venerdì 20 giugno 2025

Tutto il fascino del Piano Mattei

 


Location affascinante e artistica, villa Pamphili con vista sul Cupolone per il vertice: “The Mattei Plan for Africa and the Global  Gateway: A common effort with the African Continent”.  E’ un rilancio, dopo mesi di silenzio, da parte della premier italiana Meloni verso l’Unione Europea, più precisamente verso i vertici che contano e ne stanziano fondi. Ed ecco apparire, coi sorrisini di circostanza e gli striminziti completini rosa, la presidente della Commissione Von der Layen. Alle ladies fanno contorno delegati dell’Africa Finance Corporation, presidenti della Banca Africana, Gruppo Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, quindi  premier e ministri degli Esteri della Repubblica Democratica del Congo e della Tanzania. Insomma dopo il Maghreb il piano scivola verso i grandi Paesi equatoriali. Per fare cosa? Affari propri, mascherati da relazioni internazionali in nazioni mantenute instabili non solo dal colonialismo secolare, portoghese e belga nella prima nazione, tedesco e britannico nella seconda. Ma dal colonialismo di ritorno ben mascherato dopo le “indipendenze” del 1960, che costarono la vita a reali figure della lotta anticoloniale come Lumumba, fatto fuori dal dittatore militare di turno (Mobutu) carezzato e protetto per oltre un trentennio dagli Stati Uniti in funzione anti emancipatrice. Certo, era un altro mondo. Giorgia e Ursula non erano neppure nate, però ora che sono cresciute e si collocano ai vertici di rispettivi posti di potere si danno una mano per rilanciare quel para-colonialismo economico cui gli Stati della vecchia Europa non rinunciano. Basta osservare il cosiddetto Global Gateway, un bel dispositivo di finanziamenti (per fare rete) lanciato verso la ‘madre Africa’. Per risollevarla? Secondo i pronunciamenti sì, ma con servizi particolari e non richiesti rivolti soprattutto contro il competitor cinese. Secondo brutte logiche di mercato tutto legittimo, ovvio. Eppure la presunzione d’abbandonare pratiche neocoloniali e predatorie è tutta teorica. Le medesime cacciate dalla porta rientrano dalla finestra, e comunque i denari italiani messi a disposizione (5,5 miliardi di euro) sono pochini, così il passo furbesco della nostra premier è coinvolgere la rappresentante Ue

 


Se poi s’osserva ciò che è stato finanziato finora, ad esempio una pianificazione per biocarburanti rivolta al Kenya, il progetto è trattato dall’Eni che, dunque, s’avvantaggia dell’appalto secondo vecchie logiche, da cui il Mattei degli accordi fifty-fifty sul petrolio di settant’anni addietro, si discostava ampiamente. In apertura d’incontro a favore di microfoni e telecamere Meloni ha tenuto a sottolineare: Oggi la nostra intenzione è offrire risposte concrete alle priorità espresse sulle infrastrutture strategiche, come il caso del ‘Corridoio di Lobito’, che collegherà l’Occidente all'Oriente del continente africano. Penso a connessioni digitali sicure e moderne come il cavo ‘Blue & Raman di Sparkle’ che si proietterà verso l'Africa; penso alla promozione etica delle opportunità che provengono dall'Intelligenza Artificiale, con il centro per lo sviluppo sostenibile che è stato inaugurato a Roma stamattina. Penso anche al rilancio delle filiere agricole locali, con investimenti sulla trasformazione del caffè e sull'agricoltura sostenibile". Poi le scuse non richieste: “Non sono iniziative calate dall'alto, ma progetti concreti nati dal dialogo e dalla volontà di creare sviluppo duraturo per i nostri partner africani". Sarà così? Su certi dossier Onu i 45 milioni di cittadini tanzaniani mancano per il 60% dell’accesso all’elettricità primaria e per il 40% di acqua potabile, questa gente pensa poco a fonti d’energia rinnovabile, ma se così dovesse essere saranno felici. Basta poter accendere una lampadina e non prendere il tifo da un bicchiere. Solo che il governo italiano, foriero di diversi progetti, non tutti dotati di coperture (perciò Meloni tira la risicata giacchetta di Von der Layen) svaria e mira a sperimentali produzioni energetiche d’idrogeno verde, ma in Tunisia. Del resto sempre Africa è, e poi Saied occorre blandirlo per il contenimento dei migranti. A eseguirle Enel, Eni e Acea sicuramente non a fondo perduto. I ministri dei due Stati centrafricani condotti nell’ennesimo tour di vacanze romane, ovviamente aspettano. Qualche briciola scivolerà verso i loro Paesi, che tuttora vivono fra tristi note di mortalità infantile (118 su 1000 bambini in Tanzania) o fra inquietanti instabilità politiche, è d’un anno fa l’ultimo tentativo di golpe nel popoloso Congo (120 milioni di abitanti), devastato da Signori della guerra e bande di predoni. Il nostro ministero degli Esteri lo sa bene, avendo lasciato sul terreno l’ambasciatore Attanasio. Ma in quel sottosuolo persistono diamanti, rame, uranio e coltan, qualcosa spetterà a chi bazzica quei luoghi.  

lunedì 16 giugno 2025

Iran alzo zero

 

