lunedì 1 settembre 2025

L’altro organismo

 


Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva, assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza. Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’ pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi. 

 

 

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India, rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh, e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da soli fanno un quarto della cittadinanza   globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan, perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil. Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori, da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso vale  per la Turchia erdoğaniana, liberata dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto collo, ma tant’è. 

giovedì 28 agosto 2025

Sepolti vivi

 


Fra i sepolti vivi nelle carceri mediorientali i prigionieri egiziani, dall’epoca del golpe bianco di al Sisi, hanno un privilegiato posto di dannazione. Sono oppositori, islamisti e laici, che superano la metà degli ‘ospiti’ delle locali galere stimati in oltre centoventimila nell’ultimo censimento del 2021. Gli appartenenti alla Fratellanza Musulmana, che nella rivolta anti sistema e anti Mubarak del 2011 risultarono i più organizzati, lesti e scaltri fra le formazioni politiche ad accaparrarsi il potere (vincendo comunque legalmente le elezioni col partito Giustizia e Libertà), hanno poi riempito in gran numero le celle delle antiche e terribili strutture come Tora, e le nuove creazioni stile “Badr Correctional and Rehabilitation Center”, collocato a 70 km dalla capitale, di cui il regime militare e i sostenitori sauditi e statunitensi vanni fieri. In questi complessi di costruzione recente e tecnologica può accadere che manchi l’energia elettrica per un numero imprecisato di ore, fino a un’intera settimana. Un atto voluto, denuncia un’associazione dei familiari, una coercizione collettiva che lascia i reclusi al caldo e al buio, nell’impossibilità di avere accesso ai turni d’aria per via delle porte automatiche bloccate, gli impedisce di cucinarsi del cibo in proprio, peraltro già ridotto nelle forniture che non possono essere distribuite dai parenti le cui visite finiscono per essere proibite con un’assoluta discrezionalità. La resistenza fisica e psicologica degli internati non è affatto scontata. C’è chi si lascia andare fino a tentare il suicidio e c’è chi irrimediabilmente lo pratica. Ong straniere che non possono più lavorare nel Paese arabo hanno denunciato tali condizioni di particolare oppressione e disumanizzazione; lo fa anche qualche intellettuale impegnato nella difesa dei diritti umani, lo scrittore e analista politico Mohamed al Sayed è fra i più attivi. Però nulla si muove. 

 

 


Fra i detenuti politici più colpiti c’è la categoria dei figli dei leader, in tanti casi agguantati dai militari solo per ragioni anagrafiche. Anas al Beltagy, figlio di Mohamed ex parlamentare della Fratellanza, è dentro da undici anni, molti dei quali trascorsi in isolamento. Un’istanza internazionale ne ha sottolineato i pericoli per la sua incolumità, poiché respingere all’infinito la richiesta di visite a un detenuto può incidere sulla sua possibilità di sopravvivenza, sostengono gli avvocati. Mohammad Khairat al Shater, il businessman della Confraternita per la sua attività d’imprenditore oltre che per le competenze ingegneristiche, è stato fra i primi arrestati della controrivoluzione di al Sisi, prima dello stesso presidente Morsi. Le autorità militari lo prelevarono il 5 luglio 2013 sebbene fosse un parlamentare di Giustizia e Libertà.  Sua figlia Aisha e il di lei marito, l’avvocato Horeira, sono anch’essi custoditi nella terza struttura del mega carcere di Badr, condannati a quindici anni. L’unica motivazione è la parentela col l’ex onorevole islamista. Se fra i detenuti comuni, periodicamente ci scappa qualche liberazione, i politici devono sudarsela. Ne sa qualcosa Alaa al Fattah, la cui madre, Laila Soueif, nonostante l’età inanella scioperi della fame a rischio della sua vita. I politici islamisti non possono nutrire speranze di redenzione da parte del regime che, appunto, ne perseguita gli stessi familiari. E per rilanciarne e prolungarne la reclusione inventa accuse per alimentare un processo infinito, simile a quello che negli anni scorsi bloccava la scarcerazione dello studente cairota-bolognese Patrick Zaki. La macchia di Zaki era la critica alla coercizione egiziana, ma i fratelli e le sorelle musulmane sono molto più odiati dalla lobby delle stellette: il loro islam politico dev’essere sotterrato e i loro corpi murati. Che serva da esempio a chi pensasse di riprenderne il pensiero.  

