venerdì 25 luglio 2025

Il chiaroscuro della morte

 


Più della luce, in perfetto chiaroscuro caravaggesco, è il dramma assoluto quello che mostrano gli scatti di Ahmed al-Arini, il fotografo che dalla Striscia testimonia attraverso media e agenzie internazionali (France Presse, Bbc, Le Monde, Anadolu) la tortura per fame inflitta da Israele ai due milioni di gazawi. Fra loro, se non scheletrici come Muhammad Zakariya Ayyoub al-Motouq il figliolo ritratto in braccio alla madre, un quarto dei bambini è malnutrito, ha denunciato ancora oggi “Medici senza Frontiere”. Ma se tanti politici ascoltano e, a parole, si rammaricano, la perversa catena di morte non viene fermata. Da nessuno. A poco servono tardivi riconoscimenti d’una casa-Stato palestinese che non esiste più né nella Gaza rasa al suolo, né nella Cisgiordania stritolata da coloni sanguinari e militari loro protettori. La coppia del genocidio Netanyahu-Trump cammina dritta per ripulire la Striscia dai suoi abitanti e usa ogni misura: innanzitutto lo scorrere del tempo, che fa languire chi vive soffocato da tanta crudeltà criminale. Poi l’arma dell’estinzione indiretta per fame, e sempre ordigni e pallottole che quotidianamente mietono vittime anche fra chi s’affanna a recuperare una ciotola di cous-cous, una  manciata di farina, una scorta d’acqua potabile. Lo Stato d’Israele non recede dalla pratica che pure cinici militaristi dichiarano fuori da qualsiasi protocollo bellico. Ha l’alibi del nemico terrorista, che accusa di non voler restituire i prigionieri ancora sotto la sua giurisdizione (cinquantanove di cui forse la metà in vita), mentre Hamas con l’intermediazione di Egitto e Qatar per quella restituzione rilancia un accordo con cessate il fuoco duraturo e la liberazione di duecento prigionieri palestinesi. Per ora non c’è luce. E gli spiragli che s’intravvedono, da sotto le tende dove giacciono corpi martirizzati, baciano le membra emaciate di chi non sopravvive a una miseria incancrenita per ragione di guerra. Un realismo così crudo, un dolore così immenso, un tormento così profondo non compariva in nessuna tela scenografica e teatrale del Maestro del chiaroscuro barocco.  Quella precarietà esistenziale nella quale Caravaggio sceglieva umili, diseredati, reietti per trasferirli nei suoi dipinti a omaggiare santi o a incarnarne le figure, non riproducevano supplizi simili a quelli che abbiamo sotto gli occhi con questo sterminio.

martedì 22 luglio 2025

Numeri, nomi, strazi

 


Mille solo per fame. Da aggiungere ai sessantamila, ma sono di più, molti di più smembrati da centoventicinquemila tonnellate di polvere esplosiva prima di finire fra l’altra polvere e la terra. E sotto di esse. La terra contesa, si dice. La terra rubata, è più giusto. Rubata assieme alle vite, quando il cuore ancora batte e quando non riesce più farlo perché è prosciugato dai digiuni imposti dai sicari in divisa, tristemente obbedienti al ruolo infame. Riuscire a conoscere il nome dell’ultima vittima, che l’impotente patriarca cattolico di Gerusalemme definisce un atto di umanizzazione davanti alla sfibrante conta giornaliera dei cadaveri, è pietà laica prima che sacra ma non serve a placare la brama di sterminio israeliana. Ormai molti di più d’un anno addietro e dei mesi successivi l’attuazione del piano genocidario sui gazawi, un piano accolto come liberatorio dalla maggioranza che conta nello Stato ebraico, molti fra politici e pensatori, personalità e nazioni, gente per bene e cittadini qualunque, e organismi come le Nazioni Unite, i Tribunali Internazionali che dovevano misurare e contenere  le atrocità dei potentati del mondo, pensano tutto il peggio su Netanyahu, sul suo governo criminale, sulle loro strutture di misfatto celate dietro divise militari o doppiopetti diplomatici, ma la mortifera pianificazione prosegue. Non una distopìa, no. Una repellente sanguinaria realtà che tritura e risucchia vite sfibrate nel buco nero del suo orrore. I racconti di questo terrore riescono ancora a proseguire grazie alla pattuglia, purtroppo sempre più assottigliata, degli eroici giornalisti palestinesi della Striscia, massacrati anch’essi in oltre duecento, tanto per tornare ai numeri, e possiamo citarne qualcuno (Fadi Hassouna, Ibrahim Al-Sheikh…) tanto per non dimenticare i nomi. Sebbene i loro volti, come quelli cadaverici prima d’esalare l’ultimo respiro di Fatima o Mohammad, non li abbiamo mai incrociati sui nostri schermi, schermati dal servizievole inchino all’alleato americano. Il padrino del democratico Israele, la funerea nazione sovrana che dal 1948 impone lo strazio del popolo di Palestina. 