Ora che anche noti dissidenti agli ayatollah,  compresi quelli che non rischiano granché poiché da rifugiati all’estero (l’avvocata premio Nobel Ebadi, la scrittrice Delijani) sono al riparo dalla repressione interna e dalle bombe d’Israele, diffidano della soluzione finale attuata da Netanyahu per un cambio di regime, il prosieguo della guerra si spoglia di qualsiasi bontà verso il prossimo. Israele e il suo premier pensano a sé, alla loro grandezza, alla reiterata follìa nell’offrire morte e orrore per tutto il tempo a venire. I palestinesi che subiscono da decenni angherie e distruzioni, a Gaza e in Cisgiordania, conoscono bene quest’intento razziale e coloniale immerso nei dollari della lobby ebraica, unico pilastro del sedicente Stato d’Israele democratico, di fatto mai nato neppure all’epoca della fondazione. I suprematismi etnico (il popolo eletto), politico (il sionismo), confessionale (l’ebraismo ultraortodosso) hanno sempre accompagnato non la rivendicata esistenza, ma l’imposizione di proprie volontà a danno d’altri. E’ storia quasi secolare quella che fa d’Israele l’elemento di rottura d’un Medio Oriente già seviziato da imperi vecchi e recenti. E dal 1948 in balìa di quanto soprattutto l’Occidente para-statunitense, i suoi patti economici e militari, permettono di eseguire in un’area sempre più vasta ai governi laburisti, centristi, likudiani, nazionalisti, ultraortodossi scaturiti dalla Knesset. Quest’impostura da quattro giorni s’affaccia a quasi duemila chilometri a Levante, in territorio iraniano dove con la finta ritrosia della presidenza Trump si cerca di sotterrare quanti più nemici possibili: generali di esercito e pasdaran, scienziati e ricercatori del programma nucleare, più la gente che gli vive attorno, visto che i cosiddetti “omicidi mirati” vengono praticati con missili, droni esplosivi, autobombe che non risparmiano civili, magari neanche in sintonia col regime, come la poetessa Parnia, la pittrice Mansoureh, l’hostess Mehrnoush, spolpate, arse vive, disintegrate dagli attacchi lanciati da venerdì notte sul loro Paese.


Seminare il panico, sterminare gente, come Israele fa nella Striscia da venti mesi, come ha fatto a Beirut e nel sud del Libano nello scorso autunno e in Siria settimane fa.  Terrorizzare, definendo gli avversari terroristi. Non solo Hamas, Hezbollah, Houti e Pasdaran Israele e i suoi benpensanti sostenitori bollano come terrorista chiunque non accetti questo criminale gioco al massacro. L’alibi  dell’autodifesa - che è invece esclusivamente offesa, desiderio di morte, morte altrui e pure della propria gente trascinata in conflitti eterni da una coriacea cricca di militari, spioni, sediziosi fanatici del proprio ego - è una foglia di fico incapace di coprire una tragica realtà che si palesa al cospetto della comunità globale. Purché questa voglia vedere. Israele, nazione che non sa e non vuole vivere in pace, proietta sul mondo paranoie e frustrazioni, non solo quelle storiche che pure hanno ricoperto di lutti la progenie. Inventa continue  rivendicazioni, sempre ulteriori nemici, demoni che in realtà hanno le fattezze dei suoi presunti statisti. Una stirpe di militari, irregolari attivisti delle bombe, ripuliti e dipinti come Presidenti, Primi Ministri propensi a soggiogare e magari proporre accordi per rinnegarli a proprio vantaggio. Così è stato per i territori che hanno polverizzato la Palestina, così per il pericolo rappresentato da potenziali bombe atomiche iraniane, potrebbero essere nove, a fronte delle novanta e passa fornite all’Idf dagli Stati Uniti. Anche media mainstream ammettono che il denaro di cui l’Intelligence di Tel Aviv è dotata gli permette di fare dell’Iran un laboratorio per attentati e omicidi mirati, infiltrando, assoldando, corrompendo cittadini e finanche elementi in carriera nei circoli della sicurezza avversaria, sicuramente corpi militari, probabilmente anche Guardiani della Rivoluzione. Nei conflitti ogni stratagemma è possibile. Ma in questi giorni che potrebbero diventare settimane o mesi, in cui da Teheran chi può fugge, si fa comprare o si nasconde, e chi non può, né vuole si difende dai raid come riesce, riparando nelle cantine e nelle fermate del metro, gli stessi dissidenti agli ayatollah possono valutare il futuro che li attende insieme all’intero Paese. 


 

sabato 14 giugno 2025

L’atomica e i cambi di regime

 


Rovesciare gli ayatollah, sostituirli con un “Leone che risorge”, così come viene denominato l’attacco israeliano in corso, o coi desideri dei nostalgici della dinastìa Pahlavi che pure dicono di volere un Iran del futuro basandosi sui simboli d’un triste passato. Israele e gli Stati Uniti, mica solo Netanyahu e Trump, inseguono il sogno del cambio di regime in Iran. Viste le molteplici criticità dello Stato persiano sul fronte economico, soprattutto per gli embarghi decennali voluti da tutte le amministrazioni statunitensi in virtù del mai sanato smacco degli ostaggi che viaggia ben oltre i 444 giorni di quella crisi (1979). Se oggi Trump e un pezzo d’America accettano d’appoggiare la guerra al Medio Oriente lanciata dal premier israeliano è per la revanche eterna rivolta agli iraniani che hanno spazzato via il potere dei governi-fantoccio come quello sanguinario dello Shah. In quella rivoluzione diventata islamica, pur avendo altre anime, c’era il rigetto dell’intento di dominio esterno sempre presente con svariati attori. L’alleanza d’acciaio fra Washington e Tel Aviv, elemento portante per la nascita, lo sviluppo e l’ingombro del sionismo ben oltre i propri confini statali universalmente riconosciuti, vede da tempo favorire a senso unico abusi, guerre, stragi, da parte d’Israele col supporto militare di un’America subordinata ai voleri del fanatismo ebraico. Fantastica geopolitica che vede fondamentalismi a senso unico, accade fra le due sponde atlantiche dell’Occidente civile che rincorre pervicacemente le crociate del Terzo Millennio. Sfruttare la debolezza intrinseca d’un regime, quello iraniano lo è, indebolito da un’opposizione allo strapotere clericale, è la strada pensata dagli avversari interni ed esterni, coi primi propensi ad aiutare chi vuol dare una spallata non tanto a una Guida Suprema  indebolita dall’età, ma al simbolo del suo ruolo. Il potere del clero sancito dal velayat-e faqih, imposto dal Ruhollah Khomeini agli altri ayatollah. Scelte antiche e divisive, fra gli stessi chierici di rango, eppure pesantemente presenti nei conflitti fra un Iran riformista e uno conservatore che periodicamente hanno spaccato il Paese, non solo il Gotha dei turbanti. 

