lunedì 11 agosto 2025

Affossare taccuini oltre ai bambini

 


Chiamata ‘guerra di Gaza’ dai servizi, non quelli segreti ma dagli afferenti a una servile informazione mainstream restìa a usare il linguaggio della professione secondo il reale significato, la mattanza dei gazawi della Striscia cumula giorno dopo giorno, da seicentosettantaquattro giorni, cadaveri e dati e affianca alle 62.000 vittime 270 giornalisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Perché tutti in odio al governo Netanyahu e pure a gran parte della gente d’Israele, nonostante i distinguo di locali minoranze d’intellettuali, pacifisti e pure soldati fino ai gradi più elevati. Ma il loro dissenso poco conta, visto che perpetuare la via della morte, per bombe o per fame, è il conforto imposto dalla maggioranza ebraica e lo stato delle cose su cui un mondo, al più gemente, s’è accasciato. Gemente e di fatto impotente o volutamente indolente, che non sono solo assonanze di scrittura bensì tragica scelta geopolitica reiterata nei decenni e negli ultimi ventidue mesi giunta al fosco capolinea di un’asettica disumanità. Anche parole e immagini utili alla denuncia di quanto si riesce a sapere e vedere sull’angosciante condizione di ammassi scheletrici confusi fra terra e sacchi di poca roba giunta dal suolo o dal cielo, che sfama e schiaccia una massa ridotta all’abbrutimento, diventano scioccanti ripetizioni. Eppure il non ripetuto mai abbastanza della violenza che Israele dona all’etnìa nemica, tenuta terrorizzata per il suo presunto o voluto terrorismo, trova sempre più microfoni silenziati, penne e computer affossati assieme ai loro cronisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Anas al-Sharif di Al Jazeera, l’ennesimo colpito,  secondo i suoi esecutori che si compiacciono dell’omicidio era una gola profonda di Hamas. “Il modello di Israele di etichettare i giornalisti come militanti senza fornire prove credibili solleva seri interrogativi sul suo intento e sul rispetto della libertà di stampa” ha dichiarato Sara Qudah, direttrice regionale del Comitato per la protezione dei giornalisti. Ah già libertà di stampa, libertà di pasto, libertà di stenti, libertà di vita davanti alla certezza della morte.    

domenica 3 agosto 2025

L’Afghanistan fuori dal mondo

 


Hibatullah Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani. Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato celebre: Zabihullah Mujahid.  Quasi subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo… 

 

Eccessi d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro) non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima, di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama - istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 - forse a parziale conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7 milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati gestiti da taliban e accoliti. 

 

Per quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare, escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra. Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori. Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i ‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui, tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato. 

 

Successivamente un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani, invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army - come rivela in questi giorni il quotidiano britannico The Times - da una parte metteva a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di cittadini.  Oggi l’Unama gestisce altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento, traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha, rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra, esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani. 

 

I fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa, affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe, cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio narcotraffico e terrorismo. 

 

Nel 2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere, poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul, portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee, nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.  

 

L’hanno spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati  controllano punti nodali del governo e possono guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano, incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar, i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale vorrà tendere la mano.

venerdì 25 luglio 2025

Il chiaroscuro della morte

 