 

martedì 15 luglio 2025

Drusi contro beduini, nella Siria da plasmare

 


Nel lavoro incompiuto e difficilmente ricomponibile d’una nuova nazione siriana, che vede l’attuale leader al-Sharaa vestire i panni del pacificatore, la parte esplosiva del Paese risulta ancora l’ovest. Un territorio dove più sanguinosa e dura era stata la guerra civile, nello sfibrante braccio di ferro fra lealisti di Asad e jihadisti amici e sodali dell’allora al-Jolani. Tutto riversato sulla popolazione civile sotterrata a decine di migliaia. In quell’occidente settentrionale, fra Latakia e Tartus, è radicata la comunità alawita, protetta e alleata dell’ex presidente, mentre a sud insistono i clan drusi che nello scorso fine settimana si sono scontrati con tribù beduine. Per chi non lo sapesse, i drusi sono un gruppo etnico-religioso, sciita-ismaelita, da tempo diventato una  setta a sé stante, gruppo relativamente numeroso con settecentomila fedeli in Siria, trecentomila in Libano, più di centomila fra Galilea e Alture del Golan dunque nell’odierno Israele, e altre briciole fra Giordania, Turchia, Iraq. Bistrattati in varie epoche, come qualsiasi minoranza, costoro si sono armati durante il conflitto interno del 2012, seppure restando in genere neutrali e distaccati dai due fronti della contesa. Solo nella spallata ad Asad del 2024, la brigata al-Jabal s’è spinta fino alle porte di Damasco e ha liberato il proprio territorio fra Sawayda e Daraa. L’azione è valsa alla comunità lo status armato e il controllo di quell’area. Alla proposta di al-Sharaa di contribuire alla ricostruzione d’un esercito nazionale, era seguito un assenso dei capi drusi, ma nessun passo concreto. In precedenza Israel Defences Forces aveva speso alcuni bombardamenti a favore delle tribù druse del Golan che rigettavano, però, un protettorato giudicato subdolo. A Suwayda recenti fiammate, con morti e feriti, si sono ripetute fra tribù druse e beduine, quest’ultime d’orientamento religioso sunnita. Non è un’eccezione, ma ora che la moribonda Siria cerca di uscire dal coma, la vicenda fa notizia. 

 

E la rende sensibilissima, sia per il predetto disegno militare unitario di al-Sharaa, sia restando sul campo bellico per un riaffacciarsi in zona delle milizie di parte (Ash Sharqiyah) responsabili della reazione stragista contro gli alawiti nel marzo scorso, sia per l’ingresso dell’immancabile Idf che cerca qualsiasi appiglio per interventi ben oltre la frontiera, atti ad ampliare ulteriormente il “cuscinetto di sicurezza” orientale. Queste che in fondo possono essere considerate scaramucce nello sconquasso precedente subìto dallo Stato siriano, e nel ridisegno mediorientale avviato con l’offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Libano, l’Iran, vedono uno sfondo geopolitico su cui si muovono i grandi manovratori del disegno: la coppia alleata Trump-Netanyahu. Quella che non rinuncia e rilancia gli ‘Accordi di Abramo’, per sancire il definitivo abbraccio fra i grandi capitali arabi delle petromonarchie con gli interessi, anche economici, ma certamente politici e coloniali di Tel Aviv e delle sue aziende, in stretta correlazione con multinazionali di varie sponde. Occidentali ma pure intrecciate e di prossima espansione fra gli emiri. Il blocco politico che sogna di sradicare popolazioni, non semplici minoranze comunque in diritto di resilienza ed esistenza, da ben note aree (in prima fila si sono appunto Gaza e l’antica Palestina) e disegnarle come tante Abu Dhabi e Sharm al Sheikh. Deportando chissà dove comunità autoctone e trasformando i loro villaggi in resort per un turismo sguaiatamente danaroso. Il piano cerca d’ampliare adesioni e alleanze, non di partenariato ma di compartecipazione subordinata, e gli occhi sono puntati su governi malmessi e traballanti oppure neonati, come quelli del libanese Salam o del siriano al-Sharaa. Quest’ultimo sguarnito, almeno personalmente, di kalashnikov e ripulito per accedere ai tavoli internazionali a senso unico, dove si va a caccia di adesioni a pianificazioni preconfezionate. Nelle scorse settimane la Casa Bianca ha graziato la Siria dalle sanzioni, in più ballano finanziamenti miliardari per risollevare le miserabili condizioni di vita del dopoguerra, al-Sharaa deve solo annuire e piegarsi.