 

Se per un primo ventennio questi contrasti sono stati vissuti dentro il ventre molle della nazione, saldando due caste di potere, chierici e militari, i loro gruppi di rappresentanza parlamentare e le bonyad economiche controllate, nel secondo ventennio il fremito civile, la voglia di diritti, la gioventù studentesca urbana che s’erge contro quelle caste e agogna la laicizzazione, il genere femminile che rifiuta il velo e magari pure la chirurgia estetica in voga, hanno animato gli scrolloni dell’Onda verde del 2009 e le periodiche rivolte, fino all’omicidio di Stato di Mahsa Amini. Questo in una società spaccata fra chi difende il passato recente della Rivoluzione islamica e chi non amandolo, insegue un cambiamento. Altra cosa sono i rovesciamenti pilotati, come può diventare la guerra di Netanyahu lanciata all’intera nazione iraniana, più che contro chierici e pasdaran. Un po’ come accade alla Gaza distrutta per scacciare Hamas, mentre il progetto è fare terra bruciata di ogni palestinese. A economia azzoppata e spaccature interne s’aggiunge l’attuale debolezza degli apparati iraniani della forza, non tanto per la disgregazione dell’Asse della Resistenza con lo sfaldamento di Hezbollah e Hamas, ma per il meticoloso e prolungato lavoro d’infiltrazione operato dagli apparati dell’Intelligence israeliana che si servono di oppositori iraniani e d’insospettabili iraniani inseriti nella vita civile, militare, scientifica e probabilmente politica del loro Paese. Non si tratta d’inseguire le solite congetture complottiste, parlano i fatti di cronaca geopolitica che possono svelare reiterate operazioni del Mossad legate a questa tattica, peraltro già praticata nei confronti di Fatah e Hamas. E’ un fatto: Israele, grazie al fiume di denaro a sua disposizione, compra i propri avversari, certo se costoro sono propensi a vendersi. Ultimo, e non certo secondario, fattore del piano di rovesciamento legato alla forza, il peso tecnologico negli attuali conflitti, un terreno su cui l’Iran paga pegno, poiché lo scontro che può anche tenersi nei tunnel e nelle trincee, viaggia nei cieli, corre nei bip informatici. Perciò ogni altrui avanzamento, non necessariamente sulla deterrenza nucleare, è temuto. Mondi di serie A e B e peggio ancora. I secondi e terzi piacciono subalterni, è una storia che si ripete dai tempi di chi l’atomica l’ha usata veramente.  

venerdì 13 giugno 2025

Israele, guerra all’Iran

 


Il principale Stato-terrorista globale lancia nella notte raid aerei su impianti nucleari e centri militari iraniani, colpendo in maniera mirata nella stessa capitale. Lo diceva da tempo, l’ha fatto, certo di non avere reazioni. Secondo fonti d’agenzia nel mirino le città di Natanz, col suo centro d’arricchimento dell’uranio, Ishfan, però l’Aiea dichiara che la centrale non è stata colpita, Tabriz dove al settore di ricerca nucleare s’affiancano due basi militari, quindi a sud-ovest Arak e Kermanshah. Con operazioni-killer, di cui il Mossad è capofila al mondo, sono stati eliminati Hossein Salami, responsabile delle Guardie della Rivoluzione e Mohammad Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito. Fra le vittime di stanotte sono stati annunciati anche gli scienziati nucleari Abbasi e Tehranchi. La motivazione sarebbe l’autodifesa da “un regime che minaccia l’esistenza d’Israele”; chi minaccia chi e soprattutto chi attacca chi sono sotto gli occhi del mondo. Che però non vuol vedere la scalata di violenza d’un Paese sorto con princìpi che si sono sempre più rivelati guerrafondai, espansivi, coloniali. Verso i palestinesi, popolo defraudato della propria terra e verso il Medioriente vicino e lontano. L’intenzione di continuare a colpire al cuore la nazione iraniana era stata in più occasioni esplicitata dal governo Netanyahu, e già diversi attacchi interni con attentati e una sequela d’uccisioni mirate contro ingegneri del piano nucleare erano state compiute, ma non rivendicate da Israele. Per la precisione e sofisticatezza dei mezzi impiegati il pensiero correva alle Intelligence di Tel Aviv e Washington, che però hanno sempre negato coinvolgimenti. La Casa Bianca sostiene di non essere stata messa al corrente dell’operazione di stanotte. Formalmente gli Stati Uniti hanno riaperto la trattativa sul nucleare con Teheran, e sembrerebbero propensi al dialogo. Di fatto finora gli incontri sono stato formali, le delegazioni restano su posizioni lontane, visto l’intento americano d’impedire lo stesso impiego civile del nucleare, su cui comunque l’Iran continua a lavorare.  

 

Secondo la valutazione della stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica le bombe su impianti nucleari possono produrre conseguenze poco prevedibili riguardo a fughe radioattive e contaminazioni a lungo termine d’aria, suolo e acqua. Se per distruttività non corrispondono a esplosioni di ordigni atomici, il fatale effetto letale può risultare altrettanto pericoloso. Mentre i vertici di Israel Defence Forces con Zemir esultano e rilanciano come indispensabili simili azioni per tagliare le gambe al nemico, peraltro supportati dal leader dell’opposizione Lepid che si congratula con l’esercito, da Teheran giungono le grida di vendetta. Il vecchio ayatollah Khamenei afferma ancora una   volta che “Israele dovrà affrontare un destino amaro e doloroso”. Litania trita e inefficace. Lo Stato ebraico la conosce, se ne infischia e ha conseguentemente alzato posta e pretese. Trovando in Trump un sodale supremo in fatto di provocazioni visto che l’accelerazione verso gli assassini-mirati, che nel decennio 2010-2020 erano rivolti ai soli tecnici e ingegneri nucleari, fu opera del presidente che diresse un drone esplosivo sulla massima autorità militare e politica iraniana: il generale Qasem Soleimani. Il colpo venne incassato con le sole invettive verbali o poco più dagli eredi della civiltà persiana, e da allora il crescendo dell’aggressività senza confini di Tel Aviv, ha sempre avuto il benestare dello Studio Ovale, chiunque vi sedesse o risiedesse, assieme all’infinità d’armamenti e finanziamenti che sempre più viaggiano dalla sponda atlantica statunitense al satellite sionista nel Mediterraneo. L’escalation tecnologico-informatica dei conflitti favorisce chi incentiva tali competenze, le utilizza in maniera massiccia e chi ha fondi, tanti fondi, da investire in corruzione e infiltrazione dell’avversario. Attualmente l’Iran e i suoi vicini di fede e ideali mostrano un ventre molle per instabilità, opposizione ideologica, crisi economica e contraddizioni incistate da oltre due decenni. Quella è la ferita purulenta su cui i Servizi infilano il proprio ditone. Nel piano chirurgico dello Stranamore Netanyahu e soci non certo per guarire, ma per seppellire l’avversario. A Gaza e altrove. Col ghigno ridente dell’amico Donald e l’occhio socchiuso d’un Occidente che vede le autocrazie solo altrove.