lunedì 25 agosto 2025

Israele, viva la morte

 


Ore undici. Ospedale Nasser di Khan Yunis. Israel Defence Forces colpisce con un missile il quarto piano della struttura sanitaria. Ci sono vittime. Una decina di operatori intervengono su una scala esterna per prestare soccorso ai feriti dalle schegge, si vedono un fotografo, dei cronisti. Passano alcuni secondi. Mentre il gruppo lavora al soccorso magari ciascuno immagina di poter essere comunque un bersaglio. Tutti prestano aiuto, come non potrebbero... Nella carneficina ordinata da Israele lungo l’intera Striscia, ognuno aiuta l’altro. Eppure l’essenza assassina dell’esercito della morte impone la propria logica al manipolo della vita e puntuale giunge un secondo missile che deflagra squassando i dieci soccorritori, smembrando quei cuori che assistevano chi era già stato colpito. Schegge, calcinacci, fumo, polvere. E urla strazianti. Sotto, la fuga di chi partecipava moralmente al sostegno da offrire a sorelle, fratelli, cittadini cui lo Stato ebraico ruba terra, vita, futuro volendoli cadaveri o profughi eterni. Nelle esplosioni vengono assassinate venti persone, gli ennesimi abitanti senza pace, gli ennesimi giornalisti cui Israele impone viscidamente la morte per sotterrare con loro la temuta verità sul suo disegno genocidario. Ne ricorda i nomi Middle East Eye che perde i collaboratori Abu Aziz, attivissimo sin dai primi giorni degli assalti avviati dall’Idf e il suo collega Salama. Oltre a loro vengono uccisi: Mariam Dagga, giornalista freelance che ha lavorato con Associated Press, Moaz Abu Taha della NBC, Hussam al-Masri fotoreporter dell'agenzia Reuters. David Hearst, caporedattore di MEE, è disperato. 

 

 

Considera Aziz e SalamaCronisti eccezionali, capaci di lavorare in condizioni impossibili” prima d’essere maciullati da Israele. "Aziz aveva il dono di vedere cose che gli altri non riuscivano a vedere e descriverle in modo dettagliato - aggiunge Hearst - Non potendo nascondere la verità sul genocidio che sta perpetrando a Gaza, Israele sta uccidendo quante più persone possibile. Quello che fa è terrorismo praticato da uno Stato”. Nella trappola per soccorritori, col doppio missile che va a martoriare chi presta aiuto quale secondo bersaglio, ricorda gli attentati dello Stato Islamico, fra Siria e Afghanistan. Accadeva a Kabul nel 2018, quando impazzava la strategia dell’orrore imposta dall’Isis-K in funzione antitalebana, oltreché antigovernativa. Era una mattanza per il controllo del territorio, con ampio utilizzo di kamikaze. E soprattutto con bombe che esplodevano fra le braccia dei soccorritori e dei giornalisti accorsi a documentare. Ce ne fu una serie di questi vili agguati, morivano giovani reporter, validissimi fotografi, che mostravano quella guerra solitamente tenuta celata da chi la pratica. La logica del caos, del sangue innocente e copioso da far sgorgare a fiumi per terrorizzare, s’accompagna all’intento di tacitare la realtà, offuscarla con proclami di propaganda, imponendo non solo il veto all’informazione internazionale, ma applicando lo stragismo alla libera informazione di quei palestinesi che dal proprio territorio ridotto a disastro totale praticano audacemente una militanza dell’informazione. A tutti i costi. A costo della vita. Perché un’esistenza schiacciata sotto il giogo impositivo dei crimini reiterati da Tel Aviv, protetti da Washington, ignorati da Bruxelles è una non vita. Denunciarlo è un dovere, come professionisti della notizia, come cittadini d’un popolo che subisce un genocidio, come giovani appassionati della vita, capaci di lottare in ogni modo contro chi, alla maniera dei falangisti d’un tempo, gli sbatte in faccia il suo lugubre: “Viva la morte”.  

