
Hibatullah
Akhundzada nell’unica, o quasi, immagine che circola sul suo conto con barba
d’ordinanza e turbante bianco, a inizio settembre s’appresta a consolidare il
quarto anno da guida suprema talebana. Ruolo da scrivere un po’ con la
minuscola, niente a che vedere con la gerarchia vantata dagli sciiti iraniani.
Eppure lui, sunnita, lo preserva accanto a quello della creazione del Secondo
Emirato Afghano risorto il 15 agosto 2021. Quattro anni trascorsi e sembrano
molti di più. Perché i media internazionali pronti in quell’infuocata estate a
seguire ogni passo della dismissione del potere di Ashraf Ghani, premier inventato
da Stati Uniti e Banca Mondiale, nel giro di qualche giorno dimenticarono Kabul
e la sua gente, puntando gli obiettivi solo sulle truppe che mollavano la
capitale, come aveva già fatto l’Armata Rossa (15 febbraio 1989), e in
similitudine con la rotta statunitense da Saigon (30 aprile 1975). Uniche
eccezioni gli scoop sui leader taliban che entravano a Palazzo, accomodati
su poltrone vellutate e dorate, fra flash e puntuali dichiarazioni d’intenti e di
programma rilasciate dall’uomo della comunicazione, da quel momento diventato
celebre: Zabihullah Mujahid. Quasi
subito partiva la cortina di ferro, informativa innanzitutto, perché dalla Casa
Bianca si stabilivano i termini dell’isolamento e della punizione, tramite il
blocco dei fondi nazionali, oltre nove miliardi di dollari tuttora fermi in
alcune banche americane ed europee; mentre l’Occidente, smarrito sul terreno militare
e politico, si prendeva la rivincita sostenendo la bontà delle sanzioni. Giustificate
anche dall’ottusa linea di taluni ministeri ripristinati, quello della Promozione
della Virtù e della Prevenzione del Vizio che ‘niqabava’ le poche donne
mantenute in vista addirittura davanti alle telecamere d’una purgata tivù di
Stato. Poi, mese dopo mese, cresceva lo stillicidio dei divieti: nessuna
presenza fuori dall’abitazione senza l’accompagnatore (mahram o giù di
lì), scuole proibite per le ragazze oltre i dieci anni, fino alla definitiva chiusura
in casa senza contatti con l’istruzione e la società. Lo sport, la danza, la
musica neanche a parlarne, tornavano tabù e continuano a esserlo…

Eccessi
d’un ottuso deobandismo non solo religioso, ma politico e tribale che unisce
claniche interpretazioni della Shari’a e del pashtunwali, su cui
però, come vedremo, insistono differenze e diversità d’interessi fra boss del
nuovo potere. Eppure anno per anno si scopre che i mullah dell’Emirato così
isolati non restano. Sia per i fraterni contatti coi gruppi talebani presenti
sul e oltre confine pakistano, sia perché il blocco del mondo che non guarda a
Occidente per i motivi più vari (affari, geopolitica, fedi, tradizioni e tant’altro)
non si fa congelare dalla Diplomazia con la maiuscola. Del resto quest’ultima,
di cui appunto europei e statunitensi si fanno vanto, ha in alcune figure e
soprattutto strutture (le varie Intelligence) il ‘Cavallo di Troia’ per dialoghi
a tutto tondo. Infatti la politica americana, che ha scelto di ritirare gli
scarponi dal terreno afghano in virtù di particolari accordi coi vituperati
turbanti, non ha del tutto abbandonato le basi aeree create. Presenti sul
territorio anche le agenzie delle Nazioni Unite, ormai snobbate e soffocate nel
vicino Medio Oriente finito sotto il tacco d’Israele e che altrove risultano
vive e attive, seppure con fondi e finanziamenti ridimensionati dalle
imposizioni degli uomini soli al comando, come il quarantasettesimo inquilino
dello Studio Ovale che dispone e indispone a suo piacimento in faccia al
Congresso e pure alla Costituzione americana. Comunque l’Unama -
istituita nel marzo 2002 con la risoluzione Onu 1401 - forse a parziale
conforto della guerra dichiarata sei mesi prima dal quarantatreesimo presidente
Usa, prosegue un’azione d’assistenza a una popolazione rimasta povera e
assillata da una difficile sussistenza. Nel 2024 l’agenzia ha calcolato 23,7
milioni di afghani, e 3 milioni di bambini, bisognosi d’aiuto per la nutrizione
quotidiana, una falla ingigantita proprio dai tagli economici internazionali e
dalle più recenti contrizioni: dei tre miliardi di dollari necessari erano
giunti solo 650 milioni. Un castigo per i cittadini, non per gli apparati
gestiti da taliban e accoliti.