lunedì 9 giugno 2025

Questione di quorum

 


Il quorum, nel latinorum politico il numero “dei quali” c’è bisogno per determinare la validità d’un voto, è diventato l’inafferabile Araba fenice che sfugge o concretamente fugge dalle urne per invalidare l’istituto referendario. A tratti usato e poi abusato, da chi come i radicali non praticava attivismo politico nei territori e si richiamava a princìpi sui diritti, quasi sempre sacrosanti ma non sempre vissuti sulla pelle e impiantati nel cuore della popolazione. Taluni  radicali valorosi (Aglietta, Faccio, Spadaccia) non ci sono più e non c’è più neppure chi della Rosa nel pugno fece un principato (Pannella) senza la lungimiranza di certi principi, che non dovevano sostituire i princìpi per i quali ci si batteva, coi propri paggetti autoreferenziali (Rutelli, Della Vedova, Capezzone) plasmati a misura servile del protettore. Così in fatto di quorum le battaglie civili sui grandi referendum (1974 divorzio, 1978 finanziamento ai partiti, 1981 aborto, 1985 scala mobile, 1987 nucleare, 1991 preferenze Camera, 1993 legge elettorale, 1995 privatizzazione Rai) ottenevano dall’87% al 57% del benedetto quorum. Vincevano i sì, vincevano i no, ma gli elettori s’esprimevano. Fino all’inaridimento dei rapporti fra partiti, elettorato e temi trattati. Dal 1997 il quorum diventa maledetto, per chi indice i referendum, o benedetto, per chi vuole boicottarli usando la lontananza dai seggi che comporta il fallimento della consultazione. Con l’eccezione d’un quorum valido (54,8%) su una questione sentita, sentitissima: la conservazione del bene pubblico dell’acqua. Referendum stravinto con 25 milioni e 900mila voti (95,35%), poi successivamente tradito dagli organi legislativi e di controllo dello Stato che hanno consentito a rendere l’acqua fonte di profitto per aziende pubbliche e private. Simili situazioni sono pugnalate all’anima di elettori e cittadini per il doppio comportamento di rendere insignificante la consultazione diretta e per permettere lo scempio abusivo che è il furto d’un bene primario, patrimonio del genere umano. Così Politica e Impresa hanno azzoppato lo strumento referendario.  Sbiadito, considerato sterile dai pessimisti, ma divenuto inefficace per via degli attentati alla validità impiegati dai boicottatori. E chi sono gli affossatori dei cinque quesiti dell’8 e 9 giugno? Non solo i partiti che hanno espresso ufficialmente la propria intenzione distruttiva (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Italia Viva), ma parecchie singole presenze fra l’elettorato dei partiti d’opposizione, cioè i sostenitori dei cinque referendum. Poiché soprattutto sui temi di difesa dei diritti dei lavoratori, una certa tipologia di elettori, gli imprenditori presenti nel Partito  Democratico, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa avrà fatto mancare la propria partecipazione alle urne. E’ un cattivo pensiero? Certo, ma plausibile non solo a naso. Basta rifarsi alle percentuali di sostegno delle ultime elezioni politiche (Pd 19% M5S 15,5 % Verdi e Sinistra 3,6, +Europa 2,9 per un totale del 41%). Ma oggi famosi sondaggisti (usiamo quelli dell’Ipsos del 30 maggio scorso) danno le percentuali di questi gruppi del centrosinistra in crescita (45,5%). E visto che un pezzo (vogliamo calcolarlo attorno a un 5%, ma potrebbe risultare anche più ampio) di astensionisti cronici, poiché disgustati dalle pluritrentennali comparsate del centro-sinistra, in quest’occasione hanno votato per coscienza e sostegno ai diritti di lavoratori e per la cittadinanza, chi altro ha sgambettato il quorum?

martedì 3 giugno 2025

Melonismi: il voto del non voto

 


