mercoledì 31 marzo 2021

Colloqui afghani, da Doha ad Ankara

Prende sempre più corpo l’ipotesi dello slittamento d’un semestre del ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Ne ha parlato informalmente il presidente americano Biden, ne hanno discusso, per ora sempre informalmente, il supervisore ai colloqui di Doha, Khalilzad e il mullah Baradar. Visto il duraturo stallo la sede degli incontri trasloca in Turchia, com’era stato annunciato tre settimane or sono dal Segretario di Stato Usa Blinken, intento a coinvolgere Erdoğan e spostarlo dall’altro tavolo di trattive per il futuro afghano, quello allestito a Mosca. Sede d’incontri cui partecipano anche osservatori cinesi e indiani, oltre a quelli di Teheran e Islamabad. Mullah Baradar non ha gradito l’ipotesi di posticipare il ritiro militare della Nato, ma da uomo di mondo ha offerto al grande mediatore la contropartita: la liberazione di altri miliziani islamici che salirebbero a 7.000 unità e la cancellazione di numerosi nomi di suoi compagni di lotta dalla lista nera del terrorismo internazionale. Tutto ha un prezzo e le trattative che, dallo scorso settembre s’erano spostate sull’accidentato terreno di quali forma e contenuto dare al futuro governo del travagliato Paese, tornano al mercato dei rimandi e delle richieste di ristoro.  E se finora s’è sempre discusso dei diecimila, o giù di lì, marines da riportare a casa, nulla si dice della presenza dei contractors, che fino a un anno fa risultavano il doppio dei militari Nato, usati in genere per i pattugliamenti pericolosi. Le agenzie statunitensi che li offrono a noleggio, dovrebbero ritirarsi anch’esse dal mercato. Mai discussa, invece, la questione dell’unico tesoro strategico che Washington s’è creato in vent’anni d’occupazione: le nove basi aeree dislocate da ovest (Herat) a est (Jalalabad), da nord (Mazar-e Sharif) a sud (Kandahar) da cui partono attacchi con caccia e velivoli senza pilota, e anche dei droni d’osservazione su territori d’ampio interesse per il Pentagono. Il nemico d’un quarantennio (Iran), l’avversario commercial-politico (Cina), l’alleato pericoloso (Pakistan), l’interlocutore acquisito (India) sono tutti controllabili tramite la tecnologia aerea che decolla da quelle basi. Trasferire in Turchia i colloqui può risultare solo un diversivo se le due componenti che hanno già da tredici mesi firmato ciò che non intendono realizzare, non sono disposte a compiere il primo passo. Le agenzie d’informazione forniscono dispacci quotidiani sugli attacchi mortali di vario genere. Durante questa settimana gli Ied hanno colpito mortalmente il capo del Consiglio degli Ulema della provincia di Takhar, e a Balkh due civili, sono rimasti feriti tre soldati  dell’Afghan National Forces e molti passanti. Un’imboscata nel Logar ha eliminato un colonnello dell’esercito di Kabul, nel distretto di Kapisa è stato freddato un membro dell’Intelligence governativa. Nel mirino dei killer (talebani o dell’Isis del Khorasan) anche diverse attiviste. La Commissione indipendente dei diritti umani lamenta l’uccisione di 14 donne e il ferimento di oltre una ventina.

 

 

martedì 30 marzo 2021

Jedi, il caccia buono che ha smesso di volare

C’è un ardente compiacimento propagandistico-patriottico, e ovviamente aziendal-tecnologico, nell’odierno articolo sul più filoamericano fra i quotidiani italiani: La Repubblica diretta da Maurizio Molinari. Dalla servitù militare Nato di Perdasdefogu, presso il poligono di addestramento di Salto di Quirra, in provincia di Nuoro, l’inviato lancia un reportage che decanta le meraviglie del bimotore C-27 Jedi (Jamming Electronic Defense Instrumentation) uno dei protagonisti della guerra elettronica utilizzato a sostegno di quelle che, da almeno due decenni, vengono etichettate come “missioni di pace”. L’articolo riepiloga minuziosamente le qualità del velivolo capace d’interdire le frequenze usate da miliziani d’ogni tendenza - ultimamente i restanti jihadisti dell’Isis, un tempo i taliban - cui l’aereo impedisce contatti radio e la possibilità d’usare le frequenze per attivare ordigni esplosivi a distanza. Una guerra elettronica dal cielo che disarma le capacità di fuoco nemiche, soprattutto se quest’ultimo non è dotato di sistemi simili… Invitando all’amena lettura lasciamo ai più avidi di scenari d’impari guerra i passaggi che descrivono come “i ‘Lupi’ gli aviatori del 98° gruppo di Pisa e i ‘Corvi’, gestori dell’apparati elettronici” s’integrano nell’esercitazione alla guerra buona, quella intenzionata a disarticolare il nemico senza colpo ferire, impedendogli di far male. Sugli schermi s’avvia un “bombardamento invisibile che si trasforma in istogrammi… Uno tsunami elettronico di onde blu che travolgono la linea rossa del segnale avversario, fino a spezzarlo” . E vai!!! Quindi il cronista-soldato Di Feo (autore del reportage) ricorda che in Afghanistan il Jedi ha compiuto tante  operazioni di tal fatta. Sul sito del nostro Ministero della  Difesa viene ricordato il momento della sua dismissione  (https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_int_concluse/ISAF/notizie_teatro/Pagine/Afghanistan_C27JJEDI_rientra_Italia.aspx).