Per
quello che s’è visto da almeno quattro decenni e che si continua a osservare,
escludendo le emergenze di guerra, fame e malattie, una delle crisi che
coinvolgono le famiglie locali con ricaduta sulla comunità internazionale è la migrazione
forzata. Tentativi d’espatrio fra i giovani che cercano una salvezza con la
grande fuga verso un loro occidente espanso che va dall’Iran, solitamente visto
come primo approdo e terra di passaggio, alla Norvegia. Sebbene la Fortezza
Europa abbia innalzato muri visibili e impercettibili fatti di doganieri armati
e incanagliti da nuove regole non più accoglienti volute da molti Stati membri
e dalla stessa istituzione di Bruxelles. Oppure più semplici rifugi, dopo percorsi
relativamente brevi verso Islamabad o Peshawar, già negli anni Ottanta ciclopici
campi profughi per milioni di fuggitivi dalle stragi dei Signori della Guerra.
Lì generazioni di bambine e bambini afghani arrivavano, crescevano sotto le
tende e le stelle, fra stenti e ristrettezze diventavano adulti e a loro volta genitori.
Vite sigillate in un tempo sospeso. I pochi viaggi sicuri di profughi e
rifugiati, tuttora in atto, ruotano attorno a iniziative di solidarietà, come i
‘corridoi umanitari’ italiani progettati dalla Federazione delle Chiese
Evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione col
ministero degli Esteri. A inizio luglio proprio quest’ultima ha condotto nel
nostro Paese oltre un centinaio fra componenti familiari e singoli individui,
tra loro quaranta minori. Si tratta comunque di profughi che, dalla fuga in
Pakistan dopo l’arrivo dei taliban, stazionavano a Islamabad vivacchiando alla
meno peggio. Con l’Emirato non esistono protocolli in atto per simili uscite
sia per l’assenza di rapporti ufficiali sia perché sicuramente i permessi verrebbero
negati, la nazione non si priva dei suoi abitanti. Mentre degli allontanamenti
successivi alla presa talebana di Kabul, compiuti anch’essi in aereo da
amministratori e collaboratori dei governi Karzai e Ghani, che riparavano
all’estero coi familiari, già al momento si sapeva o s’intuiva passassero per
il benestare prima che dei turbanti dei ‘signori della guerra Nato’. Salire sui
C-17 Globemaster in decollo o provare ad aggrapparsi alle ali
precipitando tragicamente nel vuoto, come si vide fare a decine di disperati a
ridosso di quel Ferragosto, segnava il confine fra la speranza di chi otteneva
il benestare all’espatrio e l’angoscia suicida di chi lo vedeva negato.

Successivamente
un errore informatico d’un militare britannico, che inviava una lista
teoricamente top secret a un attivista per la ricollocazione di afghani,
invischiati con le missioni Nato per appartenenza alle forze di Sicurezza o in
qualità di semplici soldati dell’Afghan Defence Army - come rivela in
questi giorni il quotidiano britannico The Times - da una parte metteva
a repentaglio l’incolumità delle persone elencate, dall’altra confermava che le
evacuazioni salvifiche erano programmate per queste categorie di
cittadini. Oggi l’Unama gestisce
altre precarietà, riguardanti i rimpatri che gli ultimi meno morbidi governi
pakistani impongono all’Emirato. Quest’ultimo in parte tratta, poi nicchia
oppure accetta e fa orecchie da mercante perché dovrebbe contribuire a sfamare un’infinità
di bocche. “Quello che dovrebbe essere un momento positivo di ritorno a casa per le
famiglie fuggite dai conflitti decenni addietro è segnato da esaurimento,
traumi e profonda incertezza” ha affermato a metà luglio Roza Otunbayeva, portavoce del
Segretario generale per l’Afghanistan in visita al valico frontaliero di Islam
Qala. Ci sono già state altre grida di dolore, Naseer Ahmad Andisha,
rappresentante permanente dell’Afghanistan presso le Nazioni Unite a Ginevra,
esplicitamente parla della necessità d’un rinserimento del Paese nell’alveo
della Comunità Internazionale. Un bel busillis. Andisha è un uomo
d’apparato degli organismi internazionali. Nato nell’area di Kapisa fra le
province del Panshir e Laghman, s’è formato fra l’Australia e il Texas, è stato
ambasciatore, direttore presso la Divisione di Cooperazione Economica nel lasso
temporale delle ‘sperimentazioni di democratizzazione’ del suo Paese, quando i
chiacchierati esecutivi Karzai e Ghani hanno inanellato mancanze, ruberie e poi
inciuci con fondamentalisti del calibro di Fahim, Khalili, Hekmatyar, Dostum fatti
ministri e vicepresidenti. Forse anche per questo mister Andisha sa che in
Afghanistan non c’è un prima e un dopo, e che meschinità e soprusi trovavano
alloggio nelle stanze d’un potere imposto dalle missioni Nato e dai suoi
propagandisti, le stanze ora occupate dai talebani.

