lunedì 23 agosto 2021

Resistenza afghana, leoni e cuccioli

Si fa un gran parlare di resistenza afghana, di possibile organizzazione, di necessari aiuti - d’uomini e mezzi - per sbarrare la strada al nuovo regime talebano. Tutto giusto, tutto possibile ma per non scambiare i desideri con semplici velleità non andrebbe dimenticato qualche particolare. Primo. Quanto sta accadendo da metà agosto nel travagliato Paese è il frutto di scelte compiute dalla potenza che ha guidato il ventennio d’irrealizzate trasformazioni socio-politiche e anche militari. Secondo. Un pezzo della diplomazia mondiale (Russia, Cina, India, Pakistan, Iran, Turchia) che ha osservato a Doha e Mosca gli sviluppi di accordi e colloqui valuta l’oggettività dell’attuale situazione al vertice della nazione afghana. Terzo. Per sostenere il corposo flusso di persone che vuole allontanarsi dalla restaurazione talebana alle strutture statali e non dell’Occidente che stanno provvedendo all’evacuazione, potrebbero aggiungersi organismi delle menzionate potenze che approvano il nuovo corso afghano, ma quest’ultimo resta una soluzione condivisa. Sul fronte della presunta resistenza, per ora, è in atto quello che può definirsi un sostegno morale, supportato da prese di posizioni come quella dell’intellettuale francese Bernard-Henri Lévy, di cui il quotidiano La Repubblica riporta un’intervista telefonica. Oggetto dell’attenzione del filosofo non è il manipolo, di cui pure nei mesi scorsi s’è parlato, del ‘comandante spada’ Alipoor che ha organizzato un gruppo realmente armato nel distretto Behsud, nel Maidan Wardak.  La ricerca resistenziale investe il figliolo d’un famoso mujaheddin degli anni Ottanta, poi signore della guerra dei Novanta: Shah Massud. Al di là del noto cognome e dello stesso nome Ahmad, padre e figlio hanno storie molto diverse. Attendersi dall’odierno trentaduenne erede, che fino a un anno fa di tutto s’occupava non certo di guerriglia, zampate da leone come quelle paterne sembra narrazione di fantapolitica. 

 

Oddio nella recente intervista, un’altra gliela fece di persona nel maggio scorso con tanto di foto-ricordo, Lévy insinua vari dubbi. Innanzitutto quelli di trattative per una resa. Cui Massud junior risponde sdegnato: “resa è una parola che non esiste nel mio dizionario”. E sia. Quindi le incertezze nutrite dagli stessi possibili sponsor europei d’una resistenza a sua guida. Ma fra i ricordi paterni, i suoi insegnamenti diretti e i tanti indiretti, il mito vissuto e rimasto intatto nel Panshir e altrove, la chiacchierata funge da sostegno mediatico a qualcosa cui l’ex ragazzo che amerebbe la pace (lo dichiara lui stesso) si trova attaccato addosso. Il suo nome è un richiamo, la sua persona un simbolo, entrambe vengono usate, chi vorrà opporsi con le armi ai taliban potrebbe trovare forza in questa missione che appare impossibile. Finora il figlio di cotanto padre si ritrova al fianco soggetti poco raccomandabili come Amarullah Saleh. Presidente in pectore di quello Stato di fuga incarnato da Ashraf Ghani, ma anche suo collaboratore se non nelle ruberie, certamente nelle angherie rivolte a miliziani e cittadini sospettati tali, dunque anche molti civili senza colpe. Finiti nelle galere dell’Intelligence diretta da Saleh stesso e torturati. Anche sulla santificazione compiuta su Massud padre ci sarebbe da riflettere. Un’esaltazione compiuta non solo dai tajiki, ma da molta propaganda occidentale che ne sosteneva l’abilità guerrigliera. Non ultima la stampa con cui Shah Massud amava conversare, cosa che gli costò la vita con l’attentato organizzato da jihadisti di Qaeda, giunti al suo cospetto con telecamere imbottite d’esplosivo. Accadeva alla vigilia dell’attacco alle Torri Gemelle. Dell’invidiabile carriera di Massud senior, è stato sempre celato il lato oscuro che non lo fa diverso per massacri verso la popolazione afghana durante il quadriennio di guerra civile pre-talebano (1992-96). Anche le sue artiglierie vomitarono bombe sui kabulioti durante l’assedio posto alla capitale da varie fazioni islamiste in lotta per il potere. 