Più della luce, in perfetto chiaroscuro caravaggesco, è il dramma assoluto quello che mostrano gli scatti di Ahmed al-Arini, il fotografo che dalla Striscia testimonia attraverso media e agenzie internazionali (France Presse, Bbc, Le Monde, Anadolu) la tortura per fame inflitta da Israele ai due milioni di gazawi. Fra loro, se non scheletrici come Muhammad Zakariya Ayyoub al-Motouq il figliolo ritratto in braccio alla madre, un quarto dei bambini è malnutrito, ha denunciato ancora oggi “Medici senza Frontiere”. Ma se tanti politici ascoltano e, a parole, si rammaricano, la perversa catena di morte non viene fermata. Da nessuno. A poco servono tardivi riconoscimenti d’una casa-Stato palestinese che non esiste più né nella Gaza rasa al suolo, né nella Cisgiordania stritolata da coloni sanguinari e militari loro protettori. La coppia del genocidio Netanyahu-Trump cammina dritta per ripulire la Striscia dai suoi abitanti e usa ogni misura: innanzitutto lo scorrere del tempo, che fa languire chi vive soffocato da tanta crudeltà criminale. Poi l’arma dell’estinzione indiretta per fame, e sempre ordigni e pallottole che quotidianamente mietono vittime anche fra chi s’affanna a recuperare una ciotola di cous-cous, una  manciata di farina, una scorta d’acqua potabile. Lo Stato d’Israele non recede dalla pratica che pure cinici militaristi dichiarano fuori da qualsiasi protocollo bellico. Ha l’alibi del nemico terrorista, che accusa di non voler restituire i prigionieri ancora sotto la sua giurisdizione (cinquantanove di cui forse la metà in vita), mentre Hamas con l’intermediazione di Egitto e Qatar per quella restituzione rilancia un accordo con cessate il fuoco duraturo e la liberazione di duecento prigionieri palestinesi. Per ora non c’è luce. E gli spiragli che s’intravvedono, da sotto le tende dove giacciono corpi martirizzati, baciano le membra emaciate di chi non sopravvive a una miseria incancrenita per ragione di guerra. Un realismo così crudo, un dolore così immenso, un tormento così profondo non compariva in nessuna tela scenografica e teatrale del Maestro del chiaroscuro barocco.  Quella precarietà esistenziale nella quale Caravaggio sceglieva umili, diseredati, reietti per trasferirli nei suoi dipinti a omaggiare santi o a incarnarne le figure, non riproducevano supplizi simili a quelli che abbiamo sotto gli occhi con questo sterminio.

martedì 22 luglio 2025

Numeri, nomi, strazi

 


Mille solo per fame. Da aggiungere ai sessantamila, ma sono di più, molti di più smembrati da centoventicinquemila tonnellate di polvere esplosiva prima di finire fra l’altra polvere e la terra. E sotto di esse. La terra contesa, si dice. La terra rubata, è più giusto. Rubata assieme alle vite, quando il cuore ancora batte e quando non riesce più farlo perché è prosciugato dai digiuni imposti dai sicari in divisa, tristemente obbedienti al ruolo infame. Riuscire a conoscere il nome dell’ultima vittima, che l’impotente patriarca cattolico di Gerusalemme definisce un atto di umanizzazione davanti alla sfibrante conta giornaliera dei cadaveri, è pietà laica prima che sacra ma non serve a placare la brama di sterminio israeliana. Ormai molti di più d’un anno addietro e dei mesi successivi l’attuazione del piano genocidario sui gazawi, un piano accolto come liberatorio dalla maggioranza che conta nello Stato ebraico, molti fra politici e pensatori, personalità e nazioni, gente per bene e cittadini qualunque, e organismi come le Nazioni Unite, i Tribunali Internazionali che dovevano misurare e contenere  le atrocità dei potentati del mondo, pensano tutto il peggio su Netanyahu, sul suo governo criminale, sulle loro strutture di misfatto celate dietro divise militari o doppiopetti diplomatici, ma la mortifera pianificazione prosegue. Non una distopìa, no. Una repellente sanguinaria realtà che tritura e risucchia vite sfibrate nel buco nero del suo orrore. I racconti di questo terrore riescono ancora a proseguire grazie alla pattuglia, purtroppo sempre più assottigliata, degli eroici giornalisti palestinesi della Striscia, massacrati anch’essi in oltre duecento, tanto per tornare ai numeri, e possiamo citarne qualcuno (Fadi Hassouna, Ibrahim Al-Sheikh…) tanto per non dimenticare i nomi. Sebbene i loro volti, come quelli cadaverici prima d’esalare l’ultimo respiro di Fatima o Mohammad, non li abbiamo mai incrociati sui nostri schermi, schermati dal servizievole inchino all’alleato americano. Il padrino del democratico Israele, la funerea nazione sovrana che dal 1948 impone lo strazio del popolo di Palestina. 