L’ennesima uscita a effetto Barnum, come il Circo dell’impresario a stellestrisce Phineas Taylor, offerto dalla Meloni premier a favore di telecamere e soprattutto del codazzo di replicanti-esegeti, portavoce o meno della Sorella d’Italia, cioè il giretto per il seggio senza ritirare le schede referendarie e votare, non è solo l’ennesima sparata d’una venditrice di fumo assurta a massima carica della politica nazionale. E’ l’ulteriore tassello della parodia da furbetta del quartierino che ora fa cose più importanti e seguìte rispetto alle precedenti fasi di militante missina e politica in età di svezzamento berlusconiano. Entrambe condite da arroganza e opportunismo senza freni, fregandosene dei ruoli istituzionali d’un ceto passato dalle ruberie di Stato della Prima Repubblica, allo scippo dello Stato dei restanti trent’anni e ormai più che stiamo vivendo. Ormai fa sua la parodia del Bagaglino, di cui Andretti e Craxi andavan fieri per il ritorno d’immagine che ne seguiva, passando per i Drive In e l’intero asservimento mediatico-intrattenitivo di cui il Cavaliere più amato dagli Italiani e dalle Italiane ha goduto, compresi i “Bungabunga” con le Olgettine, le storielle sessiste espresse sul palco di Atreju, insomma ogni comparsata giocata fra la Villa di Arcore e Palazzo Chigi. La figlia, sorella e madre d’Italia Giorgia, che ha imparato benone la lezione recitativa con accenti enfatici, colpi di teatro e astuzie comunicative se ne serve per la gestione del potere e rilancia in quell’orgia tanto cara alle destre liberali o illiberali, che non è un ossimoro visti i “padri nobili” cui i suoi corifei s’ispirano. Se poi aggiungiamo anche la non celeste ma nerissima nostalgia alla quale si richiamano parecchi meloniani, appare l’intera gamma dello straniamento che da un trentennio il post-fascismo - ben prima dello sdoganamento berlusconiano e del pellegrinaggio a Fiuggi - aggiunge ai richiami a mondi tolkeniani, manipolazioni fasciocomuniste, falsificazioni rossobrune. Sciocchezze. Senz’arte né parte di cui si sono riempiti le gote anche autoproclamati intellettuali di quella sponda. E il voto non-voto, cos’è? Beh, la Meloni vola basso e guarda al tornaconto, non lancia illusioni con Massimi Sistemi, s’accontenta di creare confusione, abbaglia taluni suoi elettori lavoratori dipendenti che qualche dubbio sull’astensione dalla difesa dei propri diritti se lo pongono. In più scompiglia i seggi, invitando ad andare in quei luoghi a far nulla, e dunque intralciando le normali operazioni di voto, occupando spazi, allungando le code dei votanti reali. Ai Fratelli e alle Sorelle d’Italia Giorgia fa intendere: fate trambusto, ostruite il passaggio, impedite l’espressione, così li fregamo.

venerdì 30 maggio 2025

L’arte non lava l’infamia

 


Passa per la cultura, una grande mostra (I tesori dei faraoni) ospitata alle Scuderie del Quirinale dal prossimo ottobre, la ricucitura del governo di Roma con quello del Cairo. Giorgia Meloni lancia il cuore oltre l’oltraggio molto più di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni che messi insieme, durante i loro esecutivi dal 2016 al 2018, non avevano mosso un dito in occasione del sequestro, della carcerazione comprensiva di torture e assassinio del ricercatore Giulio Regeni, un piano criminale sempre coperto dal presidente egiziano al Sisi. Certo, i nostri premier seppero di quello scempio a delitto avvenuto, ma non si peritarono mai d’interrompere i rapporti con la cricca militare che schiaccia dal 2013 la vita quotidiana della popolazione interna e dei visitatori esterni, a meno che non fruiscano del turistificio sul Mar Rosso. Ovviamente la cultura vola alto, non s’infanga del lordume del ceto politico d’ogni nazione ed è bene che l’esposizione romana, organizzata da una Srl (Mondomostre creatura aziendale di Tomaso Radaelli) sviluppi il suo programma, sperando in costi d’ingresso accessibili ai visitatori. La promozione fa già conoscere chicche pregiatissime (il sarcofago di Tuya, la maschera di Amenemope, le raffigurazioni di Ramsete VI e Sennefer) da gustare nel corso della visita. A curare la collezione, un esperto di quelle antichità, Tarek el-Adawi, ex direttore del Museo Egizio che sorge a ridosso della famosa piazza Tahrir, che nel gennaio 2011 fu il cuore delle speranze di trasformazione. Un uomo a sua volta testimone di alcune razzie: il furto compiuto da ladri che un paio di giorni successivi all’avvìo della rivolta s’introdussero tramite un lucernaio nelle sale espositive prelevando alcuni pezzi, diversi dei quali vennero comunque recuperati. E le razzie compiute da poliziotti che, anche dopo la caduta di Mubarak, usavano talune sale del Museo per malmenare e abusare i dimostranti.

 

Come denunciò in un processo Samira, una delle oppositrici sequestrate fra le mummie dei faraoni e poi trasferita nel carcere militare Haikstep. All’epoca la giovane rivelò: “In quei momenti desideravo di morire e non ero la sola. I militari ci toccavano, ci toccavano tutte. C’imponevano di abbassare i pantaloni… Una donna dei Servizi mi disse di distendermi perché “Sir” mi avrebbe visitata. “Sir” vestiva con abiti in dotazione all’esercito. Ero nuda davanti a lui, c’erano anche ufficiali e soldati che guardavano. Io chiedevo alla donna d’impedirlo. Uno che mi esaminava toccò il mio stomaco con uno strumento elettrico e continuava a insultarmi Se lui era un medico, come poteva farmi questo? Mi umiliavano per stroncarmi, volevano che non mi occupassi più di diritti, di politica. Ridotta in quelle condizioni non stai più lottando contro l’oppressione, ti senti semplicemente un essere inferiore”. Questa testimonianza di Samira è dei mesi successivi all’abuso, nella primavera 2011. Poi da 2013, dopo il golpe che portò al Sisi alla presidenza, la stampa interna non diffuse più notizie simili, né tantomeno informazioni. Un silenzio tombale ben più profondo e assolutamente non artistico ha soffocato il Paese, fino a lacerare, strangolare, annientare migliaia di giovani,  come fu per Giulio Regeni che cercava di capire cosa accadeva nelle strade d’una civiltà millenaria resa lugubre dai nuovi potentati. Quel che diversi governi italiani - oltre ai citati, anche Conte e Draghi e oggi Meloni - non hanno compiuto è un gesto d’amore oltreché d’onore verso un concittadino calpestato fino al martirio da un manipolo di killer: gli ufficiali della National Security Agency al servizio di al Sisi, il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, il maggiore Magdi Sharif. Per quest’infamia è in corso a Roma un precesso, verso il quale il governo egiziano, che non può essere annoverato quale Istituzione amica, ha pervicacemente opposto indisponibilità assoluta. Ogni fruitore della mostra I tesori dei faraoni rivendichi il bisogno di giustizia per il nostro martire Regeni. L’odierna premier Meloni non può nascondere l’abominio d’un assassinio dietro la bellezza dell’arte.