 

Se Hekmatyar si guadagnò il poco invidiabile epiteto di macellaio di Kabul, Massud, Dostum, Sayyaf, Khan non furono meno coinvolti nella guerra di tutti contro tutti che spianò la strada ai turbanti ‘pacificatori’. Però per dare al vero leone del Panshir la fama guadagnata sul campo - nel corso della jihad di resistenza contro l’Armata Rossa - è utile rileggere qualche passo d’un coriaceo inviato di guerra che più volte ne raccolse direttamente i racconti e ne descrisse le gesta: Ettore Mo. “Lo incontrai per la prima volta nell’aprile ’81. Ahmah Shah Massud era già un comandante leggendario dei mujaheddin, lo chiamavano il “Leone del Panshir”. Era la sua valle, ci era nato e vissuto da ragazzo prima di andare a Kabul, dove aveva frequentato il liceo francese e, più tardi, l’università. Era bravo a scuola, anzi brillante. Ma non prese mai la laurea, di architetto, era una testa calda, un carbonaro. Come Gulbuddin Hekmatyar, l’altro ingegnere mancato, e come tanti studenti della buona, media borghesia afghana, non condivideva gli obiettivi del regime socialista e modernamente filosovietico di Daud… Risalendo la valle, che man mano abbandonava i grandi spazi verdi per contrarsi e contorcersi in cupi e angusti camminamenti, si poteva constatare che qui la guerra era stata più intensa e violenta che altrove: più che nelle province di Paktia e Nangarhar, più che la vallata del Kunar o sulle montagne e nei deserti del sud-ovest, dove pure avevo camminato. I relitti, le carcasse di autocarri e autoblindo, carri armati T-54 e T-55 sdraiati sul dorso, pale di elicottero e ponti di ferro montati su camion erano sparpagliati ovunque al margine della strada e sulle scarpate del fiume Panshir: a conferma del prezzo durissimo che gli sciuravì (definizione locale dei sovietici, nda) avevano dovuto pagare, già dai primi tentativi, per la conquista dell’importante bastione strategico a nordest di Kabul…” 

 

La prima volta – disse – i russi ci aggredirono con abbondanza di mezzi corazzati, circa cinquecento tra carri armati e veicoli militari, più una quarantina di elicotteri Gunship Mi-24. Nell’attacco persero la vita cinquecento soldati sovietici: dalla nostra parte, le vittime furono ventotto, di cui solo quattro guerriglieri. Come sempre, fu la popolazione civile a pagare il prezzo più alto. L’insuccesso della prima offensiva consigliò lo stato maggiore dell’Armata Rossa di aumentare uomini e mezzi. E infatti nel secondo attacco, quello estivo, blindati e automezzi erano circa ottocento, mentre era stato ridotto della metà il numero di Mi-24. Ma anche le perdite furono pesanti. Circa tremila i russi e i governativi uccisi, mentre noi abbiamo avuto centocinquanta morti tra i civili e venticinque mujaheddin. La terza offensiva dell’80 fu la più lunga di tutte, prolungandosi nell’81. Gli sciuravì non avevano fatto economie ed erano arrivati a fondo valle con millesettecentocinquanta mezzi corazzati, carri armati, trasporto truppe, autoblindo, camion, trattori, cucine da campo. C’erano in tutto quindicimila soldati, tra sovietici e governativi. I russi persero circa duemila uomini. I nostri martiri furono quindici. Precisa Mo: Quasi certamente, quei conteggi peccavano per eccesso, ma ogni possibilità di verifica era impossibile. I russi non lasciavano mai i loro morti sui campi di battaglia. Raccolti e imballati, venivano riportati in patria nottetempo, nel ventre degli Ilyushin, per evitare che la gente sapesse qual era il costo effettivo della guerra in Afghanistan…. Cerchiamo di avere il minor numero di martiri possibile - disse Massud sempre sorridendo - mentre vorremmo che ce ne fossero tantissmi dall’altra parte. Ma i miei uomini sono preparati, conoscono la tecnica della guerriglia. Dall’anno scorso qui a Bazarak funziona una scuola di addestramento militare, abbinata a corsi di preparazione religiosa e culturale”. Non basta farsi fotografare con un pakol sul capo per assumere il piglio del leone…

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