Sullo scenario delle prossime elezioni turche
continua ad aggirarsi lo spettro della sicurezza interna per quella guerra
civile strisciante che in tre mesi ha tolto la vita a un centinaio di
poliziotti e un numero imprecisato di kurdi, alcune centinaia fra guerriglieri
del Pkk, attivisti dell’Hdp e di associazioni della società civile, semplici
cittadini. La consultazione del 1° novembre potrebbe anche slittare se la
violenza dovesse aumentare e prendere un diffuso sopravvento; una tipologia di
scontro primordiale fatto di sassi, spranghe e molotov che di recente ha creato
rinnovati pogrom verso la comunità kurda, e anche assalti a sedi di media
nazionali. A gestirli i famigerati Lupi grigi, ultranazionalisti non nuovi a
simili metodi, e gli stessi militanti dell’Akp. Erdoğan e Davutoğlu nei
rispettivi ruoli hanno stimmatizzato quegli avvenimenti, ma i loro focosi interventi
pubblici contro il così definito “terrorismo del Pkk” avevano rappresentato un
innesco nient’affatto secondario. Rinunciare alla prova dell’urna per ragioni
d’ordine pubblico rappresenterebbe un grosso smacco all’immagine del partito di
maggioranza che tiene in vita un governo di transizione.
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Verrebbe a sottolineare la sua perdita
d’autorità e di controllo del territorio, elementi apparsi palesi negli ultimi
due anni nonostante l’ennesimo successo ottenuto da Erdoğan alle presidenziali
che l’opponevano a Ihsanoğlu e Demirtaș. In molti sostengono come il ‘sultano’
punti tutto su questa tornata elettorale dopo il blocco al disegno
presidenzialista riscontrato il 7 giugno. Ridimensionare numericamente l’Hdp
significherebbe riportarlo al di sotto della soglia del 10%, privarlo di quegli
80 deputati che hanno stravolto la rappresentanza nel Parlamento turco,
sottraendo al partito di maggioranza i numeri necessari ad attivare la
trasformazione costituzionale tanto agognata dal presidente. Per prepararsi
all’evento Erdoğan sa che deve controllare l’informazione sulla quale
s’appoggia l’80% dell’elettorato. L’attacco all’attività giornalistica, alla
libera stampa, ai reporter considerati avversi è in atto da tempo. Ne sa
qualcosa l’Hürriyet che s’è visto
piombare in redazione poliziotti ala cacci di cronisti e direttore e supporter
islamici sotto la sede per devastazioni. Ma un nemico dichiarato è il movimento
Hizmet, promosso dall’ormai arcinoto imam Fetullah Gülen, forte nei media (sue
le testate Zaman e Hizmet), nei contatti
economico-finanziari, finanche fra le fila di polizia e magistratura.
In questi due settori dal 2011 l’Erdoğan premier
ha fatto pesare i suoi poteri attuando un repulisti di personale fedele sia al
kemalismo, sia alla Confraternita islamista. Un puro scontro per il potere
contro i nemici fra cui è entrato l’ex sodale Gülen. Ieri l’ennesimo attacco a
suon di manette è giunto per undici imprenditori, tutti d’impronta gülenista,
di cui l’immobiliarista Memduh Boydak è il nome più noto. Un tempo agevolato
dal governo in carica, come altri impresari fedeli, e allargatosi ai settori
energetico e bancario, due rami strategici con cui la politica ama dialogare
per i benefici di ritorno. Sembra, però, che per lui la festa sia finita. E’
indagato per l’ottenimento di terreni da parte della fondazione dell’Università
di Meliksah che da Boydak viene amministrata. Un’altra faccia del conflitto a
colpi di blitz di due fazioni della magistratura che due anni addietro
incastrava Bilal, il figlio di Erdoğan, per corruzione e denaro imboscato e che
dopo la rimozione (governativa) del procuratore indagatore è rimasto in
sospeso. Come lo scontro a distanza fra il grande vecchio dell’Islam politico
turco e il suo incarnato che si combattono senza esclusione di colpi. Ciò che è
accaduto col voto dello scorso giugno rappresenta una conseguenza della lotta
di logoramento gülenista che, secondo alcuni analisti, avrebbe mangiato voti
alla creatura politica di Erdoğan per bloccare il suo golpe presidenzialista. E
la partita continua.
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