sabato 12 luglio 2025

Simboli e lascito

 


Il fuoco purificatore con cui un manipolo di combattenti, ormai ex, quindici donne e quindici uomini del Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk) hanno arso le proprie armi in un braciere davanti a un più copioso manipolo di camere, microfoni e taccuini provenienti soprattutto dalla Turchia ma pure dal Kurdistan iracheno, tutti riuniti a Dokan, governatorato di Sulaymanniyya, segna un monito per il futuro. Quando Bese Hozat a nome del partito ha dichiarato: “Siamo qui per rispondere all'appello dello scorso febbraio del nostro leader Abdullah Öcalan e della risoluzione del XII Congresso del Pkk del maggio seguente. Distruggiamo volontariamente le armi, in vostra presenza, come un cenno di buona volontà e determinazione. Ci auguriamo che porterà pace e libertà e avrà risultati favorevoli per il nostro popolo, i popoli della Turchia e del Medio Oriente” taluni cuori si sono stretti e il fiato s’è fatto corto. Al pensiero delle tante vittime proprie, oltre quarantamila, e altrui, dopo quarantacinque anni d’opposizione dura al governo di Ankara. Incarnato da militari, governi repubblicani (negli ultimi vent’anni all’opposizione) e poi islamisti dell’Akp da qualche tempo riuniti ai nazionalisti del Mhp; combattendo sui monti dell’est anatolico, nei luoghi dove il Pkk è nato fra Lice e dintorni, pugnando coi kalashnikov e con le bombe, contro i carri armati dell’esercito, colpendo caserme e militari, battendosi nelle municipalità con sindaci e rappresentanti politici, spesso arrestati e pure trucidati insieme a interi villaggi da repressioni mirate e generalizzate. Un passato indimenticabile e insanguinato. Eppure nella cerimonia di ieri il membro del Congresso nazionale del Kurdistan Mohammed Amin diceva: "In Turchia, la Costituzione non riconosce ancora l'identità kurda. Non ci sono state opportunità per i kurdi che in questi decenni non hanno avuto altra scelta che combattere. Questa resistenza aveva i suoi obiettivi. Ma dopo cent’anni di negazione  oggi lo Stato turco sta prospettando un processo di pace”. Lo diceva non solo a favore di microfoni, ma al cospetto di testimoni, popolari e di rango, come alcuni esponenti del governo del Kurdistan iracheno e a quelli del Partito per l’Uguaglianza dei Popoli (Dem) che siedono nel Parlamento di Ankara.

 