lunedì 26 maggio 2025

Alaa e i suoi cadaveri

 


Resta una madre Alaa, certo, ma contornata dai cadaveri. Non solo quelli che da pediatra assiste ogni giorno, corpicini squartati dall’esplosivo vomitato da Israele sulle poche pietre di Gaza ancora in piedi, ma davanti ai piccoli sudari dei figli suoi, uccisi tutt’assieme, nove su dieci, con uno strike che può inorgoglire Netanyahu e chi gli obbedisce vestendo una divisa. Dicono siano ufficiale dell’aeronautica israeliana. Ufficiali? piloti? Massacratori è il termine che illumina al meglio la loro opera. Volano sulle teste di chi non sa dove andare, non può fuggire né ripararsi, trasforma soltanto ogni angolo di polvere in un anfratto dove attendere una sorte spesso maligna. E’ così che l’ospedale Nasser di Khan Younis è diventato l’ennesimo obitorio e lei Alaa al-Najjar, la dottoressa dei bambini feriti e denutriti, ha visto i resti neri e riarsi della sua prole. Doveva pensare a salvarli assieme al marito e collega, diventato anche lui bersaglio e ora semi moribondo. Dovevano adoperarsi a distribuire altrove quei corpicini finché i cuori battevano e le palpebre non si chiudevano per sempre. Dovevano smistarli in Giordania, Egitto, in qualche capo profughi libanese e siriano, via dalla Striscia perché quella è terra maledetta che Israele sta arando col fuoco e col sangue degli ostinati e stolti che vogliono rimanerci. E sfidare il Popolo Eletto, l’unico degno di espandersi nelle terre che Dio gli ha promesso, è una bestemmia degna dei terroristi che rappresentano questa gente. Nella loro posizione di professionisti della medicina, i due dottori non dovevano spendersi nel curare i piccini bersagliati dal cielo, il destino ha deciso: via da quell’insignificante lembo di sabbia, che va reso Eden come Israele ha mostrato di saper fare sul suolo diventato suo Stato. E’ l’ostinazione palestinese a resistere che li rende cadaveri, i governanti della real politik a Tel Aviv programmano, i loro signori della Guerra eseguono, le ombre vaganti nella Knesset non possono far nulla da mesi.  Da anni, dal 1948 sono complici di questo processo di sfratto e decimazione. Per salvare sé e i propri figli i gazawi e i cisgiordani devono sloggiare dal medio Oriente. Non farlo è presagio di morte, è la morte stessa, è inutile piangere dottoressa Alaa, i dominatori globali vi riservano questa sorte. Prendere e sparire.  

domenica 25 maggio 2025

Appaltatori di morte

 


Vengono dal North Carolina oppure dal Wyoming i nuovi boss di Gaza. Chi dice che Hamas sia il padrone della Striscia, mente. Il Movimento di Resistenza Islamica per lo scorno di Netanyahu continua a esistere, il suo carnefice non è riuscito a estirparlo. Gli aumenta i funerali dei capi moltiplicandoli con quelli degli abitanti, sommandoli ai sopravvissuti e deportati a nord e a sud con continui cambi di rotta, ma Netanyahu non ha cancellato Hamas, come promette da due anni. Però Hamas deve celarsi, negli anfratti dei tunnel, magari nei cuori dei figli di Gaza rimasti senza madre, padre e neppure un parente prossimo. Orfani di vita, non di desideri. I boss di Gaza sono coloro che da qualche mese hanno preso in appalto ciò che si muove su quella polvere e fra quelle macerie, i mercenari di nuova generazione con armature differenti dagli Erasmo Gattamelata del passato. Nel business stabilito fra il padrone americano e quello israeliano provengono dalle terre degli Stati confederati e da quelle scippate ai Cheyenne, appunto North Carolina e Wyoming.  Le animano agenzie d’affari che assumono ogni genere di servizio dalla geopolitica della sopraffazione. In prima fila, Safe Reach Solution, inventata da un ex agente della Cia, che aveva iniziato con la gestione di check point e corridoi imposti da Israel Defence Forces, dove viene stipata la massa di gazawi costretta a fuggire dai mortali assalti aerei. Raid che proseguono, come pure le trasmigrazioni imposte per fiaccare e schiantare i più deboli, uno dei lugubri volti della pulizia etnica strisciante vanto del signore d’Israele. Ora arrivano i nuovi appalti e riguardano le derrate alimentari, se quando verranno ripristinate dalle concessioni a singhiozzo volute dal governo sionista. La ripresa dei decessi per fame dell’infanzia palestinese, non solo fra i deboli neonati bensì fra quei bambini che a quattro o a otto anni finiscono per morire degli stenti programmati a Tel Aviv, sono la palese dimostrazione di chi veramente s’avvicina alla teoria dei lager. Mentre afferma che lo slogan “Free Palestine” sarebbe un moderno “Heil Hitler” Netanyahu usa il cibo come strumento di condanna a morte e futuro ricatto, sotto lo sguardo armato dei pistoleri forniti dall’amico americano. 


 

 

venerdì 16 maggio 2025

Il Cairo, i reclusi, gli affamati

 