 

Era il 2014, Jedi aveva lavorato per due anni interi, 800 missioni Isaf per 2800 ore di volo, condotte a supporto dell’aviazione statunitense che prima di sancire, con la seconda amministrazione Obama un graduale disimpegno bellico, bombardava, con ordigni veri, intere aree abitate da civili. Quando le vittime afghane, e non i miliziani talebani, diventavano ingombranti sui calcoli compiuti dagli stessi organismi delle Nazioni Unite, come l’Unama, il Pentagono e poi la Casa Bianca emanavano dispacci che parlavano di “danni collaterali” e in qualche circostanza d’errore umano, peraltro mai indagato né perseguito da nessun Tribunale, all’Aja o altrove, interessato a crimini di guerra. Certo possiamo immaginare che, fra i professionisti della guerra buona, bloccare le armi nemiche insinua se non proprio ragioni umanitarie, sicuramente pochi sensi di colpa. Niente a che vedere col ruolo  dell’impiegato della morte, che dalla sua postazione su un pc sito in Virginia o in una base aerea, magari più esposta perché lontana decine di migliaia di miglia da casa, chessò a Bagram o Jalalabad, clicca sulla tastiera dando l’input ai missili piazzati sui droni che svolazzano al posto degli aquiloni. Eppure Jedi, che è un orgoglio italico, “produzione Leonardo, mentre hardware e software sono realizzati dai militari Restorage (Reparto supporto tecnico e operativo di guerra elettronica, ndr) di Pratica di Mare”, è stato ritirato dagli scenari della guerra afghana, diversamente dagli F16, F35, E11A, Reaper che hanno continuato a seminare morte fra la gente. Ai propri lettori gli esperti bellici de La Repubblica potrebbero rivelarne i motivi.  

sabato 27 marzo 2021

Afghani, l’incubo della guerra su per il Moncenisio

Cammina, respira piano, in silenzio nel buio pesto. Il valico del Moncenisio, fra le Alpi Cozie e Graie è a oltre duemila metri. Si sale con pendenze che possono oscillare al 10%. A chi conosce le cime dell’Hindukush, alte il più del doppio di questi monti, il passaggio può sembrare uno scherzo. Non lo è comunque, perché freddo, neve, abbigliamento insufficiente, buio pesto, concitazione, paura d’essere braccati e bloccati dalla polizia di confine si sommano in uno spazio di tempo che vorrebbe sfuggire al tempo. Un gruppo dei migranti afghani ha affrontato l’ascesa in tal modo, su mulattiere rocciose, sperando d’infilarsi di soppiatto in territorio francese. Venivano dalla valle sottostante, presso la Valsusa, sfollati nei giorni scorsi da un edificio occupato da un gruppo anarchico che offriva ospitalità a individui e famiglie. Nuclei d’una migrazione trasformata negli ultimi anni, che vede partire anche giovani coppie con prole, obbligati a fuggire per sopravvivere. Scampare alle bombe dal cielo e ai camion-bomba per via, ordigni che devastano i corpi, nonostante si continui a sparlare di pace, una pace che se mai arriverà non offrirà un futuro in una nazione devastata e che la geopolitica vuol tenere prigioniera al proprio volere, impedendone un’emancipazione economica e legislativa. Gli afghani inseguono il sogno d’un domani, ormai da quattro generazioni fuggono dalla terra che amano. Fuggono dalle truppe Nato che noi continuiamo a regalargli, fuggono dai taliban e da fondamentalisti che lì hanno messo radici da decenni e da quelli nuovi, l’Isil del Khorasan che li massacra per la propria vetrina di potere. Di notte il gruppetto afghano che arrancava sulle rocce, inseguendo un reale desiderio di pace, s’è visto scoperto dal fiuto di cani addestrati per cacciare anche i bambini, cani che se ne sapessero le sofferenze smetterebbero di cacciare. I loro padroni-doganieri, in questo caso francesi, si son dati da fare per bloccare il gruppo scoperto, per non fargli varcare il confine. Respingendoli a valle. La tensione e la paura su una bimba undicenne hanno fatto il resto. Un colpo al cuore, uno alla mente ch’è volata a tre-quattro anni indietro, quando rimase traumatizzata dagli scoppi attorno casa che facevano crollare case, che infilavano nell’anima l’angoscia della fine di sé, dei genitori, di quel poco di caro che aveva in una condizione d’insicurezza assoluta. La piccola terrorizzata dal passato che non passa - che potrebbe essere attenuato solo da un repentino cambio di vita, fuori dai nascondigli dove bisogna sfuggire ai controlli di altre divise, di nuove armi spianate, una vita sperata per lei e per se stessi da giovani genitori – non ha parlato più. La madre disperata l’ha affidata a cure sanitarie d’un centro nella recuperata valle ch’è un po’ prigione, un po’ rifugio. Trauma su trauma, alla bambina afghana dobbiamo tanto, quello che ogni confine le toglie, a cominciare da quelli violati del suo Paese, dicendo che lì portiamo pace.  