"Se la Turchia concede diritti pacificamente, i kurdi accoglieranno questo passo... Oggi sono pronti a deporre le armi e consegnarle. A mio parere, la Turchia ha raggiunto un punto in cui non può sconfiggere militarmente il Pkk e i kurdi”. Sarà. Ma la realtà racconta altro. Dal 2016, Ankara è riuscita a bloccare il Pkk anche nella regione del Kurdistan dell'Iraq utilizzando tecnologie avanzate come droni e sistemi d’Intelligence, oltre a stabilire decine di avamposti militari che limitano la libertà di movimento e l'infiltrazione  attraverso il confine. Così il gruppo armato (terrorista non solo per i turchi, ma per gli esecutivi europei e statunitense) ha avuto spazi impraticabili per azioni anche dimostrative. L’ultimo attacco, nell’ottobre scorso a Kahramankazan, con due miliziani (organici? dissidenti? lo sanno solo a Qandil) che a volto scoperto hanno assaltato una struttura della Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca, prima d’essere abbattuti dalla sicurezza e lasciare sul terreno  cinque vittime. Era già in corso la trattativa che ha portato all’odierna dismissione armata. Rashid Benzer, politico di Dem venuto dalla provincia di Sirnak, a sua volta ha ricordato: “Dal Duemila il Pkk ha dichiarato più d’una decina di cessate il fuoco, purtroppo nessuno è riuscito. Speriamo che questo sia quello buono e che i nostri amici siano rilasciati (il riferimento è a Demirtaş e agli altri detenuti dell’Hdp, ndr). Ringraziamo anche la regione del Kurdistan e i nostri amici peshmerga per il loro sostegno". Ovviamente voci favorevoli da parte delle menti turche dell’iniziativa pacificatoria, il presidente Erdoğan e l’alleato Bahçeli, quest’ultimo ha speso parole al miele per la leadership del Pkk che “ha tenuto fede all’impegno e ha riconosciuto a tempo debito le minacce globali e regionali". I prossimi obiettivi dell’accordo si concentrano sul reinserimento legale degli ex combattenti, sul loro rimpatrio, l'integrazione sociale e psicologica. Saranno compresi i padri nobili come Öcalan? Della sua liberazione dal supercarcere di Imrali finora nessuno ha parlato. Dovrebbero seguire il rientro nel Meclis dei deputati reclusi e l’autonomia amministrativa dell’est, in cambio del voto su un emendamento alla Costituzione che permetterebbe un terzo mandato presidenziale (sarebbe il quarto) per il Sultano. Ah, simboli… In politica ciascuno cerca il suo.

mercoledì 9 luglio 2025

La scarpata di Haftar

 


Stare coi piedi nelle due scarpe libiche, la fasciante calzatura indossata da Dbeibah ennesima invenzione della comunità internazionale, che fa il paio con l’anfibio calzato dal generale Haftar, non porta bene all’Unione Europea e tantomeno all’Italietta del ‘Piano Mattei’. Così il nostro ministro dell’Interno e dei rimpatri, Matteo Piantedosi si ritrova respinto quale “persona non grata” insieme agli omologhi, il greco Plevris e il maltese Camilleri, durante una visita ufficiale organizzata dalla Ue con l’intento di accattivarsi i due riottosi fronti in cui il Paese è diviso dall’eliminazione del leader Gheddafi. Ieri i rappresentanti di tre approdi di frontiera: il nostro, Malta e la Grecia, avevano incontrato a Tripoli il governo locale che fa appunto capo a Dbeibah, premier scelto nel 2021 dalle Nazioni Unite per organizzare elezioni finora mai svolte. Tema dell’incontro sedicenti investimenti, che si possono tranquillamente leggere come finanziamenti a fondo perduto per evitare il rilancio di sbarchi sulle sponde settentrionali del Mediterraneo, il terrore dei tre Stati visitanti. Comunque a Tripoli, non foss’altro che per il cordone ombelicale che lega l’ultimo epigono della comparsata democratica, tutto è filato liscio. Prima di lui fra presidenti del Consiglio presidenziale, della Camera dei rappresentati, Capi di Stato referenti a un’unica città (Tripoli) e Primi ministri si sono succeduti una decina di ‘indipendenti’. Invece a Levante, dove regna il clan Haftar, con tanto di figli in odore d’eredità, eserciti personali e una trasparenza di governo palese, incentrata sul “qui comando io”, la delegazione ha avuto qualche problemino. La terna Ue avrebbe voluto incontrare Osama Hamad, premier della Cirenaica e sodale di Haftar, sebbene nel 2016 fosse stato nominato ministro delle Finanze dell’allora premier al-Serray che puntava a un governo di Accordo Nazionale che non conseguì lo scopo. Hamad nel 2018 venne scaricato da quel governo per aver espresso sostegno all’Esercito nazionale libico, creatura bellica del citato Haftar. 