 

 

giovedì 21 agosto 2025

Pakistan, diluviano attentati

 


Se il dramma periodico, incrementato dal cambiamento climatico, è tornato a essere la turbolenza delle inondazioni che in queste settimane mietono morti a centinaia e avevano provocato milioni di sfollati nell’ultimo triennio, l’inquietudine del potere pakistano resta l’impatto jihadista sulla società. Ci pensano e ne discutono i vertici politici e militari, in diverse circostanze scarsamente collaborativi fra loro, con uno strapotere di quest’ultimi capaci d’influenzare e imporre svolte clamorose pur sotto la maschera parlamentare. Ne sa qualcosa l’ex premier Khan ostracizzato dall’esercito e vittima di processi per corruzione, reale o presunta, da parte della magistratura. Ora i rapporti fra l’attuale capo del governo Shehbaz Sharif e il capo di Stato maggiore Asim Munir paiono filar lisci in funzione d’un fronte comune antiterrorista. Perché gli stranoti Tehreek-e Taliban, il gruppo Hafiz Gul Bahadur, i separatisti dell’Esercito di liberazione Baloch usano il precario equilibrio regionale per condurre attacchi e intensificare operazioni davanti a squilibri e crisi che pongono Islamabad in acerrima concorrenza con Delhi o nell’intento d’influenzare chi comanda a Kabul, solo per citare i confini prossimi. E’ un dato di fatto che con la guida talebana i fratelli e i gruppi jihadisti d’oltreconfine hanno goduto di tolleranza e aiuti in diverse province afghane, dove si sono rifugiati per ripararsi dalle retate delle Forze Armate prima del generale Bajwa poi di Munir, fino a potersi riorganizzare e addestrare per rilancare assalti a strutture militari e civili in Pakistan. La loro logica continua a essere destabilizzare la sicurezza, dimostrare l’impossibilità di controllo in territori che ribollono di contraddizioni sociali e una visione dell’islam differente dai canoni statali. Un attivismo attentatore non dissimile da quello praticato dall’Isis-K dentro dell’Emirato afghano. Secondo valutazioni di analisti del jihadismo globale l’odierno TTP rinvigorito in Afghanistan può contare su 6-7.000 miliziani capaci di combattere anche con armamenti tecnologicamente avanzati, acquisiti  dall’arsenale che l’Us Army ha abbandonato con la ritirata dell’agosto 2021. Armi in certi casi trasportabili in casa e utilizzate nelle località prescelte per gli assalti. 

 


La linea su cui s’è orientata la leadership di Islamabad d’ogni colore, i partiti dei clan Sharif, Bhutto e anche gli alternativi di Khan, punta a evitare sanguinose repressioni interne simili alla famigerata Zarb-e Azb di metà 2014, quando il Waziristan del Nord, area d’origine prediletta dai TTP, fu messa a ferro e fuoco, con esecuzioni sommarie di miliziani (ne vennero eliminati un migliaio) e uccisioni di oltre duemila civili fra loro familiari e coabitanti. Ne seguirono un’evacuazione forzata di circa un milione  di persone, squilibri sociali con ricadute politiche e confessionali. Insomma alla lunga il ‘terrorismo statale’ non ha pagato, sebbene avesse parzialmente tamponato la diffusione jihadista. Nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa partiti laici come l’Awami e la storica formazione islamica deobandi Jamiat-Ulema-e Hind s’oppongono fermamente al ritorno della forza bruta per inseguire una sicurezza sociale che poi oggettivamente sfugge. Certo, agenti dei Servizi interni sempre in odore di doppiogiochismo, certificano come nell’ultimo biennio i favori dei taliban afghani sono stati molti e hanno rivitalizzato varie formazioni, oltre alle citate sono ricomparse le sigle di Lashkar-i Islam, Inqilab-i Islami che sacrificano meno uomini d’un tempo servendosi per gli attentati di droni, quindi gli stessi strumenti o roba simile a quella che perseguita il jihadismo. Peraltro questi droni non sono autoprodotti, provengono dal mercanto internazionale della tecnologia di guerra. Sulla copiosa ricomparsa di tale  destabilizzazione intervengono anche le potenze mondiali. Il feldmaresciallo Munir ha avuto recenti incontri con gli omologhi statunitensi, e anche il colosso cinese si preoccupa delle turbolenze pensando, come al solito, alla sua pianificazione economica. Quella del corridoio sino-pakistano che ha per acronimo CPEC, lanciato nel 2015 quando a Islamabad sedeva Sharif major, il fratello dell’attuale premier. Gli effetti, arricchiti da sessantadue miliardi di dollari, tanto è il business che gira attorno a questo percorso avrebbero ricadute positive anche sul vicino Afghanistan. Perciò questa settimana i ministri degli Esteri Wang Yi e Ishaq Dar, provenienti da Pechino e Islamabad, e Amir Muttaqi, padrone di casa a Kabul si sono incontrati per rilanciare il piano in base a un clima politico esente da contrasti fra gli Stati e logoramenti terroristici. Le preoccupazioni cinesi sono d’ordine strutturale, riguardano la certezza di poter usare infrastrutture e manodopera senza incappare in attentati. I gruppi separatisti del Balochistan preoccupano più d’ogni altro, poiché non solo attivisti ma gli abitanti locali considerano le maestranze cinesi predoni delle loro risorse. Le statistiche del 2024 fornite dall’Istituto internazionale di studi sulla sicurezza sono esplicite: gli attacchi sono aumentati del 5%, i decessi del 121%, i ferimenti dell’84%. Ed è difficile che l’affarismo placherà il credo jihadista che si nutre d’altro e si finanzia per vie diverse.