 

martedì 15 luglio 2025

Drusi contro beduini, nella Siria da plasmare

 


Nel lavoro incompiuto e difficilmente ricomponibile d’una nuova nazione siriana, che vede l’attuale leader al-Sharaa vestire i panni del pacificatore, la parte esplosiva del Paese risulta ancora l’ovest. Un territorio dove più sanguinosa e dura era stata la guerra civile, nello sfibrante braccio di ferro fra lealisti di Asad e jihadisti amici e sodali dell’allora al-Jolani. Tutto riversato sulla popolazione civile sotterrata a decine di migliaia. In quell’occidente settentrionale, fra Latakia e Tartus, è radicata la comunità alawita, protetta e alleata dell’ex presidente, mentre a sud insistono i clan drusi che nello scorso fine settimana si sono scontrati con tribù beduine. Per chi non lo sapesse, i drusi sono un gruppo etnico-religioso, sciita-ismaelita, da tempo diventato una  setta a sé stante, gruppo relativamente numeroso con settecentomila fedeli in Siria, trecentomila in Libano, più di centomila fra Galilea e Alture del Golan dunque nell’odierno Israele, e altre briciole fra Giordania, Turchia, Iraq. Bistrattati in varie epoche, come qualsiasi minoranza, costoro si sono armati durante il conflitto interno del 2012, seppure restando in genere neutrali e distaccati dai due fronti della contesa. Solo nella spallata ad Asad del 2024, la brigata al-Jabal s’è spinta fino alle porte di Damasco e ha liberato il proprio territorio fra Sawayda e Daraa. L’azione è valsa alla comunità lo status armato e il controllo di quell’area. Alla proposta di al-Sharaa di contribuire alla ricostruzione d’un esercito nazionale, era seguito un assenso dei capi drusi, ma nessun passo concreto. In precedenza Israel Defences Forces aveva speso alcuni bombardamenti a favore delle tribù druse del Golan che rigettavano, però, un protettorato giudicato subdolo. A Suwayda recenti fiammate, con morti e feriti, si sono ripetute fra tribù druse e beduine, quest’ultime d’orientamento religioso sunnita. Non è un’eccezione, ma ora che la moribonda Siria cerca di uscire dal coma, la vicenda fa notizia. 

 

E la rende sensibilissima, sia per il predetto disegno militare unitario di al-Sharaa, sia restando sul campo bellico per un riaffacciarsi in zona delle milizie di parte (Ash Sharqiyah) responsabili della reazione stragista contro gli alawiti nel marzo scorso, sia per l’ingresso dell’immancabile Idf che cerca qualsiasi appiglio per interventi ben oltre la frontiera, atti ad ampliare ulteriormente il “cuscinetto di sicurezza” orientale. Queste che in fondo possono essere considerate scaramucce nello sconquasso precedente subìto dallo Stato siriano, e nel ridisegno mediorientale avviato con l’offensiva israeliana contro la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, il Libano, l’Iran, vedono uno sfondo geopolitico su cui si muovono i grandi manovratori del disegno: la coppia alleata Trump-Netanyahu. Quella che non rinuncia e rilancia gli ‘Accordi di Abramo’, per sancire il definitivo abbraccio fra i grandi capitali arabi delle petromonarchie con gli interessi, anche economici, ma certamente politici e coloniali di Tel Aviv e delle sue aziende, in stretta correlazione con multinazionali di varie sponde. Occidentali ma pure intrecciate e di prossima espansione fra gli emiri. Il blocco politico che sogna di sradicare popolazioni, non semplici minoranze comunque in diritto di resilienza ed esistenza, da ben note aree (in prima fila si sono appunto Gaza e l’antica Palestina) e disegnarle come tante Abu Dhabi e Sharm al Sheikh. Deportando chissà dove comunità autoctone e trasformando i loro villaggi in resort per un turismo sguaiatamente danaroso. Il piano cerca d’ampliare adesioni e alleanze, non di partenariato ma di compartecipazione subordinata, e gli occhi sono puntati su governi malmessi e traballanti oppure neonati, come quelli del libanese Salam o del siriano al-Sharaa. Quest’ultimo sguarnito, almeno personalmente, di kalashnikov e ripulito per accedere ai tavoli internazionali a senso unico, dove si va a caccia di adesioni a pianificazioni preconfezionate. Nelle scorse settimane la Casa Bianca ha graziato la Siria dalle sanzioni, in più ballano finanziamenti miliardari per risollevare le miserabili condizioni di vita del dopoguerra, al-Sharaa deve solo annuire e piegarsi.

