell’ipotesi dell’uso terrorizzante delle esplosioni faceva capolino la teoria delle “bombe a scopo coercitivo” pilotate dallo stesso esercito che aveva strumenti e finalità per una simile strategia. Dopo un anno le certezze mancano, si è delineato però un orizzonte instabile, ma più chiaro. Una parte della popolazione pro Confraternita prosegue a manifestare e scontrarsi, com’è accaduto nei giorni scorsi nei quartieri popolari di Matariya e Fayçal, lanciando pietre e molotov, sparando qualche colpo di pistola, venendo arrestata e uccisa. Continua, insomma, a rivendicare una visibilità che ha definitivamente perduto e che, sul fronte della protesta, diventa rischiosissima anche per oppositori laici, fucilati in strada: il caso più clamoroso riguarda l’attivista socialista Shaimaa al-Sabbagh.


Parecchi giovani iniziano a guardare ai jihadisti, che sono presenti e organizzati nel Sinai e non solo. Com’era prevedibile l’incrudimento dello scontro e soprattutto la persecuzione estrema possono spingere, e stanno conducendo, forze giovanili nelle braccia fondamentaliste. Per ora non come in Iraq, Libia o nei territori sub-sahariani, ma tutto ciò accade. E’ possibile che le ripetute esplosioni succedutesi in città siano frutto di “lupi solitari” capaci di scegliere individualmente obiettivi, cercando di accreditarsi verso cellule armate che possono formarsi nel Paese. La morte di attentatori inetti che saltano in aria, com’è già accaduto, ne fa notare la provenienza fra strati marginali della popolazione dove la propaganda islamica, combattente e non, sono diffuse nonostante i controlli e la repressione. Poi c’è il jihadismo organizzato, alla ex Ansar Bait al-Maqdis, che ha sposato la linea dell’Isis con tanto di decapitazioni mostrate nel deserto ormai chiamato “Wilayat Sinai”. Costoro terrorizzano altrove. Usano coltelli e kalashnikov, non sembrano orientati sulle autobomba, in quei luoghi occorrono magari bazooka e missili. Ma non è detto che, diventato globale in casa, questo conflitto non preveda ogni tipologia armata. Una condizione che non favorisce affatto la normalizzazione sognata da una parte del Paese e che Sisi ha promesso di garantire.

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