lunedì 18 agosto 2025

Morti o profughi

 


Lasciare Gaza city “volontariamente” chiede un pezzo di Israele, il pezzo maggioritario, i nove milioni che attivamente o stando a guardare garantiscono a Netanyahu di proseguire gli eccidi contro il milione che chiede il rientro a casa di Tsahal. Chi non scende in strada sta col governo sterminatore? Beh sì, secondo una parte ulteriormente minoritaria dei manifestanti, la componente pacifista a prescindere, mentre gli altri contestatori del premier vogliono il recupero dei prigionieri tuttora detenuti da Hamas. Poi della Striscia rasa al suolo, per loro, sarà quel che sarà. Invece, al Kiryat Hameem pensano al futuro secondo il mai archiviato piano di evacuazione di chi abita da millenni quella terra, un termine dai contorni chiari e storicamente tragici per molte etnìe, compresa quella ebraica: deportazione. Per la ritrosia dei vicini Egitto e Giordania -  che comunque in base alle logiche del compenso economico, militare, geopolitico non restano esclusi a priori dall’ingrato compito di carcerieri per delega - si rincorrono le alternative africane e asiatiche. Sì, si pensa di collocare migliaia di famiglie, oltre due milioni di persone, per salvarle, proprio così, da bombe e fame, in Libia, Sud Sudan, Somalia. E poi in alcune delle migliaia di isole indonesiane. Migliaia e migliaia di chilometri dalla terra natìa, lontano dalla propria storia, cultura, tradizione. Al desiderio di cancellarne il rapporto ancestrale col passato che fa dei palestinesi un ceppo semita lavorano i sostenitori del disegno politico del Grande Israele, che non nasce certo con Netanyahu, ma che lui sposa e sostiene col sollazzo degli alleati ultraortodossi di governo. E’ un moto che si trascina l’idea della totale sottrazione della Cisgiordania agli abitanti di quei territori, occupati nell’ultimo sessantennio per mano militare dall’Idf, e da oltre trent’anni dalle armi dei coloni messianici e non. Eguale strategìa riguarda la fascia meridionale del Libano, l’occidente siriano, tutto rimescolato dai venti di guerra regionali e interni rinfocolati da vari attori, con vantaggi strategici solo per alcuni e disastri umanitari per milioni di cittadini ridotti a profughi. 

 

