C’è ressa sul cosiddetto piano di ‘Pace per Gaza’ trasformato in ‘Affari su Gaza’. La premessa già a inizio anno, quando Trump faceva girare il filmato su sé stesso disteso al sole a drinkare con l’amico Netanyahu killer allora di quarantamila gazawi, era speculativa. Ne ammazziamo un altro po’, sfrattiamo i restanti e costruiamo resort che vanno bene a me (pensava il tycoon) e garantiscono a te e compari potere e sicurezza. Cin!! Da quell’istante a oggi le vittime sono raddoppiate, due-trecentomila abitanti son riparati nei campi profughi di confine, altri seguiranno e la ridefinizione finanziaria e geopolitica della Striscia avrà il suo corso. Intanto il sedicente Ufficio internazionale che segue gli sviluppi ha dettato a Sharm el-Sheikh il primo vademecum. E le petromonarchie hanno subìto un declassamento. Il Qatar di al-Thani, che per mesi aveva ospitato oltre ai vertici di Hamas anche fasi di trattative su ‘cessate il fuoco’ e ‘aiuti’ non ha conservato la sede per i nuovi incontri. Evidentemente lo sdegno qatarino per i raid aerei sul suo territorio hanno indisposto i bombardatori di Tel Aviv, perciò retrocessione a favore dell’Egitto di al-Sisi che passa alla testa dei mediatori. Il presidente-golpista gongola. Ha sempre cercato d’indirizzare gli obiettivi mediatici sul suo volto per distrarli dalle mani intrise di sangue. Chiunque, repubblicano e democratico d’Oltreoceano, lo stimi ne apprezza la funzione poliziesca per la normalizzazione autoritaria del Medio Oriente. Le stesse monarchie del petrolio che s’aprivano a Israele con gli ‘Accordi di Abramo’ l’avrebbero accolto nel clan ma con un profilo basso e defilato, non certo a favore di telecamere e per giunta in prima fila. Perciò a Sharm, due pesi da novanta del capitalismo arabo: il saudita bin Salman e l’emiratino bin Sayed, non si sono presentati.
Un’assenza che fa da monito alla stessa coppia padrona della ‘pace presente’ e sottolinea come senza i dollari degli sceicchi la sistemazione di Gaza può vacillare. Non tanto nell’edificazione d’ogni genere che comunque vedrà anche capitali emiratini, qatarioti, sauditi - come confermano l’urbanistica di lusso e lo sport mondiali - quanto perché altri petrodollari dovranno provvedere al mantenimento di profughi palestinesi, adesso che per volere dello Studio Ovale le agenzie Onu vengono ridimensionate. Insomma il messaggio dei due Bin a Trump sottolinea il loro scontento sulla direzione degli incarichi geopolitici di vertice. Entrambi considerano il generale egiziano, nonostante la presidenza del più grande Paese arabo, uno spiantato da assistere. Lui non può né dev’essere l’uomo-immagine della nuova fase mediorientale. Potrà aggregarsi, venire accettato nell’ipotetico rilancio dell’Accordo di Abramo, però sempre in subordine a chi profonde i capitali per far marciare ogni cosa. Che altrimenti potrebbe marcire, tramite finanziamenti ad Hamas, alla Jihad palestinese e a chi volesse rilanciare l’instabilità regionale. Altro che disarmo islamista… Tutto ciò non sta in alcuna dichiarazione ufficiale e neppure ufficiosa, ma Trump non può trattare gli sceicchi come in Europa tratta Zelensky. Siamo in un altro scenario. Del resto se il primo cittadino d’Egitto risulterà utile come controllore di valichi d’un territorio da ristrutturare (Rafah soprattutto ma sempre col benestare dell’Idf), i suoi mallevadori Trump e Netanyahu ne apprezzano la fedele subordinazione. Necessitano d’un presuntuoso servitore e Sisi è perfetto per il ruolo. Fra i leader regionali di spicco con desiderio di comando sulle trattative, c’è il turco Erdoğan, finora incredibilmente discreto. La sua diplomazia è di facciata, Trump e Netanyahu che lo detestano lo sanno. Ma il primo deve cibarselo in qualità di maggior alleato Nato, il secondo quale ingombrante ostacolo alle mire del Grande Israele su Cisgiordania e pezzi di Siria e Libano. Il nuovo cantiere mediorientale continuerà a lungo a decretare: lavori in corso.
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