I
fedeli che continuano a pregare in moschea, chi va al mercato a vendere e
comprare povere cose, chi sente scorrere il tempo nelle casupole avvinghiate
sulle colline d’una capitale soffocata e assetata (oltre sei milioni gli
abitanti e pozzi di pescaggio dell’acqua sempre più invasivi a fronte di scarse
precipitazioni), intravvede nel raggiunto biancore della propria chioma un
abbandono costante, ultimamente accresciuto dal volere mondiale. Ma la mano
tesa è contestata da altre realtà, radicate o effimere. Potenti o rappresentative
solo sulla carta. Gli esempi vengono dall’ex mujaheddin a lungo governatore della
regione di Balk, Atta Muhammad Noor, già sodale di criminali di guerra come
Dostum e Massud e ora all’opposizione col gruppo Jamiat-e Islami, e da
un ‘Movimento per la libertà delle donne’ i cui contorni risultano vaghi oltreché
soffocati da minacce e repressione. Entrambi hanno espresso contrarietà al
piano Unama, denominato ‘Mosaico’, sostenendo che fornirebbe all’Emirato
un sollievo e un riconoscimento in linea coi colloqui in corso a Doha fra
venticinque nazioni interessate a normalizzare i rapporti coi talebani. Una mossa,
affermano i detrattori, che non aiuta la popolazione ma solo chi controlla oggi
Kabul e le province. In aggiunta, quella parte di mondo che continua a voltare
le spalle all’ipotesi d’apertura ai sodali di Akhundzada ricorda che costoro
hanno tradito ogni buona intenzione in fatto di diritti civili e di genere, hanno
accresciuto le discriminazioni verso le donne d’ogni età prospettando un oscuro
ritorno alle pratiche del mullah Omar. Così alcune storiche attiviste
provenienti dall’humus politico del Revolutionary Association Women
of Afghanistan, come le ex parlamentari Malalai Joya e Belqis Roshan, per
ragioni d’incolumità sono da tempo riparate all’estero. Le loro sorelle di
lotta proseguono forme d’aggregazione con scuole e rifugi per donne, tutti clandestini
e ad altissimo rischio di repressione. Dal canto suo la settantasettenne
Mahmouba Seraj, fondatrice dell’Afghan women’s network e di recente in
odore di candidatura al Nobel per la pace, è convinta che coi taliban bisogna
parlare. Per non restare in bilico e in sostanza fermi, come nella prima fase
del cambio di regime, i partecipanti agli incontri di Doha (fra cui spiccano
sauditi, emiratini, i padroni di casa qatarioti, ma anche le potenze regionali
turca e pakistana) assieme ai funzionari Onu seguono un percorso a tappe,
cadenzato punto su punto attorno a particolari tematiche, ad esempio
narcotraffico e terrorismo.

Nel
2020 s’era iniziato a discorrere di droghe, rispetto alle punte di produzione afghane
d’oppio e metanfetamina in un mercato immenso che proprio in Occidente mostra una
richiesta copiosissima. Nel 2022 la produzione risultava crollata del 90% per
poi risalire in base agli interessi dei cartelli del narcotraffico che, a detta
dell’agenzia Unodoc, mette in relazione territori di produzione come l’Afghanistan
e il Myanmar con aree di trasformazione (Messico), peraltro specializzata in
ogni genere come accade con la coca e gli oppiacei sintetici, fentanyl e
simili. Sarebbe interessante mettere a confronto il purismo moraleggiante dei
turbanti, contrari (a parole) a sostenere il lucrosissimo mercato con le
posizioni dei giganti del mondo capitalistico, Stati Uniti e la stessa Cina, solo
teoricamente impegnati a stroncare tale commercio che invece galoppa nonostante
i buoni propositi di tutti. Perciò sul narcotraffico i dialoghi vivono una
schizofrenica scissione fra teoria e realtà. Tendenza presente anche attorno
alla questione del rifugio territoriale al terrorismo internazionale. Secondo
l’ultimo rapporto dell’Ispettorato speciale generale per la ricostruzione
dell’Afghanistan (ennesima struttura creata dal 2002 attorno a politiche
estere, militari e affaristiche statunitensi) in diverse province
afghane covano covi del jihadismo mondiale da Qaeda all’Isis-K. Leggendo
il documento datato marzo 2025, indubbiamente dettagliato, viene da sorridere,
poiché quando il Pentagono spingeva sulla Casa Bianca per eclissarsi da Kabul,
portando a casa il grosso delle truppe lì impegnate e avviando la dismissione
con la Resolute Support Mission, iniziava la battaglia interna fra
talebani ortodossi e talebani scissionisti che avrebbero dato corpo alle
milizie dello Stato Islamico del Khorasan. Che aggregava i primi elementi
nella provincia di Nangarhar per poi espandersi a sud e ovest nell’Helmand e
Farah. L’Isis-K cresceva in relazione al graduale tramonto del sedicente
Daesh, sorto fra Siria e Iraq. E se per la cronaca dell’epoca, il
triennio 2016-2019 è risultato il periodo più buio con stragi nelle moschee,
nei mercati, fra la comunità hazara e indiscriminatamente per le strade della
capitale quando brillavano auto e camion bomba, i due blocchi del jihadismo
locale si combattevano a distanza per evidenziare chi controllava cosa da Kabul
ai tradizionali territori della patria talebana, compresa Kandahar.