sabato 12 luglio 2025

Simboli e lascito

 


Il fuoco purificatore con cui un manipolo di combattenti, ormai ex, quindici donne e quindici uomini del Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk) hanno arso le proprie armi in un braciere davanti a un più copioso manipolo di camere, microfoni e taccuini provenienti soprattutto dalla Turchia ma pure dal Kurdistan iracheno, tutti riuniti a Dokan, governatorato di Sulaymanniyya, segna un monito per il futuro. Quando Bese Hozat a nome del partito ha dichiarato: “Siamo qui per rispondere all'appello dello scorso febbraio del nostro leader Abdullah Öcalan e della risoluzione del XII Congresso del Pkk del maggio seguente. Distruggiamo volontariamente le armi, in vostra presenza, come un cenno di buona volontà e determinazione. Ci auguriamo che porterà pace e libertà e avrà risultati favorevoli per il nostro popolo, i popoli della Turchia e del Medio Oriente” taluni cuori si sono stretti e il fiato s’è fatto corto. Al pensiero delle tante vittime proprie, oltre quarantamila, e altrui, dopo quarantacinque anni d’opposizione dura al governo di Ankara. Incarnato da militari, governi repubblicani (negli ultimi vent’anni all’opposizione) e poi islamisti dell’Akp da qualche tempo riuniti ai nazionalisti del Mhp; combattendo sui monti dell’est anatolico, nei luoghi dove il Pkk è nato fra Lice e dintorni, pugnando coi kalashnikov e con le bombe, contro i carri armati dell’esercito, colpendo caserme e militari, battendosi nelle municipalità con sindaci e rappresentanti politici, spesso arrestati e pure trucidati insieme a interi villaggi da repressioni mirate e generalizzate. Un passato indimenticabile e insanguinato. Eppure nella cerimonia di ieri il membro del Congresso nazionale del Kurdistan Mohammed Amin diceva: "In Turchia, la Costituzione non riconosce ancora l'identità kurda. Non ci sono state opportunità per i kurdi che in questi decenni non hanno avuto altra scelta che combattere. Questa resistenza aveva i suoi obiettivi. Ma dopo cent’anni di negazione  oggi lo Stato turco sta prospettando un processo di pace”. Lo diceva non solo a favore di microfoni, ma al cospetto di testimoni, popolari e di rango, come alcuni esponenti del governo del Kurdistan iracheno e a quelli del Partito per l’Uguaglianza dei Popoli (Dem) che siedono nel Parlamento di Ankara.

 

"Se la Turchia concede diritti pacificamente, i kurdi accoglieranno questo passo... Oggi sono pronti a deporre le armi e consegnarle. A mio parere, la Turchia ha raggiunto un punto in cui non può sconfiggere militarmente il Pkk e i kurdi”. Sarà. Ma la realtà racconta altro. Dal 2016, Ankara è riuscita a bloccare il Pkk anche nella regione del Kurdistan dell'Iraq utilizzando tecnologie avanzate come droni e sistemi d’Intelligence, oltre a stabilire decine di avamposti militari che limitano la libertà di movimento e l'infiltrazione  attraverso il confine. Così il gruppo armato (terrorista non solo per i turchi, ma per gli esecutivi europei e statunitense) ha avuto spazi impraticabili per azioni anche dimostrative. L’ultimo attacco, nell’ottobre scorso a Kahramankazan, con due miliziani (organici? dissidenti? lo sanno solo a Qandil) che a volto scoperto hanno assaltato una struttura della Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca, prima d’essere abbattuti dalla sicurezza e lasciare sul terreno  cinque vittime. Era già in corso la trattativa che ha portato all’odierna dismissione armata. Rashid Benzer, politico di Dem venuto dalla provincia di Sirnak, a sua volta ha ricordato: “Dal Duemila il Pkk ha dichiarato più d’una decina di cessate il fuoco, purtroppo nessuno è riuscito. Speriamo che questo sia quello buono e che i nostri amici siano rilasciati (il riferimento è a Demirtaş e agli altri detenuti dell’Hdp, ndr). Ringraziamo anche la regione del Kurdistan e i nostri amici peshmerga per il loro sostegno". Ovviamente voci favorevoli da parte delle menti turche dell’iniziativa pacificatoria, il presidente Erdoğan e l’alleato Bahçeli, quest’ultimo ha speso parole al miele per la leadership del Pkk che “ha tenuto fede all’impegno e ha riconosciuto a tempo debito le minacce globali e regionali". I prossimi obiettivi dell’accordo si concentrano sul reinserimento legale degli ex combattenti, sul loro rimpatrio, l'integrazione sociale e psicologica. Saranno compresi i padri nobili come Öcalan? Della sua liberazione dal supercarcere di Imrali finora nessuno ha parlato. Dovrebbero seguire il rientro nel Meclis dei deputati reclusi e l’autonomia amministrativa dell’est, in cambio del voto su un emendamento alla Costituzione che permetterebbe un terzo mandato presidenziale (sarebbe il quarto) per il Sultano. Ah, simboli… In politica ciascuno cerca il suo.

