Il pianto disperato di madri, mogli, sorelle
sembra non potere nulla di fronte alla decisione della Corte di Minya che
sentenzia morte. Seicentottantatre volte. Oppure sì, perché magari dopo la
condanna capitale seguirà la tramutazione in ergastolo, com’è accaduto al
precedente gruppo d’imputati della Fratellanza. Delle 529 condanne, “solo” 37
dovrebbero vedere la forca. Ma dietro questa crudele rappresentazione della giustizia,
dei processi che li precedono, con una sorta di pantomima della magistratura
che più che valutare i fatti emana un verdetto già scritto c’è il volto
dell’Egitto a una dimensione votato a ribadire la statica immutabilità del
potere. Chi decide l’ennesima condanna di massa per 683 egiziani, colpevoli (tutti?)
di aver ucciso uno o dieci agenti di polizia, durante la carneficina subìta il
14 agosto 2013 da parte delle forze della repressione, segue un preciso copione
politico. Un programma stilato e pattuito da mesi che va a incasellarsi negli
eventi precedenti e in quelli che seguiranno. Questi processi al capro
espiatorio di ogni male, delle sciagure, delle molte carenze dell’attuale
Egitto hanno un nome unico: fratello musulmano. Tale nome, il credo politico
che lo circonda, gli ideali e gli errori, le contraddizioni e le sue storture
devono scomparire dall’orizzonte del Paese che militari e tradizionalisti
vogliono rilanciare. Coi petrodollari di Riyad e il benestare dell’ondivaga
Washington che abbraccia e soffoca alleati a ritmi schizofrenici.
E’ il modello d’Egitto dell’ultimo trentennio
che torna potente, riproponendo l’ingombrante bagaglio di terrore interiore,
seminato nella misera vita dei sobborghi rurali che si rincorrono fin dentro al
cuore del Cairo. E’ il sorriso bonario e falso di istituzioni avvizzite nel
vizio di corruzione e malaffare definiti interesse nazionale. E’ un Paese - la
più grande nazione araba - che sotterra ogni afflato di libertà e dignità, che
assieme alla richiesta di pane e lavoro, aveva scatenato la rabbia e le
speranze di Tahrir. Tutto, ormai da tempo, disperso nel vento, assieme alle
migliaia di martiri, alle decine di migliaia di arrestati, ai divieti e alle
minacce tornati imperiosi per il bene della patria. Che s’allargano,
avvinghiano nella rete giornalisti, oppositori d’ogni sorta, non risparmiando
quelli della prim’ora come il movimento “6 Aprile”, ferreo avversario della
Fratellanza, finito anche lui fuorilegge. Della legge che la magistratura sta
scrivendo per nostalgici desideri d’un passato a misura d’imperialismo. Alla
faccia del balbettante panarabismo delle compiacenti comparse d’un post-post nasserismo.
E se Badie, il leader spirituale della Confraternita, senza aspettare il parere
del Grand Mufti (che la Corte può ignorare) raccomanda l’anima ad Allah felice
del sacrificio, il partito di Abol-Fotouh (Strong Egypt) si scaglia contro le
sentenze di morte. Incurante di quel che seguirà. Lo fanno anche i salafiti di
Al-Nour, solitamente attenti al calcolo delle opportunità. Mentre un pezzetto
di mondo si risveglia dal torpore: s’uniscono alla protesta verbale anche le
associazioni per i Diritti Umani e il segretario delle Nazioni Unite, scioccati
dall’anomalia in cui versa il Paese che a breve darà ad Al-Sisi la legittimità
dell’urna. E il nuovo raìs da neopresidente, magari dispenserà grazie ai
condannati, portando la pacificazione in un Egitto politicamente desertificato.