Definire “ordine” in Medio Oriente lo sfacelo, le distruzioni, i
massacri, i lutti, l’angoscia che ne derivano può appartenere solo al modello perverso con
cui Israele ha costruito la sua storia recente. Che non è quella dei molti e
sempre più tragici governi a guida Netanyahu, ma la comparsa di uno Stato
coloniale e guerrafondaio sostenuto dalla maggioranza d’un popolo che non
insegue la pace ma il sopruso. L’attuale gruppo dirigente di Tel Aviv mostra
l’abilità di sfruttare a suo vantaggio non solo la protezione statunitense - che
è politica e diplomatica, bellica e finanziaria, tecnologica e cibernetica - ma
le opportunità offerte da geo-strategie, real-politik, storia politica,
storia delle religioni e delle
conseguenti tensioni fra le fedi. Una per tutte, il millenario contrasto fra
sunnismo e sciismo, s’è tradotto negli ultimi decenni in tipologie di Stati che
mirano all’egemonia regionale, dal versante cultural-teologico a quello
economico e geostrategico, comprensivo di alleanze interne alla Umma ed esterne
a essa. Arabia Saudita, Turchia, Iran si contendono il ruolo e le dinamiche che
coinvolgono alleati più o meno prossimi ai loro disegni. A riaccendere focolai
mai spenti sono state le rivolte definite “primavere arabe” contro regimi autoritari,
ma soprattutto il profondo solco scavato dalla guerra civile siriana. Trasformata
in conflitto generalizzato, comprensivo di progetto jihadista da quello di
marca Isis alla guerriglia fondamentalista con tanto di combattentismo ideale e
mercenario, di mercenariato di professione mosso da potenze esterne, di eserciti
nazionali messi sui campi di battaglia a combattersi o schiacciare forze
avverse peraltro cangianti. Nella ‘macelleria umana’ che è stata questa guerra
(2011-2018, ma alcuni fronti sono tuttora attivi, con 500.000 vittime, tre
milioni di feriti, dodici milioni di sfollati) – dalla quale Israele s’è tenuto
decisamente a distanza – Pasdaran e
soprattutto Hezbollah hanno scelto
d’invischiarsi a lungo e profondamente, con le conseguenze che i sedimentati
odi vissuti e trasmessi alle popolazioni coinvolte fra Siria, Libano, Iraq,
Turchia kurda s’incrementassero, proprio fra islamici d’ogni tendenza.
Non c’è da stupirsi, dunque, se in Iraq c’è chi festeggia l’uccisione
di Nasrallah, seppure per mano dell’aviazione israeliana, né se nei quartieri
centrali o settentrionali di Beirut si palesi la soddisfazione per
l’azzeramento dei vertici dell’ingombrante Partito
di Dio. Nella politica regionale, il premierato bellicista di Netanyahu
punta sull’Islam considerato buono (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto),
utile a sostenere la sua linea di oppressione dei palestinesi, e da lui contrapposto
all’Islam definito “terrorista” quello sciita di Teheran, Dahieh, Sana’a sebbene
i maggiori finanziamenti del fondamentalismo dell’Isis provengano dalle
petromonarchie con cui si sono progettati i cosiddetti ‘Accordi di Abramo’. Abilissimo
l’establishment israeliano ha atteso che gli islamici si scannassero fra loro
nel ribattezzato Daesh (ma era accaduto
anche in altre epoche e in circostanze diverse), ha tessuto patti con alcuni
Paesi arabi per il riconoscimento di Israele (in barba all’irrisolta questione
palestinese), ha raso al suolo gran parte dell’abitato della Striscia di Gaza
come vendetta per l’attacco di Hamas
che aveva ucciso 1.200 kibbutzim ma ha moltiplicato per trentacinque la sua
“giusta vendetta”, ammucchiando finora 42.000 cadaveri di gazesi. E pur
proseguendo una “rifondazione della Striscia”, riconvertita da prigione a
cimitero di persone e cose, ha avviato l’aratura del terreno libanese per
seminare i suoi frutti. Magari non dissimili da quelli incentivati durante
l’occupazione del Libano nel 1978, col sedicente Esercito del sud del maggiore
Haddad, oppure approvando il maquillage di rinascita attuato da Rafiq Hariri,
un Libano che tornava a essere la culla di affarismo e corruzione. Versione
meno appariscente di quella di trent’anni prima tutta jet-set, dolcevita,
attori ed evasori, mafiosi e criminali, comunque funzionale a un quadro
geopolitico legato a intrecci assai più sofisticati di quelli conosciuti negli
anni Sessanta.