venerdì 26 marzo 2021

Biden-Baradar, annunci incrociati sulla pelle degli afghani

L’accordo di Doha rappresenta la logica strada per ottenere la pace, non rispettarlo o violarlo da parte americana significherà fare i conti con la “guerra santa” per liberare il Paese”. Questo l’avvertimento che il portavoce della delegazione talebana, presente da mesi in Qatar, lancia al presidente statunitense Biden, forse - sostengono i taliban - “esposto a consigli imperfetti e istigazioni da parte dei circoli guerrafondai”. E’ un’affermazione di parte, che dovrebbe, però, essere presa seriamente dalla nuova amministrazione di Washington che invece, per bocca dello stesso presidente, ha anteposto “ragioni tattiche” per un possibile slittamento della scadenza del ritiro, lanciando nell’intervento pubblico di ieri un sibillino: “Ci ritireremo, vedremo quando. Non è mia intenzione rimanere, la questione è come e in quali circostanze applicheremo un accordo voluto dal presidente Trump”. Da parte su il Segretario di Stato Blinken sul tema chiosava: “Se lasceremo, lo faremo in modo sicuro e ordinato”. Che i diciotto e più mesi spesi attorno al tavolo di trattative diretto dal negoziatore Khalilzad possano non portare a nulla è il rischio con cui si misurano le due delegazioni che si rinfacciano il mancato rispetto di quanto pattuito: gli americani ondivaghi sul ritiro, gli studenti coranici non rispettosi del cessate il fuoco. Ma i primi fanno questioni di lana caprina su chi precedentemente ha stabilito la data del prossimo maggio, i secondi affermano che i propri attacchi non colpiscono soldati Nato, bensì le truppe afghane da essi considerate al servizio d’un governo fantoccio. I talebani hanno promesso di non offrire rifugio e sostegno a gruppi terroristici come Al Qaeda, ma da tempo le milizie che praticano attentati afferiscono allo Stato Islamico del Khorasan, e sono dunque altra cosa. Ciascuna delle parti che intende “pacificare” il Paese segue un percorso lineare, che però s’è arenato e rischia di bloccarsi, ancora una volta per il dramma della popolazione che quotidianamente resta esposta alla violenza che colpisce alla cieca, e che potrebbe addirittura aumentare se i taliban rilanciassero apertamente una nuova Jihad. Costoro hanno più volte sottolineato come nei mesi scorsi l’aviazione statunitense, intervenendo a difesa dell’Afghan National Army ha anch’essa usato la forza, colpendo villaggi e civili e seminando morte. Nei colloqui inter-afghani, in cui i turbanti si sono rifiutati d’incontrare il presidente Ghani al quale non riconoscono alcuna autorità, hanno ribadito che l’unico strumento per impostare un prossimo governo è l’applicazione d’una legislazione islamica. Nei quattro incontri svolti nel corrente mese di marzo il dibattito fra le delegazioni non ha mostrato progressi. E tanto è.  

 

 

mercoledì 24 marzo 2021

Erdoğan, un nuovo cambio di Costituzione

Al settimo Congresso ordinario del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) Recep Tayyip Erdoğan, che dovrebbe essere il presidente di tutti i turchi però continua a comportarsi come premier e capo di partito, ha annunciato che è giunta l’ora duna nuova Costituzione. “Quella attuale è un residuo dal colpo di Stato del 1980” ha dichiarato. Se è in parte vero, occorre ricordare come l’attuale Carta ha subìto un ritocco non marginale, comunque ratificato dal referendum popolare dell’aprile 2017, per volere dello stesso Erdoğan che ha investito tutto il suo peso politico per introdurre diciotto emendamenti. La possibilità di emanare decreti con funzione di legge senza il controllo parlamentare, d’introdurre lo Stato d’emergenza, di sciogliere il Parlamento, d’investire e rimuovere ministri senza il voto parlamentare, di nominare sei dei tredici membri del Consiglio dei Giudici, hanno rafforzato a tal punto il presidenzialismo turco che diversi politologi l’hanno definito un autoritarismo legalizzato. Per raggiungere l’obiettivo l’Akp fece il passo d’allearsi col partito dei ‘Lupi grigi’ (Mhp), formazione para fascista che spinge come e più di Erdoğan l’attacco alla rappresentanza kurda nelle amministrazioni locali e centrali, la limitazione delle libertà democratiche, di stampa finanche di espressione e di difesa dei diritti delle donne e delle varie identità sessuali. Si è quindi saldato un fronte reazionario non necessariamente legato al credo islamico, caratterizzato da una visione coercitiva della società e dei costumi. Eppure sulla scrittura d’una nuova Carta costituzionale, che nelle intenzioni del super-presidente dovrà fra due anni  suggellare il centenario della nascita della Repubblica, si spendono parole d’apertura. 

 

Erdoğan afferma: “Quando il lavoro degli esperti avrà raggiunto una conformità di princìpi, allora il testo concreto verrà posto in discussione agli occhi della nazione”. E aggiunge “sarà un testo costituzionale del popolo, non dei golpisti e a tutela d’un regime (sic, ndr)”. Tutto ciò è previsto per il prossimo anno, ma secondo i portavoce dell’Akp l’insieme delle riforme previste, nel settore giudiziario ed economico, copriranno un trentennio fino alla metà del secolo e oltre. Dichiarazioni che si susseguono  fra alti e bassi di annunci, che hanno visto sempre Erdoğan in due settimane promettere un ampiamento dei diritti umani e decretare l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, oltre a rimuovere il terzo ministro dell’Economia nello spazio d’un biennio. L’ultimo licenziato, Naci Agbal, cercava di porre freno al galoppo dell’inflazione che mette in ginocchio il potere d’acquisto di diverse fasce popolari anche per generi considerati di prima necessità. Il super-presidente ha la sua ricetta: vuol tranquillizzare i concittadini sostenendo che le recenti fluttuazioni finanziarie non riflettono una crisi dell’economia turca, e invita i risparmiatori che tengono in casa valuta estera e oro a investire in strumenti finanziari. Inoltre insiste sul rimpatrio di capitali (le famose rimesse di quella ch’è tuttora una cospicua presenza di lavoratori turchi all’estero) a sostegno delle finanze statali. E dal palco del partito giunge l’ennesimo richiamo paternalistico a risolvere i conflitti… (ancora puntini di stupore) per fare della Turchia un’isola di pace: “Siamo determinati a incrementare le nostre amicizie e risolvere le ostilità regionali”. Ipse dixit.


domenica 21 marzo 2021

India, la pandemia riprende la corsa

Galoppa nuovamente il Coronavirus anche nel Paese-continente indiano. Il governo centrale se ne accorge, cerca soluzioni, annaspa come quelli dell’Unione Europea, con qualche difficoltà in più dettata da sovrappopolazione e difficoltà di distanziamento nelle sue megalopoli. La ricrescita del virus, che nella settimana appena conclusa ha portato a oltre 40.000 i casi giornalieri, riponendosi nella scia d’un anno fa quando i picchi superavano i 100.000 contagi quotidiani, viene considerata una seconda ondata. Dopo i mesi di allentamento della prevenzione, della ripresa di riunioni per feste e matrimoni, delle contestazioni sociali (l’intenso trimestre di cortei degli agricoltori raccolti in decine e forse centinaia di migliaia nei dintorni di Delhi). E ancora delle celebrazioni religiose con tanto di rilancio della lotta confessionale, comprensiva di caccia all’uomo condotta dai fanatici hindu contro altre minoranze religiose, ecco che il Covid-19 riporta in ospedale tanta gente. Rassicurante il ministro della Salute sostiene che il 60% dei posti letto sono liberi, ma quel che sta accadendo nel popoloso Stato del Maharashtra che di cittadini ne conta oltre 125 milioni (la capitale Mumbai con 13 milioni detiene il record mondiale di densità di popolazione: oltre 31.000 abitanti per chilometro quadrato), dovrebbe preoccupare i burocrati del  Bharatiya Janata Party: solo lì in un giorno s’infettano ufficialmente 26.000 persone, ma coloro che non effettuano test e tamponi sono molti di più.