La condizione di fuggiasco ed esule, consigliata e imposta, ai gazawi in alternativa alla morte certa sulla propria terra, segue la persecuzione stabilita con fasi periodiche nelle quali il ceto politico d’Israele meditava l’espulsione o la galera di fatto per la gente della Striscia, impossibilitata ad allontanarsi, tenuta in uno spazio limitato con privazioni esistenziali crescenti viste le periodiche e sempre più atroci operazioni belliche e inumane. Così, per rassicurare la società ebraica raccolta in Medioriente i gazawi dovrebbero finire in situazioni geopolitiche ulteriormente turbolente, in Stati falliti come l’attuale Libia, dove sette milioni di abitanti prevalentemente islamici si barcamenano fra il governo sedicente unitario di Hamid Dbeibah, che controlla il nord-ovest, e le milizie del generale Haftar padrone del Levante. Un luogo dove sono reclusi decine di migliaia di migranti subsahariani, dove spiccano centri di detenzione e tortura come la tripolina Shara al-Zawiya, dove s’aggirano criminali stupratori di nome Almasri, beneamati da governi occidentali come quello italiano perché gli contiene gli sbarchi di migranti. Oppure il Sud Sudan, in cui dieci milioni di locali che seguono riti animisti e cristiani e attualmente rispondono al presidente ex generale Kiir Mayardit, potrebbero riprendere il conflitto geopolitico e tribale con lo Stato del nord interrotto un quindicennio addietro. Per tacere della Somalia, un territorio di bande e signori della guerra che annovera disastrosi interventi di sostegno economico, ma anche militare, da parte dell’Occidente ex coloniale, capaci di offrire fiato al jihadismo di al-Shabab. Attualmente su dodici milioni di abitanti si contano quasi due milioni di sfollati interni, mentre l’esecutivo di Sheikh Mohamud, in carica dal 2012 e legato ad al-Islah (Fratellanza Musulmana), non offre la stabilità sperata a fazioni federali, unioniste, separatiste ciascuna padrona d’un pezzo della nazione macchiata da aree fuori da qualsiasi controllo ben trentun’anni dopo l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Quindi il gigante indonesiano: 290 milioni di abitanti, Islam maggioritario e altre sei fedi, Prabowo Subianto come neo premier, legato comunque alla lobby militare che col colpo di mano di Suharto (al potere dal 1967 al 1998) oscurò il nazionalismo di Sukarno emancipatore dai Paesi Bassi nel Secondo dopoguerra. Siamo ancora nell’era di trapiantare le afflizione d’un popolo sulle altrui cicatrici?

sabato 16 agosto 2025

La visita del boia

 


Non sono un terrorista, non sono neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese che difende la causa difesa da ogni oppresso: il diritto di difendermi in assenza d’ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti”.  Lo dichiarava Marwan Barghouti in occasione del suo arresto il 15 aprile 2002, quand’era in corso la Seconda Intifada, e lo statunitense Washington Post ne diffuse il concetto. Marwan è un palestinese di Ramallah e basta già questo per farlo odiare da gran parte degli israeliani, ma è molto di più d’un uomo della strada. Certo, per via s’è forgiato, ha acquisito coscienza umana e politica entrando quindicenne fra le file di Fatah. Una coscienza e un’adesione alla causa del suo popolo per le quali viene perseguitato già a diciott’anni con un primo arresto. In prigione impara la lingua ebraica, liberato ottiene da studente una laurea in Storia e una in Scienze politiche. Diventa un leader, partecipa alla Prima Intifada ed è eletto nel Consiglio legislativo palestinese finendo Segretario generale di Fatah per la Cisgiordania. Un’adesione alla linea laica del partito di Arafat, ma un distinguo sempre più marcato sancito durante la Seconda Intifada, alla quale partecipa con la componente delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, che continuano a praticare ogni tipo di resistenza all’occupazione israeliana dell’Idf e degli insediamenti coloniali, distinguendosi totalmente dal resto del partito. Per questo viene definitivamente arrestato nel 2002 e accusato d’essere il mandante di azioni svolte dalle suddette Brigate durante la rivolta. I pluri ergastoli inflittigli da un Tribunale di Tel Aviv in assenza di prove rappresentano una condanna ideologica a un politico di spicco che, nella fase della rinuncia alla lotta da parte dei vertici di Fatah, proclamava una linea di difesa della popolazione palestinese e del proprio futuro. Visti la vacuità degli Accordi di Oslo e il ben chiaro disegno d’Israele di stravolgerli a suo unico vantaggio. 