Un comune denominatore è
sopravvissuto nel tempo su quel territorio: le spie. Assai più coperte di
quelle famose e diventate leggenda come Kim Philby - agente britannico di nome,
sovietico di fatto - uscito allo scoperto con una donna, l’ebrea Salomon, che
lo smascherò e lo bruciò proprio a Beirut nel 1963, facendolo finire comunque dove
Philby voleva: nella Mosca comunista, di cui si dichiarava sostenitore. Le spy stories letterarie s’ammantano
sempre di un’aria romanzata, ma nelle varie epoche i loro legami con la realtà politica risultano sempre multisfaccettati
e, come i diamanti, brillano da più
lati. La geostrategia del Mossad sta
mostrando gli effetti benefici per il governo di Tel Aviv contro alcuni nemici
ritenuti più temibili del Movimento di
Resistenza Palestinese, appunto
Hezbollah e Pasdaran. Il primo
finisce decapitato del suo Gotha dirigente militar-politico proprio per opera
delle spie. Infiltrate o attivate per corrompere, acquisire, acquistare informazioni
e persone come merce in un bazar. Questo dicono tutte le esecuzioni mirate
delle scorse settimane e il grande inganno dei cercapersone commissionati a una
società creata su misura dall’Intelligence israeliana che prima di far
esplodere, uccidere, accecare, mutilare migliaia di cittadini, prossimi a
centinaia di attivisti del Partito di Dio,
hanno infilato informazioni nei suoi database. Per settimane e mesi, forse
anni. Ed è questo il rovesciamento del fronte in uno scontro che Israele sta
imponendo e vincendo con la forza d'una spaventosa quantità di denaro messa al servizio di strumenti e
personale usati in una battaglia definita difensiva che è invece
offensivissima. E attualmente vincente, visto che oltre confine Hezbollah può avere gettato migliaia di
razzi, resi inoffensivi dall’ennesimo gioiello della tecnologia: la Cupola di
ferro. Missili in ogni caso non paragonabili alle superbombe che disintegrano
palazzi e penetrano bunker, come si vede nella Beirut resa in dieci giorni
spettrale più di quindici anni di guerra civile.
Ma l’impari forza che
produce reazioni di facciata e blocca il nemico maggiormente temuto, l’Iran
khomeinista, è tutta interna a una Repubblica Islamica dove il khomeinismo è in
difficoltà. Sia per i tempi mutati, perché la gioventù combattente, clericale o
meno, non è quella che s’immolava sul confine iracheno contro Saddam. Le guerre
di trincea non tramontano, ma sono logoranti e per combatterle c’è bisogno di
chi mette in conto di potersi sacrificare. Una tipologia di soldati che non
esiste quasi più, ovunque, superati dall’iper professionalità ancora una volta
tecnologica o dalla professione a pagamento, che dura finché dura. Forse
neppure Israele di queste ore, gasato dai successi, sceglierebbe d’infilarsi
nello scontro di terra, neppure in Libano, figurarsi in Iran. Nella minuscola
Striscia quest’opzione non ha prodotto gli effetti rapidi e sperati. Mentre i
reparti d’élite iraniani dedicherebbero la vita a difesa della nazione, ma
ancor più del proprio status ed è questo l’altro buco in cui s’insinua da tempo
il baco dei servizi israeliani. Entrando nelle crepe del vecchiume del regime
degli ayatollah, rappresentato non solo da Ali Khamenei malandato ma tuttora vivente
e al comando, ma da quel clero rigidamente schierato col passato khomeinista.
Che risultò scaltro e vincente ai tempi delle ideologie, battendo il marxismo
ingessato del partito Tudeh e quello
pseudorivoluzionario dei Mujaheddin del
popolo, ma che ha chiuso i rapporti con la sua gente. Non ha più parlato ai
giovani, anziché motivarli li ha repressi, tiene all’angolo le donne, ha paura di
ogni novità. E poi reprime, impaurisce, uccide. Sono i limiti d’un sistema
asfittico che avvicina nemici vecchi (ex monarchici, mujaheddin) e nuovi, in
cui può trovare appoggi chi vuol combattere Guida Suprema e Pasdaran. Non da oggi riformisti e
conservatori nella politica interna si fronteggiano, si scontrano, patteggiano.
Da decenni il durissimo embargo e la crisi economica creano spaccature ma anche
singulti d’orgoglio a difesa della nazione. Eppure la compattezza sembra
vacillare fra gli stessi Guardiani della
Rivoluzione che hanno subìto l’assassinio di Haniyeh in casa propria e una
sequenza di agguati eccellenti (agli ingegneri del nucleare) fin dentro
Teheran. Il sospetto è un’ombra che s’allunga su un Paese tutt’altro che granitico,
tanto da dover rivalutare le mosse dell’asse resistente opposto da quasi un
cinquantennio “all’entità sionista” e all’islam compromesso che dimentica Quds.