S’aggira sempre più smagrita, canuta, invecchiata la professoressa Saif, madre di Alaa il detenuto eccellente, uno dei tanti sepolti vivi del regime di al Sisi. Del figlio sa sempre meno, perché nel vuoto sono caduti i numerosi appelli per la sua liberazione. Disattese le invocazioni materne rivolte al regime egiziano e pure al premier inglese Starmer, visto che Alaa ha il passaporto britannico e quella Democrazia politica e giuridica poteva farsi un piccolo scrupolo e domandare il rilascio d’un suo concittadino. Ma certe tutele non appartengono a una civiltà occidentale che definisce statista un oppressore di gente comune cui non viene solo negato ogni diritto, lui la trasforma in bersaglio, com’è accaduto al ricercatore Giulio Regeni - raggirato, arrestato, seviziato, assassinato - perché osservava, parlava e scriveva. Al Sisi è ammesso nelle assise internazionali, addirittura quale negoziatore per lo strazio degli abitanti di Gaza. Lui che con gli ‘Accordi di Abramo’ dei gazawi condivide un futuro fatto d’ulteriori persecuzioni e deportazioni, ma non oltre il confine di Rafah, non in casa sua. Perché quelle famiglie, finora massacrate sulla propria terra, devono finire altrove, fuori dal personale orizzonte geografico e politico egiziano. Questo è il generale al Sisi, l’uomo che continua a tenere reclusi sessantamila cittadini, da chi come Alaa parla di liberarsi dalla perfidia manipolatrice dei militari, ai semplici candidati che hanno provato a sfidarlo alle elezioni. A uno di questi, Ahmed Tantawi, arrestato col suo staff sempre per la litanìa della ‘sicurezza nazionale’, il presidente ha promesso un’uscita dal carcere alla fine di questo mese. Sarà vero? o finirà coi rinvii perenni applicati alle centinaia di sottoscrittori di post sui social, com’era Patrick Zaki. Chi è finito nelle galere di Tora e dintorni, si salva se non pensa.


Se è giovane, robusto, dotato di buoni anticorpi per resistere  alla rudimentale ma efficace “tortura del pollo” e a quelle coi cavi elettrici mai passate di moda. Se resiste a cibi putrescenti, a latrine che allagano le celle, dove i corpi ammassati emettono più gemiti che respiri. In quel Paese che l’Unione Europea considera sicuro in base ai propri affari, ti va di lusso se non muori. Certo, se hai chinato la testa, accettato d’essere un numero cui ogni tanto, per convalidare la “Democrazia”, viene offerta l’opportunità di votare, puoi recarti al seggio e contribuire a quel 90% che da dodici anni incorona Sisi Capo di Stato. Così Starmer e Von der Layen sono confortati, e tutto fila liscio per chi non crea problemi al Cairo e a Bruxelles. In più, ogni tanto, il potere sopporta il manipolo dei pochi, pochissimi raccolti sotto la sede cairota dell’Ordine dei Giornalisti, categoria in gran parte tacitata, normalizzata. Dalle testate più note, come Al-Ahram, che ai tempi della rivolta di Tahrir, pur sotto Mubarak, raccoglieva fatti e opinioni e poi non più, per quella morte della libertà di pensiero e parola imposte dai militari. Infine trasformata in notiziario di Palazzo, come quasi ogni media d’Egitto. Eppure qualche giorno fa un gruppetto di coraggiosi della penna e del microfono, più qualche attivista e politico s’è lì riunito al centro del Cairo - si riconosceva Hisham Ismail Fahem. Tollerati dalla polizia perché parlavano delle stragi quotidiane subìte dai palestinesi, hanno incrociato mamma Leila, l’odierno suo necessario bastone, l’immensa volontà di lottare per una giustizia di famiglia e di popolo. Sono stati commoventi gli abbracci, offerti con delicata attenzione a quel corpicino senza carne per digiuni politici bistrattati da chi vuol decidere delle sorti di un’umanità ridotta a pelle e ossa. 


 

mercoledì 14 maggio 2025

Ridisegnare il Medioriente

 


Se ancora servissero conferme sui vari progetti in corso per ridisegnare il Medioriente il viaggio di queste ore del presidente americano Trump, che si ‘scomoda’ per incontrare soci in affari e possibili sudditi del neo impero, è ampiamente istruttivo. Un giro di valzer diverso dal semi disimpegno obamiano, frutto dell’opportunistica nebulosa del presidente del finto cambiamento, o dalla tradizionale presenza attraverso alleati di comodo, fossero pure le milizie kurde del Rojava sostenute da Biden. I rilanci del Trump-due ripartono dalle certezze del Trump-uno e dei suoi ‘Accordi di Abramo’, partoriti per costruire attorno al super alleato israeliano, il morbido drappello di normalizzatori dei rapporti con lo Stato sionista formato da Arabia Saudita, Emirati Arati, Bahrein, Marocco. In barba a quel che l’Idf ha fatto e fa sui territori palestinesi, ma anche in Libano e Siria. Se verso l’operato di Netanyahu, massacratore e occupante di Gaza con finalità di sterminio e pulizia etnica, Trump predispone un futuro d’affarismo immobiliare tramite il progetto dei resort, più articolata è la valutazione su quel che aspetta la dissanguata Siria, posto che Israele oltre al Golan ne pretende un’ulteriore fetta abitata dai drusi di cui si propone unilateralmente protettore. E nella consorteria geopolitica fra Bibi e Donald l’idea di frazionare quella che è stata la Siria in base alle etnìe arabe, druse, alawite, kurde è un passo favorevole ai propri interessi e a un quadro ricompositivo di non facile soluzione. Il disegno unitario del premier in pectore al-Sharaa ha bisogno di un’adesione ideale che non tutta la cittadinanza mostra di volere. In contemporanea necessita di denaro, tanto denaro, per sfamare chi vive lì prospettandogli un futuro attivo mediante investimenti e lavoro. E poi servizi primari, d’igiene, sanità, trasporto, istruzione, e case per non ammassare gente in città spettrali o in enormi campi profughi. 