 

Che gli schieramenti e le contrapposizioni interne siano da tempo palesi e incolmabili è cosa nota a Roma, Atene e ovviamente a Bruxelles. Ma i vertici della Ue e delle singole nazioni fanno orecchio da mercante e cercano di cavalcare problemi ed emergenze per il proprio tornaconto. Così, la questione migrazione è trattata da ciascun protagonista secondo interessi di parte, la Fortezza Europa propugna respingimenti a prescindere, i due fronti libici ricattano alzando la posta: “finanziamenti” e riconoscimenti. Ora col governo considerato “buono” si scambiano visite e affari, mentre il cattivo, che pure gli stessi europei incontrano anche ufficialmente (è del mese scorso il colloquio al Viminale proprio fra Piantedosi e Saddam Haftar, uno dei figli-eredi di papà Khalifa), non è riconosciuto dall’Unione. Perciò a Bengasi puntano i piedi. Se nella visita di ieri il gruppo Ue avesse incontrato, da pari a pari, i rappresentanti dell’Est della Libia sarebbe stato l’atteso primo passo per una loro accettazione Invece il commissario che accompagnava la delegazione, l’ambasciatore Ue in Libia Orlando, ha evitato l’incontro col governo Hamad. Da lì l’irritazione dei libici orientali e il benservito al trio, rispedito a casa con l’infamante marchio di “mancanza di rispetto per la sovranità nazionale”. Ovviamente la propria sovranità, ma tant’è. Insomma un pateracchio diplomatico che accanto alla figuraccia può avere conseguenze. Per il caratterino del generale, che pur pluriottantenne appare vispo e intento a favorire il suo clan familiare, fra l'altro con denari emiratini e armi russe. Certo,  usando compromessi ma pure con atti di pressione rappresentati dai temuti sbarchi di migranti. Peraltro in oltre un decennio dalle coste libiche se ne sono succeduti a ondate, compiacenti i vari premier e boss dell’est e dell’ovest, considerati amici dai nostri ministri dell’Interno di turno a iniziare dal primo “aggiustatore” di approdi: Marco Minniti. A Piantedosi, lanciato dai propri referenti d’Esecutivo, a ripercorrerne la via della trattativa è mancata qualche mossa giusta. Il ‘Piano Mattei’ necessita di revisioni e ritocchi nel campo del realismo politico-diplomatico.  

lunedì 7 luglio 2025

Kabul sitibonda

 


Sei milioni di abitanti e una sete crescente, che rischia di diventare tragica entro il 2030 anno in cui gli studiosi ritengono che la capitale afghana rimarrà disidratata. Il cambiamento climatico che affligge il pianeta aumenta lo scioglimento dei ghiacciai delle cime Hindu Kush, ma sul territorio i tre maggiori corsi d’acqua (il Kabul che scorre fin dentro la città, il Paghman a ovest, il Logar a sud) da tempo ormai non risultano riforniti a dovere. C’è dispersione del prezioso elemento per l’evaporazione estiva, per la scarsità delle precipitazioni in buona parte dell’anno e per un prelievo eccessivo e sconsiderato di acqua dai pozzi. La mancanza d’infrastrutture fa il resto. In tal senso un rapporto di un’Ong statunitense (Mercy Corps) lancia un allarme per cercare di correre ai ripari. Ma non bastano analisi e buoni propositi, perché alle incurie del passato s’uniscono i veti della geopolitica. Le falde sotterranee sono sprofondate di oltre trenta metri solo nell’ultimo decennio e pescare acqua da un’infinità di pozzi finora utilizzati è diventato impossibile. Per tacere della stratificazione di liquami che rende insicuro e a rischio contaminazione le falde acquifere tuttora esistenti a livelli più elevati. Un disastro cui hanno contribuito conflitti interni e occupazioni esterne che hanno reso volutamente impossibile ogni sorta di opere pubbliche. Si è andati avanti coi pozzi, di rifornimento per le acque chiare e di smaltimento per quelle nere e, al di là dei disastri prodotti dai bombardamenti intensivi che “dissodavano” il terreno, poco o nulla s’è fatto riguardo a condutture idriche e dighe lungo il corso di fiumi. Viene tuttora ricordato un progetto, finanziato da una banca tedesca durante il secondo governo Ghani, che avrebbe dovuto rifornire l’accresciuta popolazione della capitale, dove a seguito dell’infinita guerriglia fra talebani e truppe Nato, s’era concentrato un gran numero di sfollati da altre province. Quel progetto riguardava le falde del fiume Logar ma non venne portato a termine per la fuga di Ghani e la creazione del secondo Emirato.