L’hanno
spuntata gli ‘ortodossi’. Occupata la città-simbolo e il suo Palazzo la
famiglia tradizionale talebana facente capo alla Shura di Quetta, dove
sono accasati turbanti duri e puri ma considerati pragmatici, come l’economista
Abdul Barader, hanno ratificato il compromesso con la rete Haqqani, figli e parenti
del capostipite Jalaluddin, un fondamentalista vicino alla Shura di Peshawar
e spesso in dissidio con le direttive centrali, comunque sempre indipendente
per affari economici e azioni militari. Nel Secondo Emirato il suo erede Sirajuddin
è diventato ministro dell’Interno, il fratello Khalil ministro dei Rifugiati (fino
al 2024 quand’è morto in un attentato), il figlio minore e poeta Anas responsabile
dell’Ufficio Politico. Appartiene alla famiglia anche il sessantottenne sceicco
Hakim, oggi ministro della Giustizia. I rabbiosi Haqqani, dunque, sembrano
placati dal dominio, sicuramente istituzionalizzati controllano punti nodali del governo e possono
guardare dall’alto anche l’erede del mullah padre-fondatore, il trentacinquenne
Mohammad Yaqoob che guida il ministero della Difesa. Ora dibattere a Doha se il
clan talebano più organico al deobandismo (la madrasa Darul Uloom Haqqania
dove alcuni di loro hanno studiato e si sono formati, sugellando anche la
propria denominazione) lasci spazi o addirittura copra il terrorismo jihadista
sul territorio afghano, è domanda da trilioni di dollari. Peraltro i membri Haqqani
negherebbero ogni evidenza che del resto appare fittizia. Alle trascorse taglie
sulla cattura di Sirajuddin (dieci milioni di biglietti verdi) da un anno il ministro
oppone, e ostenta, visibilità estera. Se ne va negli Emirati Arabi, vede
funzionari Onu e pure quegli statunitensi che gli pongono sulla testa il
corposo riscatto senza che nulla accada. Incarna anch’egli quella geopolitica degli
interessi che vince su quella dei buoni propositi. Del resto per incontrarsi in
Qatar altri esponenti dell’Emirato (mullah Haq Whatiq, Muhammad Saqib) viaggiano,
incrociano omologhi e dialogano. Sono il volto d’una normalizzazione
strisciante. Mentre sulla vicenda di basi d’addestramento jihadista denunciato
dall’Onu nelle province di Gazni, Zabul, oltreché in Nuristan, Kunar, Nangarhar,
i corridoi d’infiltrazioni nelle incontrollabili Aree Tribali Federali e nel
Waziristan hanno conosciuto per decenni un corposo scambio di visite. Il
governo kabuliota vorrà tamponare quegli storici confini porosi? Forse. O
invece no. Dipende dalle convenienze, da quel che accade a Islamabad. All’epoca
del governo di Imran Khan (autunno 2021) che discorreva col leader pur incarcerato
dei Tehreek-i Labbaik, che assieme ai Tehreek-i Taliban e
ai Lashkar-i Taiba sono i più sanguinari jihadisti pakistani benvoluti
dagli Haqqani, uno scambio di ‘vedute’ e favori con questi fratelli era
possibile. Chi provava a squassare il neonato Emirato erano i ribelli del
Khorasan, che ancora preoccupano i turbanti di Kabul. Bisognerà vedere chi i registi
dell’instabilità occulta vorranno foraggiare e a chi la Comunità Internazionale
vorrà tendere la mano.