mercoledì 9 luglio 2025

La scarpata di Haftar

 


Stare coi piedi nelle due scarpe libiche, la fasciante calzatura indossata da Dbeibah ennesima invenzione della comunità internazionale, che fa il paio con l’anfibio calzato dal generale Haftar, non porta bene all’Unione Europea e tantomeno all’Italietta del ‘Piano Mattei’. Così il nostro ministro dell’Interno e dei rimpatri, Matteo Piantedosi si ritrova respinto quale “persona non grata” insieme agli omologhi, il greco Plevris e il maltese Camilleri, durante una visita ufficiale organizzata dalla Ue con l’intento di accattivarsi i due riottosi fronti in cui il Paese è diviso dall’eliminazione del leader Gheddafi. Ieri i rappresentanti di tre approdi di frontiera: il nostro, Malta e la Grecia, avevano incontrato a Tripoli il governo locale che fa appunto capo a Dbeibah, premier scelto nel 2021 dalle Nazioni Unite per organizzare elezioni finora mai svolte. Tema dell’incontro sedicenti investimenti, che si possono tranquillamente leggere come finanziamenti a fondo perduto per evitare il rilancio di sbarchi sulle sponde settentrionali del Mediterraneo, il terrore dei tre Stati visitanti. Comunque a Tripoli, non foss’altro che per il cordone ombelicale che lega l’ultimo epigono della comparsata democratica, tutto è filato liscio. Prima di lui fra presidenti del Consiglio presidenziale, della Camera dei rappresentati, Capi di Stato referenti a un’unica città (Tripoli) e Primi ministri si sono succeduti una decina di ‘indipendenti’. Invece a Levante, dove regna il clan Haftar, con tanto di figli in odore d’eredità, eserciti personali e una trasparenza di governo palese, incentrata sul “qui comando io”, la delegazione ha avuto qualche problemino. La terna Ue avrebbe voluto incontrare Osama Hamad, premier della Cirenaica e sodale di Haftar, sebbene nel 2016 fosse stato nominato ministro delle Finanze dell’allora premier al-Serray che puntava a un governo di Accordo Nazionale che non conseguì lo scopo. Hamad nel 2018 venne scaricato da quel governo per aver espresso sostegno all’Esercito nazionale libico, creatura bellica del citato Haftar. 

 

