Riprendono gli assalti, gli attacchi, le vittime, per ora contenute, le ritirate e le diserzioni, i proclami di vendetta. Riprendono soprattutto le fughe della gente comune ch’era rientrata, magari da poco perché appena oltre confine, quello libanese, incendi, crolli, demolizioni, sepolture da missili sono l’incubo che troppi siriani ben conoscono. Eppure in questi giorni sono costretti a rindossare le lacere e ansiose vesti del profugo, rientrando in quella categoria mediorientale dei senza casa né Paese che questa condanna se la trova marchiata sulla pelle da decenni. Quello fra il 2010 e 2020 era stato per Siria il peggiore, usciti dalla bolla d’un regime che resisteva alla contestazione oppure restati lì dentro. Ma non più protetti da nulla, perché i garanti d’un alleato strategico come Asad e i suoi nemici sono immersi in un conflitto dai troppi fronti, dai rissosi e sanguinari protagonisti, dai cinici burattinai a tal punto che davanti allo sguardo dello stesso osservatore che comunque nulla rischia, tutto si confonde. I contorni controversi si mescolano mentre lo scontro perde il senno, intreccia megalomanìe personali, intenti geostrategici, ragioni di Stato e d’impero conservando sullo sfondo il frutto perverso della “macelleria siriana” che ha prodotto 500.000 cadaveri e quattordici milioni di esuli dispersi nel mondo. La gran parte non è finita lontano, quattro milioni oltre la frontiera turca, due milioni al di là di quella libanese, ma alcune barriere infrante da successivi squassi bellici possono ridisegnare la regione. Putin ed Erdoğan ci avevano scommesso, prima foraggiando interposte milizie (la Wagner i russi, l’Esercito Siriano Libero e costellazioni jihadiste i turchi) finendo poi per accordandosi fra loro e con un Asad congelato se lasciava spazzare un buon tratto di milizie kurde del cosiddetto Rojava dai carri armati di Ankara. Senza ripercorrere tutto il conosciuto - la caduta del Daesh, il rilancio dello Stato di Damasco che vive sotto la tutela di Mosca e Teheran - i riesumatori di certi gruppi jihadisti (Hayat Tahrir Sham non s’era mai mosso da Idlib e dintorni nonostante la “riconquista”) innescano l’ennesimo Risiko bellico aprendo nuove scatole cinesi sulla pelle del popolo siriano.
Non è solo la Turchia erdoğaniana, che pure ha da tempo un confronto egemonico regionale con la Persia degli ayatollah amica di Asad e di Hezbollah libanese, a nutrire l’odierna avanzata delle milizie salafite su Aleppo e ancor più giù su Hama, Homs, fino al sogno di Damasco. Nella “macelleria siriana” l’antico fronte jihadista aveva egualmente in Riyad e negli emiri qatarioti procacciatori di petrodollari trasformati in petroarmamenti. E gli autoproclamati persecutori del terrorismo planetario residenti alla Casa Bianca, prima di guerreggiare con mujaheddin afghani e qaedisti sauditi li avevano finanziati. Ora affinché le vittime, tre-quattrocento, del battagliero HTS non debordino bisognerebbe ristabilire quell’argine combattentistico sostenuto nei periodi trascorsi da Pasdaran, Hezbollah, Unità di Protezione kurde le prime due ritirate nei luoghi d’assalto d’Israele, le altre smobilitate e limitate dagli accordi della diplomazia internazionale. Visto che i legittimisti, alawiti o meno, nelle fila dei bashariani si sono liquefatti davanti all’arrembaggio dei miliziani di al-Jolani, già dato per morto sotto le bombe russe, ma senza riscontro alcuno. Così in questi frangenti si vive nella vaghezza degli eventi che possono diventare tragici, sebbene le agenzie battono notizie che loro, i jihadisti, promettono di non toccare civili, né religiosi (ai francescani di Pro Terra Santa in Aleppo, intenti a panificare per la popolazione, è stato distrutto il tetto, ma dagli anti jihadisti russi). I nuclei salafiti però bruciano immagini di Asad e pure di Öcalan, tanto per ribadire chi non possono sopportare. Il presidente siriano potrebbe finire il suo regno se quella che per ora è schermaglia fra gli omologhi russo e turco giungesse a un accordo sul futuro. Tenendo il governo siriano sotto protezione e inserendo l’ultimo rampollo del clan, il capo delle inquietanti Forze Speciali sempre in prima fila nelle repressioni interne, il cinquantaseinne Maher Asad. Si dice si adatti più all’azione che alla politica, ma il fratello oftalmologo, che non primeggiava in nessuno dei due ruoli, è in sella da quasi un quarto di secolo.
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