
Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra
faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo
del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente
stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha
aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più
corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali
turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità
sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è
previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario
della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale
che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la
sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico
che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati
per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed
Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva
Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva,
assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la
rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza.
Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di
fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli
analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli
acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico
da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’
pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate
spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo
un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione
ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda
stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre
ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi.

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di
rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto
di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna
riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla
persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude
Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà
sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India,
rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio
Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh,
e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da
soli fanno un quarto della cittadinanza globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico
che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan,
perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di
grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco
ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale
quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil.
Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per
ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori,
da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le
petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici
per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della
Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere
per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso
vale per la Turchia erdoğaniana, liberata
dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per
gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande
Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle
infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza
e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della
bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e
azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto
collo, ma tant’è.