Che gli schieramenti e le contrapposizioni interne siano da tempo palesi e incolmabili è cosa nota a Roma, Atene e ovviamente a Bruxelles. Ma i vertici della Ue e delle singole nazioni fanno orecchio da mercante e cercano di cavalcare problemi ed emergenze per il proprio tornaconto. Così, la questione migrazione è trattata da ciascun protagonista secondo interessi di parte, la Fortezza Europa propugna respingimenti a prescindere, i due fronti libici ricattano alzando la posta: “finanziamenti” e riconoscimenti. Ora col governo considerato “buono” si scambiano visite e affari, mentre il cattivo, che pure gli stessi europei incontrano anche ufficialmente (è del mese scorso il colloquio al Viminale proprio fra Piantedosi e Saddam Haftar, uno dei figli-eredi di papà Khalifa), non è riconosciuto dall’Unione. Perciò a Bengasi puntano i piedi. Se nella visita di ieri il gruppo Ue avesse incontrato, da pari a pari, i rappresentanti dell’Est della Libia sarebbe stato l’atteso primo passo per una loro accettazione Invece il commissario che accompagnava la delegazione, l’ambasciatore Ue in Libia Orlando, ha evitato l’incontro col governo Hamad. Da lì l’irritazione dei libici orientali e il benservito al trio, rispedito a casa con l’infamante marchio di “mancanza di rispetto per la sovranità nazionale”. Ovviamente la propria sovranità, ma tant’è. Insomma un pateracchio diplomatico che accanto alla figuraccia può avere conseguenze. Per il caratterino del generale, che pur pluriottantenne appare vispo e intento a favorire il suo clan familiare, fra l'altro con denari emiratini e armi russe. Certo,  usando compromessi ma pure con atti di pressione rappresentati dai temuti sbarchi di migranti. Peraltro in oltre un decennio dalle coste libiche se ne sono succeduti a ondate, compiacenti i vari premier e boss dell’est e dell’ovest, considerati amici dai nostri ministri dell’Interno di turno a iniziare dal primo “aggiustatore” di approdi: Marco Minniti. A Piantedosi, lanciato dai propri referenti d’Esecutivo, a ripercorrerne la via della trattativa è mancata qualche mossa giusta. Il ‘Piano Mattei’ necessita di revisioni e ritocchi nel campo del realismo politico-diplomatico.  

lunedì 7 luglio 2025

Kabul sitibonda

 


Sei milioni di abitanti e una sete crescente, che rischia di diventare tragica entro il 2030 anno in cui gli studiosi ritengono che la capitale afghana rimarrà disidratata. Il cambiamento climatico che affligge il pianeta aumenta lo scioglimento dei ghiacciai delle cime Hindu Kush, ma sul territorio i tre maggiori corsi d’acqua (il Kabul che scorre fin dentro la città, il Paghman a ovest, il Logar a sud) da tempo ormai non risultano riforniti a dovere. C’è dispersione del prezioso elemento per l’evaporazione estiva, per la scarsità delle precipitazioni in buona parte dell’anno e per un prelievo eccessivo e sconsiderato di acqua dai pozzi. La mancanza d’infrastrutture fa il resto. In tal senso un rapporto di un’Ong statunitense (Mercy Corps) lancia un allarme per cercare di correre ai ripari. Ma non bastano analisi e buoni propositi, perché alle incurie del passato s’uniscono i veti della geopolitica. Le falde sotterranee sono sprofondate di oltre trenta metri solo nell’ultimo decennio e pescare acqua da un’infinità di pozzi finora utilizzati è diventato impossibile. Per tacere della stratificazione di liquami che rende insicuro e a rischio contaminazione le falde acquifere tuttora esistenti a livelli più elevati. Un disastro cui hanno contribuito conflitti interni e occupazioni esterne che hanno reso volutamente impossibile ogni sorta di opere pubbliche. Si è andati avanti coi pozzi, di rifornimento per le acque chiare e di smaltimento per quelle nere e, al di là dei disastri prodotti dai bombardamenti intensivi che “dissodavano” il terreno, poco o nulla s’è fatto riguardo a condutture idriche e dighe lungo il corso di fiumi. Viene tuttora ricordato un progetto, finanziato da una banca tedesca durante il secondo governo Ghani, che avrebbe dovuto rifornire l’accresciuta popolazione della capitale, dove a seguito dell’infinita guerriglia fra talebani e truppe Nato, s’era concentrato un gran numero di sfollati da altre province. Quel progetto riguardava le falde del fiume Logar ma non venne portato a termine per la fuga di Ghani e la creazione del secondo Emirato.