 

Finora il governo ha confermato 12 milioni di contagiati e 160.000 deceduti per Sars CoV2. L’opposizione, d’ogni colore, contesta tali dati e sostiene che Modi e il suo staff riducono le quote per evitare d’ammettere, non solo il flop del contenimento della pandemia, ma la stessa volontà di contrastarla adeguatamente. I grandi numeri del Paese, a cominciare dal miliardo e 380 milioni degli abitanti, sono cifre impressionanti da dover gestire per organizzazione e per risorse. Però l’approccio del Bjp è ampiamente superficiale, punta a superare le difficoltà con la decantata ‘immunità di gregge’ che si raggiungerà chissà quando e a quale prezzo. I detrattori di Modi affermano a prezzo dei tanti cadaveri velocemente cremati, non solo in relazione al rito hindu e per non creare altri focolai endemici, ma per evitare di stabilire l’origine dei decessi. Ecco le accuse rivolte agli amministratori. Sebbene l’India sia un’immensa fabbrica globale di medicinali (il tanto discusso vaccino AstraZeneca viene prodotto dal colosso Serun Institute of India, che ha sede nella grande citta di Pune, proprio nel popoloso Maharashtra e il 40% del siero inoculato nel mondo vede luce qui) in un anno il governo Modi non ha investito capitali adeguati per l’immunizzazione dei concittadini, chiedendo a quell’istituto d’incrementare la produzione anche a uso interno. 

 

Chi non prende sottogamba la situazione è Sars CoV2 che si prodiga nello sviluppare varianti, come gli scienziati del settore ribadiscono agli ondivaghi politici d’ogni latitudine. A New Delhi si consolano del fatto che le maggiori “varianti” in circolazione (inglese, brasiliana, sudafricana) siano lontane e tenute a distanza anche dagli scarsi collegamenti. Sebbene quelli aerei stiano riprendendo e l’aviazione civile indiana impone a tutti gli Stati federali di attivare i controlli e interdirli ai passeggeri che non s’attengono alle norme con una sospensione dell’autorizzazione al volo dai tre mesi ai due anni. Nei tre Stati attualmente in allarme per la pandemia: il citato Maharashtra, Kerala e Punjab, l’opposizione al Bjp fa pesare le sue critiche. Queste vengono rispettivamente da Shiv Sena, Partito Comunista, Partito del Congresso che contestano i mesi di sciagurata trascuratezza dell’esecutivo Modi. Fa specie vedere leader dello Shiv Sena lanciarsi contro il Bjp. Questo raggruppamento d’ultradestra fautore dell’hindutva, sostenitore delle caste e di comportamenti razzisti verso le minoranze etnico-religiose ha compiuto un buon tratto del percorso politico al fianco del più corposo alleato. Nel 2018 c’è stato un allontanamento, solo parzialmente lenito nelle elezioni dell’anno seguente. Pur ridimensionato elettoralmente Shiv Sena, che mirava a un’espansione nazionale, conserva nell’importante regione occidentale una corposa roccaforte.

sabato 20 marzo 2021

Turchia, via dal Trattato di Istanbul

A detta della ministra turca della Famiglia, del Lavoro e delle Politiche Sociali Zehra Zümrüt garanzie e diritti delle donne sono previsti dalla Costituzione “e il nostro sistema giudiziario è dinamico e forte abbastanza per migliorare le nuove regole di cui la nazione ha bisogno”. Così fra gli orientamenti espressi dal governo di Ankara c’è una retromarcia nei confronti del Trattato di Istanbul, voluto dal Consiglio d’Europa dieci anni or sono, che impegnava i Paesi sottoscrittori a prevenire e combattere la violenza di genere. Proprio la Turchia a guida Akp, partito cui appartiene Zümrüt ch’è figlia dell’ex ministro di Cultura e Turismo Atilla Koç, nel 2012 aveva ratificato il documento stilato nella metropoli sul Bosforo, in conformità con l’epoca delle aperture incarnate dall’allora premier Erdoğan. Seguì un suo percorso politico sempre più autoritario che, come l’oltranzismo religioso, ha gradualmente ostacolato ogni tipo di apertura. Così quella Carta dei diritti è rimasta schiacciata da costumi conservatori, impossibilitata a difendere il mondo femminile, con ricadute terribili nella quotidianità che vede la Turchia con un numero elevatissimo di femminicidi (una Ong locale ha calcolato che nel 2020 ai 300 omicidi ufficiali di donne si dovrebbe aggiungere la cifra di altri 171 decessi catalogati come suicidi). Ora s’attacca direttamente la convenzione, rea di non difendere la famiglia, favorire i divorzi, diffondere (chissà come) princìpi della comunità Lgbt. 
 