 

Da quel momento s’interruppe ogni rapporto tecnico-finanziario per la conclusione dei lavori. Così 44 miliardi di litri d’acqua annuali, di tanto era prevista l’estrazione, rimangono sottoterra. La situazione non è certo migliorata nel quadriennio di gestione talebana, gli embarghi, le chiusure di relazioni con l’Occidente hanno bloccato iniziative come quella citata, mentre altre sponde, ad esempio di marca cinese, non se ne vedono. E a soffrire è la popolazione. Il governo di Pechino è propenso a finanziare infrastrutture dalle quali può ricavare vantaggio per i suoi commerci, come i porti disseminati lungo la rotta navale della sua via della seta. Per i kabulioti, invece, si prospetta una via della sete, anche perché il fai da te con cui anche nelle grandi aree urbane si coltivano ortaggi e verdure necessarie al sostentamento quotidiano prevede un risucchio di quattro miliardi di litri per innaffiare i 400 ettari sparsi fra le case delle periferie (i dati sono sempre forniti da Mercy Corps). Le autorità attuali, come i precedenti governi, non intervengono per non inimicarsi una popolazione che deve comunque nutrirsi come può. Non solo. Talune aziende impiantate in loco, l’Alokozay multinazionale emiratina presente in 40 nazioni fra Medioriente, Asia e Africa interessata a produrre bibite analcoliche e merce per l’igiene, da sola utilizza oltre un miliardo di litri d’acqua all’anno e non è intenzionata a discutere il quantitativo di prelievo dal sottosuolo. Così si procede senza pianificazioni, un po’ diciamo per quieto vivere e poi per mancanza di fondi e di progettazione strutturale, avendo comunque un domani fottutamente incerto per i problemi introdotti dalla crisi climatica che colpisce l’intero globo, ma ancor più i poveri fra i Paesi poveri.

giovedì 3 luglio 2025

Il Cairo, echi dal carcere

 


L’hanno sbattuto in galera Magdy Ghoneim, sessant’anni, giornalista egiziano, molto attivo sul fronte dei diritti umani. Non è la prima volta. Già in altre due occasioni ha dovuto provare le celle di al Sisi solo per una sorta di reati d’opinione, aver documentato le restrizioni subìte dagli stessi lavoratori dell’informazione non schierati col regime, con tanto di maltrattamenti sotto casa: la sede dell’Ordine professionale. Anche in questa circostanza non ci sono imputazioni a carico di Ghoneim. Forse sconta l’avere aiutato Layla Seif, la madre coraggio del detenuto politico Alaa al Fattah, a salire le scale nel corso d’una recente conferenza stampa tenutasi al Cairo attorno alla prigionia infinita del figlio. La docente universitaria Seif ha lanciato da mesi uno sciopero della fame contro l’accanimento giudiziario rivolto ad Alaa, inascoltata non solo dal presidente-carceriere egiziano, ma dallo stesso premier inglese Starmer cui la donna s’è rivolta perché sostenesse un cittadino britannico, Alaa ha infatti una doppia nazionalità. Altra macchia di Ghoneim, secondo il regime militare cairota, l’appoggio offerto al collega Khaled el-Balchi che ha rinnovato l’incarico di presidente del sindacato giornalisti (Egypt’s Jurnalism Syndacate). Già nel 2023 el-Balchi aveva avuto la meglio su Khaled Miri, direttore del quotidiano filogovernativo Akhbar al Youm, una delle maggiori testate egiziane, ed essendo vicino a quel che resta dell’opposizione e ad alcuni organismi che si battono per i diritti umani, non è certo ben visto dai vertici militari. Il regime di al Sisi ha sempre avuto un rapporto ambivalente col mondo dell’informazione interna che nel 2013 aveva lanciato una ferrea campagna contro il governo Morsi e la Fratellanza Musulmana, vincitori delle elezioni dell’anno precedente. Anche grazie a quell’impegno, alla posizione di partiti laici e socialisti, i militari che avevano incarcerato il presidente legittimo, operarono il massacro di oltre mille attivisti islamici accampati in segno di protesta davanti alla moschea Rabi’a al-Adawiyya e il conseguente “golpe bianco” con cui Sisi saliva al potere. Da quel momento le prigioni egiziane non mancano di residenti, alcuni seppelliti vivi da una dozzina d’anni, altri seppelliti e basta come lo stesso Morsi e anche suo figlio. 