 

Da quel momento s’interruppe ogni rapporto tecnico-finanziario per la conclusione dei lavori. Così 44 miliardi di litri d’acqua annuali, di tanto era prevista l’estrazione, rimangono sottoterra. La situazione non è certo migliorata nel quadriennio di gestione talebana, gli embarghi, le chiusure di relazioni con l’Occidente hanno bloccato iniziative come quella citata, mentre altre sponde, ad esempio di marca cinese, non se ne vedono. E a soffrire è la popolazione. Il governo di Pechino è propenso a finanziare infrastrutture dalle quali può ricavare vantaggio per i suoi commerci, come i porti disseminati lungo la rotta navale della sua via della seta. Per i kabulioti, invece, si prospetta una via della sete, anche perché il fai da te con cui anche nelle grandi aree urbane si coltivano ortaggi e verdure necessarie al sostentamento quotidiano prevede un risucchio di quattro miliardi di litri per innaffiare i 400 ettari sparsi fra le case delle periferie (i dati sono sempre forniti da Mercy Corps). Le autorità attuali, come i precedenti governi, non intervengono per non inimicarsi una popolazione che deve comunque nutrirsi come può. Non solo. Talune aziende impiantate in loco, l’Alokozay multinazionale emiratina presente in 40 nazioni fra Medioriente, Asia e Africa interessata a produrre bibite analcoliche e merce per l’igiene, da sola utilizza oltre un miliardo di litri d’acqua all’anno e non è intenzionata a discutere il quantitativo di prelievo dal sottosuolo. Così si procede senza pianificazioni, un po’ diciamo per quieto vivere e poi per mancanza di fondi e di progettazione strutturale, avendo comunque un domani fottutamente incerto per i problemi introdotti dalla crisi climatica che colpisce l’intero globo, ma ancor più i poveri fra i Paesi poveri.

giovedì 3 luglio 2025

Il Cairo, echi dal carcere

 


L’hanno sbattuto in galera Magdy Ghoneim, sessant’anni, giornalista egiziano, molto attivo sul fronte dei diritti umani. Non è la prima volta. Già in altre due occasioni ha dovuto provare le celle di al Sisi solo per una sorta di reati d’opinione, aver documentato le restrizioni subìte dagli stessi lavoratori dell’informazione non schierati col regime, con tanto di maltrattamenti sotto casa: la sede dell’Ordine professionale. Anche in questa circostanza non ci sono imputazioni a carico di Ghoneim. Forse sconta l’avere aiutato Layla Seif, la madre coraggio del detenuto politico Alaa al Fattah, a salire le scale nel corso d’una recente conferenza stampa tenutasi al Cairo attorno alla prigionia infinita del figlio. La docente universitaria Seif ha lanciato da mesi uno sciopero della fame contro l’accanimento giudiziario rivolto ad Alaa, inascoltata non solo dal presidente-carceriere egiziano, ma dallo stesso premier inglese Starmer cui la donna s’è rivolta perché sostenesse un cittadino britannico, Alaa ha infatti una doppia nazionalità. Altra macchia di Ghoneim, secondo il regime militare cairota, l’appoggio offerto al collega Khaled el-Balchi che ha rinnovato l’incarico di presidente del sindacato giornalisti (Egypt’s Jurnalism Syndacate). Già nel 2023 el-Balchi aveva avuto la meglio su Khaled Miri, direttore del quotidiano filogovernativo Akhbar al Youm, una delle maggiori testate egiziane, ed essendo vicino a quel che resta dell’opposizione e ad alcuni organismi che si battono per i diritti umani, non è certo ben visto dai vertici militari. Il regime di al Sisi ha sempre avuto un rapporto ambivalente col mondo dell’informazione interna che nel 2013 aveva lanciato una ferrea campagna contro il governo Morsi e la Fratellanza Musulmana, vincitori delle elezioni dell’anno precedente. Anche grazie a quell’impegno, alla posizione di partiti laici e socialisti, i militari che avevano incarcerato il presidente legittimo, operarono il massacro di oltre mille attivisti islamici accampati in segno di protesta davanti alla moschea Rabi’a al-Adawiyya e il conseguente “golpe bianco” con cui Sisi saliva al potere. Da quel momento le prigioni egiziane non mancano di residenti, alcuni seppelliti vivi da una dozzina d’anni, altri seppelliti e basta come lo stesso Morsi e anche suo figlio. 