L’opposizione ufficiale di parte repubblicana (Chp) ha dichiarato con la deputata Gokcen, che s’occupa di diritti umani, che in tal modo “le donne diventano cittadini di seconda classe e rischiano ancor più la vita”. Proprio la pandemia di Covid-19, che ha imposto ripetuti confinamenti domestici della popolazione, faceva registrare un’infinità di casi di maltrattamenti e brutalità casalinghe verso mogli, compagne, figlie, sorelle e anche quando queste non raggiungevano la sciaguratezza del delitto, il clima risultava pesante. Eppure l’aria conservatrice che da anni circola nel Paese aveva già smosso l’ipotesi ora praticata, tanto che, nonostante le restrizioni sanitarie oltreché politiche, in molte località s’erano registrate manifestazioni e sit-in in sostegno delle tutele della Convenzione. Un orientamento che nei mesi scorsi ha portato in piazza contro il proprio governo un altro Paese dove il conservatorismo confessionale (in questo caso cattolico) ratifica leggi espressamente contrarie a diritti ed emancipazione femminile: la Polonia. Erdoğan, da parte sua, solo qualche settimana fa s’era espresso per un miglioramento dei diritti umani in Turchia, ma fra il suo tanto dire e il fare passano pratiche opposte come quest’uscita dal Trattato e il progetto di sciogliere i partiti d’opposizione in “odore di terrorismo”. Il bersaglio è il Partito democratico dei popoli (Hdp) che, dopo l’arresto d’un congruo numero di deputati regolarmente eletti, e appunto accusati di terrorismo, rischia la messa fuori legge.


 

 


mercoledì 17 marzo 2021

L’Egitto dei processi eterni condanna Sanaa Seif

L’impegno reiterato e crudele della Corte Suprema Egiziana e del suo dominus, il Procuratore Generale Hamada Sawy fortemente voluto e sostenuto dal presidente golpista Sisi, ha emanato l’ennesima sentenza di carcerazione. La firma il giudice Mohammed Kassab e riguarda Sanaa Seif, sorella del noto attivista e pluridetenuto Alaa Abdel Fattah. Le affibbiano diciotto mesi per aver “diffuso false notizie sul Coronavirus nelle carceri, così da seminare panico fra la cittadinanza, compresa quella carceraria (sic) e aver insultato un ufficiale”. La realtà ha visto, il 23 giugno 2020, Sanaa prelevata con la forza da un nucleo di agenti in borghese mentre si recava presso la Procura della Repubblica per depositare una denuncia. L’atto riguardava un’azione violenta subìta da lei stessa e dalla madre davanti alla prigione speciale di Tora. Entrambe avevano attuato un sit-in di protesta perché non veniva concessa loro un’autorizzazione per visitare il congiunto. Un gruppo di donne, probabilmente pagate dall’amministrazione penitenziaria, s’avvicinò alle due e prese a insultarle e percuoterle. Quindi intervennero le Forze dell’Ordine.  Sanaa è stata praticamente rapita, portata via su un minibus non identificabile anche perché privo di targa, e comunque un mezzo non ufficiale. Finì nella sede della Security Prosecution, su di lei l’Agenzia di Sicurezza Nazionale ha predisposto un dossier. 

 

L’accusa ha ordinato due mesi di detenzione pre-processuale in attesa del procedimento che è scattato lo scorso 12 settembre. I reati addebitati sono quelli sopra citati. Durante gli interrogatori della polizia e il dibattimento dei magistrati, mentre si susseguivano domande sulla vita privata della giovane donna, era tralasciata la verbalizzazione delle visibili percosse ricevute dalle assaltatrici davanti al carcere, e nel prelevamento forzoso che le è stato inflitto. Ai legali della Seif è stato impedito l’accesso ai verbali delle indagini e ai mandati d’arresto. La detenzione di Sanaa è stata rinnovata con un’inusuale procedura burocratica senza che ci fosse alcuna discussione nelle quattro sessioni dello scorso luglio e agosto. L’alibi addotto dall’accusa: l’impossibilità a partecipare in via precauzionale per la pandemia da Covid. Il quadro di quest’ennesima storia d’oppressione propone un’ulteriore provocazione ai danni degli indomiti familiari dell’attivista Abdel Fattah. Sanaa, che ha finora trascorso nove mesi di reclusione, dovrà scontarne altri otto. In suo appoggio sono intervenute alcune associazioni egiziane che, fra mille difficoltà, proseguono il sostegno alle decine di migliaia di detenuti interni: Centro Nadim, Rete Araba sui diritti umani, Istituto del Cairo per i diritti umani, Comitato per la Giustizia, Centro di Diritti e Libertà Belady, Fronte egiziano per i diritti umani, Iniziativa per la libertà, Associazione per la libertà di pensiero.

lunedì 15 marzo 2021

Siria, come il potere disintegra un popolo

C’è un crimine morale che oscurerà a futura memoria il satrapo siriano Bashar al-Asad. E non solo per i quattrocentomila morti, i dodici milioni di sfollati interni ed esteri, cui hanno contribuito oltre alle milizie fedeli e interessate al suo potere, anche ribelli locali, jihadisti stranieri introdotti e alimentati dalla Turchia, miliziani Hezbollah, “consiglieri” iraniani e russi, mercenari di Putin, militari di Putin ed Erdoğan. Lui, il dottore cui gli adolescenti arrestati nei sobborghi di Da’ra dagli shabbiha, onnipresenti fantasmi del regime, avevano augurato la fine nella primavera d’un decennio fa, ha l’incancellabile colpa d’aver cancellato un popolo. Ha perpetuato la meticolosa e agguerrita macchina di potere militare, economico, familiare messa su da chi gli istillava la prassi del cinismo: papà Hafiz, il “leone di Damasco” (sulla cui operatività si può consultare l’eccellente studio di Lorenzo Trombetta: Siria, Mondadori, 2014). Così l’oftalmologo - obbligato dal fato e dal clanismo di setta a subentrare al fratello Basil, il designato alla successione presidenziale stroncato da un incidente d’auto - s’è reso, anno dopo anno più realista del sovrano padre. Perdendo per via l’idea di poter riformare qualcosa delle molte contraddizioni che l’ideologia del partito Baath aveva trasformato in dittatura personale, Bashar ha chiuso lo sguardo dietro la facciata di occhiali a specchio e baffetti, ch’è una divisa somatica che conta più delle mimetiche poi viste in azione durante la “guerra civile”.