 

martedì 1 luglio 2025

Presa per il Golan

 


Nel Medioriente dalle movenze forzate, bellicizzato e bullizzato dalla coppia geopolitica del momento, Trump-Netanyahu, appare l’ennesimo documento firmato dal pennarello che conta, quello del primo cittadino statunitense. Un foglio che cancella le sanzioni alla Siria, carezzando e allettandone l’attuale leader ad interim Ahmad al-Sharaa. Che ha bisogno non solo di riconoscimenti internazionali a tutto tondo, ma soprattutto di finanziamenti per dare respiro a un’economia agonizzante da oltre un decennio con l’avvìo del conflitto interno ed esterno. Nel quale i protagonisti hanno mutato ruoli, a cominciare proprio da al-Sharaa, ex al-Jolani e conduttore del Fronte al-Nusra poi scissionista e creatore di Hayat Tahrir al-Sham, meno qaedista ma sempre jihadista. Uscito di scena il clan Asad, riparato in gran parte a Mosca, ma attivo con qualche comandante sulla costa fra Tartus e Latakia, dove nei primi giorni del marzo scorso militanti alawiti avevano attaccato reparti del nuovo esercito, per poi subìre una violentissima repressione con centinaia di morti anche fra i civili. Dunque un Paese, o quel che resta, altamente instabile se si pensa ai gruppi armati kurdi firmatari d’un accordo col governo provvisorio per la propria integrazione in un’ipotesi di rinnovate Forze Armate la cui direzione è tuttora incerta, anche perché finora fra i nuclei da assemblare ha pesato la componente mercenaria vicina alla Turchia. E già dal 2019 le operazioni militari di Ankara hanno fortemente ridimensionato i territori del Rojava. Per tacere dei micro nuclei di combattenti dell’Isis esterni all’immenso campo carcerario di Al Hol (dove sono rinchiusi quarantamila fra miliziani e loro familiari controllati da forze kurde, sostenute dagli Stati Uniti) che riescono a pensare ad agguati destabilizzanti, se è reale la voce della stampa libanese d’un tentativo di attentato contro al-Sharaa. Obiettivo fallito, timori diffusi e necessità di rafforzare una leadership.

 

Ora mettersi nelle mani del presidente statunitense può diventare un terreno minato anche per un ex combattente ora votato alla pacificazione e alla diplomazia, qual è l’ex jihadista siriano. La ricerca, come afferma il suo ministro degli Esteri al-Shaibani, consiste “nell’aprire le porte alla ricostruzione e al ripristino di infrastrutture vitali, per riportare in patria milioni di sfollati”, ma accanto a probabili finanziamenti che passeranno dalle casse di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita è il ridisegno locale il fattore con cui al-Sharaa e le comunità siriane devono fare i conti. Il percorso diplomatico che l’amministrazione statunitense rilancia ricalca gli “Accordi di Abramo” con cui s’invogliano alcuni Paesi arabi alleati a lanciarsi nell’abbraccio d’Israele e dei suoi piani regionali. Piani di bellicismo tattico anche quando Tel Aviv non lancia raid assassini, visto che l’eliminazione d’ogni traccia di presenza palestinese in Palestina, passa attraverso la colonizzazione galoppante. Nei piani statunitensi s’intravede la copertura d’ogni volontà di Israele, non solo riguardo al genocidio in corso nella Striscia, accettato senza problemi dal precedente capo della Casa Bianca, ma dagli altri agguati ai territori statali limitrofi di Libano e Siria. E quest’ultima, oltre ad aver perso dal 1967 le alture del Golan, militarmente strategiche e indispensabili per l’approvvigionamento idrico, ha ricevuto anch’essa bombe israeliane, l’avanzata dell’Idf posizionato a una quarantina di chilometri da Damasco, cui, come in Cisgiordania, sono seguiti insediamenti di ultraortodossi ebraici. Se ne contano ormai decine per un totale di oltre trentamila coloni su terra altrui che, com’è accaduto per il Golan diventato di fatto israeliano, può costituire l’ennesimo lembo di territorio che allarga l’occupazione del Grande Israele.  Cedere quello che da oltre quarant’anni i siriani hanno perduto sembra un eufemismo, non può esserlo un ulteriore ridimensionamento territoriale che può nascondersi dietro la mano tesa di Trump armata di pennarello. Posto che nell’altro braccio, l’ultimo Stranamore di Washington,  continua a maneggiare Massive Ordnance Penetrator come in Iran. Per ora la penetrazione in Siria passa per il progetto degli aiuti.