 

Barghouti ha sempre rappresentato l’esempio del palestinese, uomo della strada o militante, che non si piega ai voleri della linea ebraica - sionista o religiosa o l’attuale tendenza di sionismo-religioso - non pratica compromessi a svantaggio della questione palestinese, come fa da oltre due decenni l’Autorità Nazionale di Abu Mazen. I punti fermi della creazione d’un vero Stato in terra di Palestina e l’intesa per un diritto al ritorno su quel territorio per la consistente diaspora lo pongono fra i teorici della resistenza, dei diritti e del diritto alla resistenza, alla stregua di Hamas e della Jihad palestinese, e ne hanno serbato popolarità e stima fra la gente. Tutto questo è temuto da Israele ed è perseguitato con le operazioni d’attacco e progressivo sterminio iniziate col “Piombo fuso” del 2009 e proseguite fra la Striscia e la Cisgiordania con cadenza periodica, sino al palese piano genocidiario praticato negli ultimi mesi. E per chi sopravvive a bombe, denutrizione e malattie scientemente scagliate e incentivate, si prospetta una deportazione di massa degna della peggiore memoria storica. Ventitré anni di detenzione durissima hanno trasformato più del normale trascorrere del tempo i tratti somatici del prigioniero Marwan. Al fiero sorriso con le dita a vù che lo ritraeva al momento dell’arresto in alcuni scatti rimasti a lungo l’unica immagine disponibile d’un uomo murato vivo, irraggiungibile dagli stessi parenti e avvocati per il feroce accanimento praticato dalla “giustizia” israeliana, si contrappone il fotogramma che lo ritrae emaciato, quasi imbarazzato davanti al volto d’un tronfio e tormentatore ministro della Sicurezza d’Israele Ben Gvir. Che s’è recato nel luogo di coercizione a schernire il nemico, a provocarlo come fa con gli islamici quando passeggia sulla spianata di Al-Aqsa, a spargere sale sulle ferite fisiche e morali d’un detenuto negli ultimi tempi picchiato e torturato, questo hanno dichiarato gli avvocati. Nel silenzio di tanta libera informazione che delle condizioni di Barghouti e di troppi prigionieri si dimenticava. Mentre i familiari ormai temono per la sua incolumità. “Non ci sconfiggerai” gli ha sputato in faccia il ministro, eppure di quel volto scarno ha paura. Come dei bimbi che affama e dei cronisti che fa assassinare. 

lunedì 11 agosto 2025

Affossare taccuini oltre ai bambini

 


Chiamata ‘guerra di Gaza’ dai servizi, non quelli segreti ma dagli afferenti a una servile informazione mainstream restìa a usare il linguaggio della professione secondo il reale significato, la mattanza dei gazawi della Striscia cumula giorno dopo giorno, da seicentosettantaquattro giorni, cadaveri e dati e affianca alle 62.000 vittime 270 giornalisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Perché tutti in odio al governo Netanyahu e pure a gran parte della gente d’Israele, nonostante i distinguo di locali minoranze d’intellettuali, pacifisti e pure soldati fino ai gradi più elevati. Ma il loro dissenso poco conta, visto che perpetuare la via della morte, per bombe o per fame, è il conforto imposto dalla maggioranza ebraica e lo stato delle cose su cui un mondo, al più gemente, s’è accasciato. Gemente e di fatto impotente o volutamente indolente, che non sono solo assonanze di scrittura bensì tragica scelta geopolitica reiterata nei decenni e negli ultimi ventidue mesi giunta al fosco capolinea di un’asettica disumanità. Anche parole e immagini utili alla denuncia di quanto si riesce a sapere e vedere sull’angosciante condizione di ammassi scheletrici confusi fra terra e sacchi di poca roba giunta dal suolo o dal cielo, che sfama e schiaccia una massa ridotta all’abbrutimento, diventano scioccanti ripetizioni. Eppure il non ripetuto mai abbastanza della violenza che Israele dona all’etnìa nemica, tenuta terrorizzata per il suo presunto o voluto terrorismo, trova sempre più microfoni silenziati, penne e computer affossati assieme ai loro cronisti. Tutti palestinesi. Tutti ammazzati. Anas al-Sharif di Al Jazeera, l’ennesimo colpito,  secondo i suoi esecutori che si compiacciono dell’omicidio era una gola profonda di Hamas. “Il modello di Israele di etichettare i giornalisti come militanti senza fornire prove credibili solleva seri interrogativi sul suo intento e sul rispetto della libertà di stampa” ha dichiarato Sara Qudah, direttrice regionale del Comitato per la protezione dei giornalisti. Ah già libertà di stampa, libertà di pasto, libertà di stenti, libertà di vita davanti alla certezza della morte.