 

Più delle colpe oggi rivolte dalla Gran Bretagna all’avvenente consorte Asma, tuttora cittadina di quel Paese e da questo rimproverata per il sostegno alle sciagurate operazioni contro i civili siriani ordinate dal marito-presidente, la “condanna della memoria” che dovrebbe spettare ad Asad junior riguarda la pervicace conservazione del potere davanti alla tragedia del suo popolo. Un dramma che ha certamente vari attori geopolitici, strutturati nelle citate potenze regionali e nel nefasto disegno dello Stato Islamico strangolatore anche d’un pezzo d’Iraq, ma che avrebbe obbligato un politico attento alla sopravvivenza delle diverse comunità etnico-religiose che lì vivono da secoli, a farsi da parte. Responsabile qual è, assieme alla famiglia presente e passata delle molteplici piaghe siriane. Un quadro non dissimile da altri disastri mediorientali: l’Egitto afflitto dal clan Mubarak, la Tunisia di Ben Ali, l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi. Storie sicuramente diverse, ma col denominatore comune della peggiore personalizzazione d’un potere criminale, diventato tossico per una parte della popolazione. La Storia va così, ogni dittatore ha anche i suoi adulatori interni che godono di benefici diretti e i sostenitori esterni che ricevono vantaggi da situazioni, stranianti e strazianti per i deboli abbandonati a se stessi. 

 

Se qualche despota l’ha scampata col minimo danno, perdendo il trono non la vita, ad altri è andata male, finendo anche peggio di quanto meritassero. Invece Asad ha protettori solidi, coloro che hanno ridotto la Siria in tre, quattro pezzi, utili ai propri disegni attuali e prossimi che, comunque, garantiscono al dottore di perpetuare la sua presidenza-fantasma su una nazione stuprata. Un padre che ha disastrato i suoi figli, un oftalmologo accecato dalla sua orgia di potere e da tempo  messo sotto tutela da sprezzanti protettori. Quanto somiglia a quel generale descritto nelle pagine dello scrittore di Aleppo Khaled Khalifa nel romanzo Elogio all’odio (Mondadori, 2011). “… Il culto del generale crebbe e i suoi sostenitori appesero dappertutto la fotografia che lo mostrava forte, innamorato della vita, sorridente, mentre teneva il pugno alzato come potesse diventare il liberatore di Gerusalemme. Non sembrava certo il contrabbandiere che aveva fatto quello che aveva voluto del paese insieme con i suoi uomini; non sembrava per niente l’uomo che si era immancabilmente accaparrato la parte più consistente di ogni traffico, come un ragazzino viziato al quale nessuno ha il coraggio di dire no. Il generale era diventato il simbolo di un gruppo di potere che aveva iniziato a far pesare sul paese i suoi loschi traffici. In seguito, sarebbero venuti allo scoperto i suoi scandali…

sabato 13 marzo 2021

India, caccia ad Ali

E’ stato postato ieri su Istagram, sebbene oggi sia stato rimosso, un video “faidate” che mostra un adolescente pro Hindutva (la dottrina fondamentalista e razzista sostenuta dagli estremisti hindu) che attacca un bambino musulmano e gli usa violenza. La colpa di quest’ultimo era quella d’essere spinto dalla sete a entrare in un’area per bere. La zona è interdetta agli islamici poiché lì sorge un tempio hindu, nonostante il distretto sia altamente popolato da musulmani.  Così i militanti dell’hindutva, pur giovani come l’assalitore, attuano severi pattugliamenti e conseguenti “punizioni corporali”. Il filmato mostrava la gragnuola di colpi con cui il bambino dallo sguardo smarrito – sicuramente non aveva letto il cartello che metteva in guardia i trasgressori – veniva sottoposto alla punizione. Nelle truculente immagini l’aggressore colpiva con calci e pugni le parti intime del corpicino, commentando: ”un musulmano è stato neutralizzato”. Un’altra scena mostrava sempre l’orgoglioso picchiatore agitare un coltello davanti al volto d’un altro bambino, apostrofato come “infiltrato balgladeshi”. Il senso d’impunità dei gesti mette l’autore in primo piano: lui si fa riprendere da un compare, mostra il volto, pubblica la bravata sul social media. 

 

C’è voluta una semi rivolta di fruitori di Istagram della nazione indiana per denunciare il fatto alla polizia di Ghaziabad, nell’Uttar Pradesh, far cancellare quell’azione usata  come propaganda e monito, far arrestare l’autore. La violenza e la sua promozione sui social rappresentano episodi tutt’altro che isolati. I fondamentalisti hindu creano a ciclo continuo account come quello ora cancellato - @HinduEktaSanghh - per incitare “un bagno di sangue di nemici musulmani”. I deliri seguono una perversa spirale violenta che invoca pire per islamici vivi, da far crepare nella maniera più cruda. Però tali richiami a un astio sordido hanno sponde ben più strutturate di quelle delle giovani reclute. Le prediche islamofobe di Yati Narsinghanand Saraswati, leader dell’hindutva proprio a Ghaziabad, oltreché sacerdote del tempio hindu dove avvengono le aggressioni descritte, e interventi altrettanto focosi di politici come Kapil Mishra, esponente di spicco del Bharatiya Janata Party, rappresentano l’humus su cui si coltiva l’odio razzial-confessionale nell’India di Modi. Già in molte circostanze e per svariati interventi Narsinghanand è stato etichettato quale predicatore dell’odio. Un anno fa reportage di alcuni quotidiani del Paese lo ricordavano, durante i violentissimi scontri fra hindu e musulmani, come il teorizzatore del “genocidio contro gli islamici”. Parole e pensieri che non ha mai smentito. 

