martedì 27 febbraio 2024

Gaza-Cisgiordania, nuovi politici per un futuro

 


I richiedenti cibo, facce della sofferenza dell’anima prima che dello stomaco, vagano nella ‘Casa della fatica’. Questo vuol dire in arabo Beit Lahia, a nord di Jabalya, Striscia di Gaza. E quella gente piombata dalla feroce precarietà sedimentata nel tempo, alla lotta per la sopravvivenza minata dalla voglia d’uccidere d’Israele, uccidere con le armi di un esercito occupante e con la perfidia di civili che bloccano sul confine i camion alimentari, poco sa del resto. Di ennesime trattative internazionali – Cairo, Doha e sulle linee telefoniche dei Grandi – e di notizie prossime: le dimissioni di tal Mohammad Shtayyeh, economista, politico, uomo del clan dell’Autorità Nazionale Palestinese che sembrerebbe accettare la sorte disegnata per un domani, incerto nel percorso e nei tempi. Ristabilire il ruolo di rappresentanza, quello che Abu Mazen, tanto utile al ventennio in cui Tel Aviv ha praticato l’avvelenamento esistenziale spingendo centinaia di migliaia di coloni in Cisgiordania, ha tenuto congelato. Un processo che al di là dello sviluppo delle trattative per lo scambio di prigionieri, Hamas dovrebbe accettare. Rimescolare le carte politiche di quel che resta della presenza palestinese nei Territori occupati, misurarsi elettoralmente con Fatah, cercare un futuro sebbene disastrato dalla persecuzione bellica che azzera ogni autodeterminazione, frustrando qualsiasi progetto. Eppure se questo passo dovesse compiersi mostrerebbe il fallimento del piano di cancellazione del gruppo islamista su cui tuttora insiste il premier Netanyahu. I 144 giorni, e quelli che seguiranno, di assedio della Striscia producono un ridimensionamento militare di Hamas, non la sua scomparsa. Anzi, la presenza a ogni trattativa di suoi esponenti ne conferma vivacità e legami internazionali a tutto tondo. Ulteriori tappe, chissà se elettorali, potrebbero rivelare trame per isolarlo, né è chiaro lo spazio d’intervento politico di frazioni minori della Jihad palestinese. Ma un futuro, se possono immaginarlo i milioni d’intrappolati a Gaza insieme ai fratelli egualmente tenuti sotto tiro in Cisgiordania, un futuro politico per quegli occhi che hanno conosciuto mesi di morte e inenarrabili sofferenze risulta  alquanto straniante. Irto di questioni e domande. Chi difende oggi la causa palestinese? Chi lo fa realmente fra combattenti e politicanti di casa? Chi fra i Paesi arabi più amici del sionismo oppressore che dei piedi ignudi, della pelle aggredita dalla scabbia, delle viscere svuotate dalla dissenteria, visto che bisogna diffondere morte improvvisa oppure lenta. Lentissima e inesorabile. I settantasei anni di un’agonia protratta, passata per i campi profughi, lacerata nell’atomizzazione d’un popolo che Israele vuole dissanguare con l’ausilio dei suoi alleati, parecchi dei quali parlano la lingua di Maometto e seguono la sua fede, ha fermato il tempo sulla costante della sofferenza infinita. Se la politica palestinese riuscisse a trovare uomini adatti ai reali bisogni della gente, quei poveri occhi già sarebbero meno smarriti. Poi tutto continuerà a dipendere dalle volontà dei carcerieri israeliani. Ma almeno non si sarà rappresentati da loro complici.

 

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