Máxima
Acuña ha nel Dna la dignità, la determinazione e il coraggio della sua stirpe
contadina. Non è più giovane, ha quattro figli ed è anche nonna. Vive nel nord
peruviano e lì ha difeso la propria terra, Trogadero Grande, contro i
conquistadores dei nostri tempi, due compagnìe minerarie: la statunitense
Newmont e la locale Buenaventura. E’ diventata celebre perché le hanno dato una
sorta di Nobel per l’ambiente che si chiama premio Goldman, il motivo è una
caparbia lotta a difesa del territorio, ora ricordata da alcune testate
sudamericane. Nel 2010 Newmont e Buenaventura promettevano agli azionisti un
nuovo Eldorado scavando in Perù oro e rame. Avevano sottoscritto accordi con
gli amministratori della regione per attuare il progetto Yanacocha e, l’anno
seguente, si presentarono davanti alla casa rurale di Máxima. Dovevano scavare
su quei possedimenti e pensavano che la donna, contadina analfabeta, accettasse
ogni offerta. Perciò la sollecitavano ad andarsene e lasciare campo libero a
scavatrici e minatori. Lei li guardò negli occhi e non disse nulla. Poi osservò
lo specchio della Laguna Azul, che sorge nella valletta sottostante la sua casa,
e scosse la testa.
Non ci
stava a lasciare i luoghi che gli avi avevano amato e curato e disse no. Secondo
le aziende se ne sarebbe pentita presto. Passò qualche settimana e in quella
casa arrivarono uomini armati, minacciarono tutti, bimbi compresi, chi
protestava veniva picchiato. Li spinsero via, distrussero l’abitazione e quel
che c’era attorno. Non contenti della violenza i manager delle compagnìe
inoltrarono azioni legali, portarono Acuña davanti a una corte che l’accusò di
occupazione illegale della terra.
Seguirono multa e prigione. Tre anni tre di reclusione. Veniva giudicata
colpevole di ostacolare uno dei maggiori piani di scavo approvato dal governo
di Lima con la denominazione nuova miniera Conga. Nei ricordi di Máxima pesano
anche i maltrattamenti subìti dalla polizia e l’accusa, infamante, di ostacolare
il bene della nazione poiché la protesta, presa a cuore dagli ambientalisti che
iniziarono a difenderla, avrebbe allontanato la Newmont e i suoi capitali dal
Perù. Il caso assumeva un’eco nazionale, la solidarietà di Ong locali e
internazionali portarono nel 2014 alla cancellazione della condanna, seguì il
blocco degli scavi attorno alla sorgente della Laguna Azul.
Eppure
non era finita. La caparbia contadina continuò a essere minacciata e molestata
dalle guardie armate delle ditte, la rincorrevano, le uccidevano gli animali. Le
circondarono la casa che la famiglia aveva ricostruito con staccionate, uscita
di prigione le ricreavano un’altra galera che loro controllavano a distanza. Lo
scontro crebbe ancor più, interessava lo sfruttamento dei giacimenti andini, ma
anche la preservazione d’un territorio in parte incontaminato, in un Paese che
vanta un’antichissima civiltà del passato. Alle cronache tornava un tema che
negli ultimi anni ha visto l’uccisione di decine di attivisti dei diritti
proprio in quella nazione, colpiti dal banditismo delle multinazionali dello
sfruttamento del sottosuolo, complici gli stessi governi. E dove non c’entrano
scavi e miniere il suolo è egualmente straziato da altri interessi. Il fronte
ambientalista ricorda la personalità di Chico Mendes, il raccoglitore di
caucciù e poi sindacalista brasiliano, che spese e perse la vita a difesa di
quella foresta amazzonica in cui era nato e che amava. La vicenda di Acuña ha,
fortunatamente, preso altre vie. Lo sfruttamento della terra resta, ma non
soffoca la voglia di libertà.
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