 

martedì 1 luglio 2025

Presa per il Golan

 


Nel Medioriente dalle movenze forzate, bellicizzato e bullizzato dalla coppia geopolitica del momento, Trump-Netanyahu, appare l’ennesimo documento firmato dal pennarello che conta, quello del primo cittadino statunitense. Un foglio che cancella le sanzioni alla Siria, carezzando e allettandone l’attuale leader ad interim Ahmad al-Sharaa. Che ha bisogno non solo di riconoscimenti internazionali a tutto tondo, ma soprattutto di finanziamenti per dare respiro a un’economia agonizzante da oltre un decennio con l’avvìo del conflitto interno ed esterno. Nel quale i protagonisti hanno mutato ruoli, a cominciare proprio da al-Sharaa, ex al-Jolani e conduttore del Fronte al-Nusra poi scissionista e creatore di Hayat Tahrir al-Sham, meno qaedista ma sempre jihadista. Uscito di scena il clan Asad, riparato in gran parte a Mosca, ma attivo con qualche comandante sulla costa fra Tartus e Latakia, dove nei primi giorni del marzo scorso militanti alawiti avevano attaccato reparti del nuovo esercito, per poi subìre una violentissima repressione con centinaia di morti anche fra i civili. Dunque un Paese, o quel che resta, altamente instabile se si pensa ai gruppi armati kurdi firmatari d’un accordo col governo provvisorio per la propria integrazione in un’ipotesi di rinnovate Forze Armate la cui direzione è tuttora incerta, anche perché finora fra i nuclei da assemblare ha pesato la componente mercenaria vicina alla Turchia. E già dal 2019 le operazioni militari di Ankara hanno fortemente ridimensionato i territori del Rojava. Per tacere dei micro nuclei di combattenti dell’Isis esterni all’immenso campo carcerario di Al Hol (dove sono rinchiusi quarantamila fra miliziani e loro familiari controllati da forze kurde, sostenute dagli Stati Uniti) che riescono a pensare ad agguati destabilizzanti, se è reale la voce della stampa libanese d’un tentativo di attentato contro al-Sharaa. Obiettivo fallito, timori diffusi e necessità di rafforzare una leadership.

 

Ora mettersi nelle mani del presidente statunitense può diventare un terreno minato anche per un ex combattente ora votato alla pacificazione e alla diplomazia, qual è l’ex jihadista siriano. La ricerca, come afferma il suo ministro degli Esteri al-Shaibani, consiste “nell’aprire le porte alla ricostruzione e al ripristino di infrastrutture vitali, per riportare in patria milioni di sfollati”, ma accanto a probabili finanziamenti che passeranno dalle casse di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita è il ridisegno locale il fattore con cui al-Sharaa e le comunità siriane devono fare i conti. Il percorso diplomatico che l’amministrazione statunitense rilancia ricalca gli “Accordi di Abramo” con cui s’invogliano alcuni Paesi arabi alleati a lanciarsi nell’abbraccio d’Israele e dei suoi piani regionali. Piani di bellicismo tattico anche quando Tel Aviv non lancia raid assassini, visto che l’eliminazione d’ogni traccia di presenza palestinese in Palestina, passa attraverso la colonizzazione galoppante. Nei piani statunitensi s’intravede la copertura d’ogni volontà di Israele, non solo riguardo al genocidio in corso nella Striscia, accettato senza problemi dal precedente capo della Casa Bianca, ma dagli altri agguati ai territori statali limitrofi di Libano e Siria. E quest’ultima, oltre ad aver perso dal 1967 le alture del Golan, militarmente strategiche e indispensabili per l’approvvigionamento idrico, ha ricevuto anch’essa bombe israeliane, l’avanzata dell’Idf posizionato a una quarantina di chilometri da Damasco, cui, come in Cisgiordania, sono seguiti insediamenti di ultraortodossi ebraici. Se ne contano ormai decine per un totale di oltre trentamila coloni su terra altrui che, com’è accaduto per il Golan diventato di fatto israeliano, può costituire l’ennesimo lembo di territorio che allarga l’occupazione del Grande Israele.  Cedere quello che da oltre quarant’anni i siriani hanno perduto sembra un eufemismo, non può esserlo un ulteriore ridimensionamento territoriale che può nascondersi dietro la mano tesa di Trump armata di pennarello. Posto che nell’altro braccio, l’ultimo Stranamore di Washington,  continua a maneggiare Massive Ordnance Penetrator come in Iran. Per ora la penetrazione in Siria passa per il progetto degli aiuti.