 

Il bello è che il guru hindu gode della platea televisiva, un po’ come taluni odiatori occidentali  dell’Unione Europea e degli Stati Uniti che non si chiamano solo Orbán e Trump. Così Sudarshan Tv, News Nation e altri media prestano microfoni e telecamere al faccione all’apparenza pacioso di Yati che, nonostante si dipinga come un tranquillo sacerdote, schiuma un’incontenibile rancore per quella minoranza indiana che conta quasi 300 milioni di anime. Poi ci sono i suoi social (Voice of Narsinghanand) su Youtube in cui riassume la sua suprema missione: “la soppressione dell’Islam” e qui la frangia più militarizzata dell’hindutva va in delirio orgiastico e omicida. Insomma il guru del tempio è una vera bomba socio-politico-confessionale che vellica i già incendiari pruriti dei suoi fan, innescando risposte estremiste dell’altra sponda dove il fondamentalismo islamico è sempre in cerca di adepti. Suo anche il delirio di “jihad demografica” con cui accusa la comunità islamica di attentare all’integrità della nazione indiana, che secondo la propria visione è esclusivamente hindu, attraverso la prolificità delle donne musulmane.

martedì 9 marzo 2021

La Russia s’impossessa del processo di pace afghano

Mosca, che nei mesi scorsi aveva già creato un tavolo di colloqui parallelo, potrebbe sostituire Doha nella ricerca d’una concreta via di pacificazione della questione afghana. O almeno tentarci. In questo ruolo il ministro degli Esteri Lavrov è un volpone di lungo corso, peraltro da anni in servizio permanente effettivo alla corte del potere putiniano. Senza togliere meriti al lavoro di Khalilzad, il diplomatico statunitense d’origine afghana che ha diretto finora le trattative nell’Emirato qatarino, quest’ultima situazione è logorata da un palese blocco. Alla firma bilaterale fra Stati Uniti e delegazione talebana non è seguita l’applicazione di quanto pattuito: cessazione degli attacchi dei turbanti contro l’esercito di Kabul e ritiro completo delle truppe Nato. Certo, il limite ultimo è posto al 1° maggio, ma quel che maggiormente preoccupa e dimostra l’attuale impotenza del negoziato, è stata la seconda fase, definita colloqui inter-afghani. Questi sono stati finora diretti da Abdullah Abdullah, ex vicepresidente afghano, ora rappresentante dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione Nazionale. Ma i veti fra lo staff del mullah Baradar che non ha mai voluto incontrare il presidente Ghani, e gli uomini di quest’ultimo come il vicepresidente Saleh che disdegnavano di riconoscere un futuro politico ai taliban, hanno creato un susseguirsi di sedute infruttuose, incapaci di decidere quale gruppo politico o coalizione costituirà il domani governativo nei travagliati territori. 
 
Fra nove giorni a Mosca si dovrebbe partire da qui. E pare che la diplomazia russa riesca, perlomeno come premessa a mettere uno davanti all’altro i contendenti riottosi: l’attuale Esecutivo afghano e gli studenti coranici. La conferma definitiva verrà nelle prossime ore, però il portavoce di Abdullah ha annunciato a Tolo tv che dopo le insistenze russe l’Alto Consiglio sta pensando d’intervenire ufficialmente, riconoscendo agli ospitanti “un’importantissima funzione nell’odierna fase delle trattative”. Sebbene fonti governative della capitale afghana ricordino che questo fronte non sarebbe alternativo a quello di Doha, visto che è concordato con gli Usa, c’è da credere che la regia degli incontri  operati dal Cremlino seguano logiche diverse da quelle dettate dalla Casa Bianca. Comunque osservatori americani, come pure cinesi e pakistani, saranno presenti in quella sede. Trapelano anche note sulla contromossa del Segretario di Stato americano Blinken che “suggerisce” a Ghani di rilanciare il dialogo con un meeting in Turchia sotto l’egida dell’Onu. Sul tavolo almeno i punti nodali del blocco delle violenze e del ritiro delle truppe - un confronto aperto, soprattutto coi pesi massimi che influenzano l’area: Russia, Cina, Pakistan, Iran, India.  
 
In più Blinken invita i fedeli alleati kabulioti di formulare assieme ai talebani una mappa per stabilire i princìpi fondamentali d’una rinnovata Costituzione e i preparativi d’un futuro governo. Facile a dirsi e non a farsi, visti i menzionati presupposti dei due schieramenti. Al di là dei contenuti della costituenda Costituzione, che per quanto s’è udito non riuscirebbero ad avvicinare il fondamentalismo di varie sponde (dunque non solo talebano) alle  visioni di ‘democrazia borghese’ presenti fra alcuni rappresentanti etichettati come società civile, la mossa del neo Segretario di Stato cerca di riaprire al suo Paese lo spazio geopolitico asiatico che altra diplomazia (russa, cinese, turca) ha elaborato nel quadriennio trumpiano. Blinken tira per la giacca Erdoğan, conoscendone interessi, bisogni, smanie vuol renderlo compare in quest’iniziativa. Difficilmente lo scaltro presidente turco l’ascolterà. Da oltre un anno fra lui e Putin s’è aperto uno stato di tregua sempre meno armata. Dopo la maretta in Libia, neppure la guerra lampo armeno-azera è riuscita a incrinare le relazioni che filano per spartizioni d’interesse reciproco sugli scenari siriano, libico e del Mediterraneo orientale, caucasico. Se anche Cina, India, Pakistan accetteranno di sedersi al costituendo tavolo di Mosca, al quale si dà per scontata la presenza iraniana, l’amministrazione Biden dovrà piegarsi alle conseguenze dei ritardi americani, oltreché del suo disastroso ventennio afghano.

lunedì 8 marzo 2021

Kurdistan, l’angolo di terra delle senza nome

A Sulaymaniyah, 120 chilometri a sud-est di Erbil, nella terra visitata in questi giorni dal Santo Padre che prima d’essere caldea, cattolica, yazita, zoroastriana, sunnita, sciita è soprattutto maschile, c’è un cimitero. Non raccoglie vite spezzate dalla recente furia dell’Isis, né quelle di precedenti guerre fra religioni e nazioni. E’ seminata di lapidi ignote, scorze di pietra senza neanche un nome, eppure memoria di donne spazzate via in tenera età. Su quelle pietre non c’è identità perché i maschi di casa se ne vergognano e per i maschi omicidi quelle persone non esistono. In genere sono altre donne, madri, sorelle, nonne ad avvolgere in un sudario quel che resta di quindicenni distrutte dall’ipotetico sposo – vecchio o giovane che fosse – cui erano promesse e al quale si sono opposte. Ribellandosi al sistema della vendita familiare attraverso il matrimonio, usanza tribale che prosegue imperitura nel tempo. Qualsiasi denuncia, allo Stato che non c’è, a divise ufficiali e ufficiose, ha sempre a che fare con figure maschili che annotano e nulla fanno, men che meno inseguire e perseguire propri simili autori del misfatto.