 


Incontrando al-Sharaa Trump ha azzerato l’embargo, dunque non più sanzioni per il Paese che fu protetto da Putin sotto gli Asad e ora è in mano a un ex jihadista. Nella foto di rito il completo che lo riveste l’avvicina più al tycoon che allo sceicco dei petrodollari Bin Salman, che non rinuncia al tradizionale abbigliamento. I buoni uffici ricercati e ristabiliti (sebbene dall’umorale inquilino della Casa Bianca ci si possono sempre attendere voltafaccia) dovrebbero introdurre quella liquidità, linfa vitale per i primi passi di normalizzazione in Siria. La domanda che anche gli analisti si pongono riguarda la contropartita, che non è ridotta ai desideri territoriali israeliani, bensì a una sovranità limitata da imporre a Damasco con un ricatto simile alle precedenti chiusure di merci. Insomma, rispetto al riposto marchio di terrorismo, una promozione dell’attuale ceto politico siriano in cambio della sua morbidezza verso un mutato panorama regionale. Che oltre a rilanciare la centralità d’una Turchia indubbiamente avvantaggiata dal ridimensionamento della duplice presenza miliziana kurda e di Hezbollah, rimette in gioco il ruolo di ‘sorveglianza moderatrice’ di quel mondo arabo partecipe e favorevole agli ‘Accordi di Abramo’. Riuscire a farlo con l’ausilio degli eredi del Fronte al-Nusra è uno scacco a quell’intransigenza sunnita oppositrice di Israele e favorevole alla causa palestinese. La nuova veste, non solo sartoriale, di al-Sharaa verso i palestinesi appare mutata. Nel clima di ristabilimento della sicurezza e d’una pacificazione interna il governo di transizione vieta alle fazioni palestinesi presenti sul territorio di operare militarmente. Già nel mese scorso, a seguito d’una richiesta statunitense, le strutture con funzione di polizia avevano arrestato due esponenti della Jihad provenienti dalla Cisgiordania. Che sia questa la ‘buona condotta’ voluta da Trump, e soprattutto da Netanyahu, in cambio di quei finanziamenti tanto necessari a un futuro?

lunedì 12 maggio 2025

Diplomazia turca

 


Le immagini filmate dell’attacco, nell’ottobre 2024, alle Industrie Turche Aerospaziali alla periferia di Ankara con cinque vittime e ventidue feriti, possono essere archiviate come l’ultimo atto di terrorismo attribuito a miliziani del Partito kurdo dei lavoratori. In realtà si parlò anche dei Falconi della Libertà, una branca autonoma che da anni non seguiva la linea originaria del gruppo propenso a colpire solo militari e poliziotti. Ma le stesse indagini svanirono in favore di quegli incontri con Abdullah Öcalan fortemente voluti dal leader del Movimento  nazionalista turco Devlet Bahçeli, che dopo mesi hanno prodotto il recente pronunciamento di scioglimento del Pkk. Una notizia che fa dire a Bahçeli: “L'atmosfera di pace e sicurezza deve essere assolutamente permanente e realistica. La pagina sanguinaria scritta con il tradimento sarà chiusa per non essere mai più aperta". E ancora: “La palude dei pregiudizi deve essere svuotata, le dispute inventate devono finire, le tensioni pianificate che sono lo stadio di polemiche a buon mercato devono cessare, le parentesi delle ossessioni ideologiche senza princìpi devono essere chiuse”. Del resto due esponenti di vertice del partito filo kurdo Dem hanno dichiarato: "Si va creando un'atmosfera che abbracceremo con speranza" (Pervin Buldan) e “la mossa ha eliminato tutte le giustificazioni per evitare la riforma democratica" (Tuncer Bakırhan). Speranzosi tutti, da chi come l’attuale ministro degli Esteri Fidan ha partecipato di persona agli incontri con lo storico leader kurdo con cui aveva colloquiato anche nei tentativi di accordo del 2010-12; mentre Ali Mahir Başarır, leader parlamentare del principale partito di opposizione (Chp) ha esortato la politica ad "abbracciare il processo" ma di farlo gestire dal Meclisi. Forse accadrà, sebbene i segnali fin qui recepiti dicono che è l’attuale governo a trazione Akp-Mhp a voler incamerare il futuro vantaggio elettorale da un patteggiamento che significa sicurezza e pace. Così da far dimenticare quel “terrorismo kurdo” che oltre alle quarantamila vittime del decennio 1985-95, in gran parte propri civili, rivisse nel biennio 2015 e il 2016 centinaia di uccisioni di cittadini nei mesi dell’assedio alle località del sud-est anatolico voluto da Erdoğan.  

 

E’ l’alleato nazionalista d’un presidente che deve gestire l’ondata di proteste per l’arresto del sindaco repubblicano di Istanbul İmamoğlu ad aver tirato fuori dal cappello del realismo politico un asso vincente per il domani. Perché da esso può scaturire quel ritocco costituzionale atto a sdoganare un’ennesima candidatura del leader islamico  alle presidenziali del 2028. Un ritocco sostenuto dai voti del partito Dem che ora aspetta la riforma cui accennava Bakırhan: federalismo, autonomia nell’amministrazione locale che i sindaci kurdi, nel tempo passati da sigla a sigla per aggirare arresti e persecuzioni, vorranno cementare attraverso il riconoscimento della nuova linea promossa da zio Apo Öcalan. Ora che lui e i suoi uomini non possono più   essere tacciati di terrorismo e auspicabilmente torneranno liberi, tale normalizzazione è attesa col batticuore. E l’asso gettato sul tavolo da Bahçeli è rivolto anche a un bel pezzo d’elettorato repubblicano. Moderato, amante dell’ordine e della patria kemalista che verrà mostrata pacificata e sicura. Un colpo che né il compagno di studi di Bahçeli, l’alevita Kılıçdaroğlu, segretario del Chp che voleva diventare presidente e due anni fa venne per l’ennesima volta surclassato, e neppure il rampante İmamoğlu hanno pensato d’inserire nel programma di partito: la trattativa coi terroristi. La fedeltà al kemalismo, che storicamente ha usato ma mai amato la comunità kurda, venendone in buona parte ripagato, glie l’ha fin qui impedito. Certo,  pensare ai quasi coetanei Öcalan e Bahçeli - il leader kurdo è maggiore d’un anno o due - discorrere di futuro sembra impossibile. Marxista-leninista e guerrigliero il primo, lupo grigio l’altro e, per quanto figlio di agricoltori e lanciato nella carriera universitaria, attratto dalla politica nella sponda segnata da un colonnello fascistoide, Alparslan Türkeş, creatore del gruppo paramilitare che nei Settanta mise sottoterra migliaia di militanti comunisti e sindacalisti. Eppure il realismo non conosce veti. Almeno in una Turchia in crisi economica ma sorprendentemente al centro d’ogni sorta di diplomazia, visto che Putin e Zelensky giovedì passeranno per Istanbul.