 

Quell’angolo della memoria racchiude frammenti di lutto e dolore, che le fedi vagamente condannano e le comunità da esse ispirate non fanno propri perché non estirpano la fonte di quella miseria. Uno scempio universale, senz’altro, non racchiuso in quell’angolo di Kurdistan iracheno. E purtroppo presente nel femminicidio diffuso che il mondo maschile perpetua a Oriente e Occidente con pari calcolata ferocia e con scarsa rispondenza di giustizia, visto l’iper garantismo che troppe efferate azioni ricevono da certi sistemi legali. Pronti a imbavagliare e incarcerare per reati di pensiero e permissivi verso crimini di genere come lo sono coi criminali di guerra. E’ la stessa società maschia che spaccia per difesa e sicurezza l’aggressione a inermi civili, quella che minimizza e scagiona stupratori e sgozzatori di donne e bambini. Anche gli sgozzatori democratici che non sventolano la bandiera nera, che vivono a New York e Parigi, che passeggiano fra l’arte di Roma e Vienna. Che abitano nelle case delle proprie vittime, che le hanno sposate legalmente, senza forzature, ma a un certo punto decidono di forzarne l’esistenza.

 

Così dai “crimini d’onore”, come tuttora li definiscono in un pezzo del Sud del mondo cui appartiene la regione del Kurdistan, come li definiva anche la legge nostrana che solamente quarant’anni fa decise di bollare simili nefandezze quali reati, senza peraltro riuscire a fermare la mano omicida che continua a muovere “uomini d’onore”. Mica solo “zingari ed extracomunitari” che i fautori dell’ordine sempre additano a rei. Bensì mariti, fidanzati, compagni, parenti che spengono sorrisi col machete di casa, la pistola d’ordinanza, la tanichetta di carburante. Perché quella “cosa nostra” che è la femmina agguantata in una relazione benedetta da una funzione o anche no, resta oggetto di desiderio, qualunque sia, pure dettato dalla licenza d’uccidere. Si può uccidere con estrema leggerezza nella società delle cose e delle relazioni fatue. La maturità sociale, la democrazia, il relativo benessere dovrebbero contenere pulsioni, sminuire fobie. Invece incentivano potere e violenza e si perpetua la smania di possesso,  di dominio e l’onnipotenza omicida maschile. Da noi le vittime avranno magari una lapide, ma l’obiettivo è stroncare la maledetta stirpe degli assassini.

giovedì 4 marzo 2021

Il Libano perduto

Ogni punto cardinale libanese è tornato in fiamme. Il fumo oscura il cielo come in una riedizione del folle boato portuale dello scorso agosto. Stavolta non è accidente, incuria, corresponsabilità. Oppure sì, queste ci sono tutte. Poiché è la stessa politica nazionale che abbandonò stivate per anni 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio negli hangar sul porto, provocando 190 vittime e oltre seimila feriti, allo stesso modo ha lasciato dissanguare le finanze d’una cittadinanza che ieri scambiava un dollaro americano con 1.518 lire libanesi. Così i beirutini del centro e delle periferie sfogano la disperazione per via, bruciano copertoni d’auto, bloccano il traffico verso nord, sud, est. Ma anche a Tripoli, Sidone, nella Beqqa c’è lo stesso scoramento. La rabbia non ha pari ma quei fuochi possono restare fatui, per ora non sembrano trova interlocutori. La guida del Paese è latitante, come lo sono la coalizione che da destra a sinistra, tra confessioni maronita, sciita, sunnita, fino ai clan druso non riescono a rilanciare neppure l’economia della spartizione. Anche perché se le fonti economiche esterne, talvolta fittizie e spesso foriere d’interessi di ritorno, non credono più in un modello politico-organizzativo che sembra aver fatto il suo tempo, tutto si ferma. E tutto s’è bloccato. L’aggiunta dei due milioni di profughi siriani, e nell’ultimo anno della pandemia, rende ogni cosa più intricata e contorta. Quel che resta d’una classe dirigente è clandestina teme ulteriori vampate contro simboli quasi vuoti. I poteri temono siano date alle fiamme sedi istituzionali, banche come accadde nell’ottobre 2019, hanno sperato nella calma tornata d’inverno in conseguenza dei primi passi locali della pandemia. Ma un’economia ridotta alla fame infetta più del Covid-19. Anche perché i due mali sono connessi, le misure del confinamento, introdotte e interrotte come in altre luoghi, sviluppano solo disperante disoccupazione e impotenza. La stessa microeconomia con cui mettere qualcosa nel piatto quotidiano è tutt’altro che scontata, quasi fosse tornata la guerra civile. Il rifiuto d’un presente ingrato che azzera l’esistenza per il milione di libanesi poveri e porta gli stessi ex ceti medi d’ogni confessione verso la povertà, è anche il diniego d’una guida del Paese confezionata all’esterno, da quella geopolitica accorsa “in aiuto” dopo il disastro del porto – il presidente francese Macron in testa a tutti – avendo nella testa progetti neocoloniali verso una nazione che c’è chi vuole in dissolvimento. Mentre gruppi d’intellettuali e giornalisti locali che commentano come la gente per strada è un popolo senza partito, che proviene anche dai partiti ma pone il proprio cuore a un livello differente dal passato, come certi attivisti di Hezbollah a Ghobeyri, che non hanno più fiducia nelle promesse d’un tempo e nello stesso Nasrallah.