Nei sette anni vissuti coraggiosamente
l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-est, più conosciuta come Rojava
che in lingua kurda vuol dire “l’Occidente”, ha inseguito sogni e bruciato
tappe, ha perduto vite in luminose spianate e fra le macerie di case
sbriciolate dalle granate e guadagnato sostegno che non è necessariamente
futuro. Anzi. Colpa di ciò che è accaduto con l’ultima invasione turca beffardamente
denominata “Fonte di pace”, e soprattutto con la stretta di mano fra Putin ed
Erdoğan. Il signore del Cremlino nella
veste di “protettore” del vicino Medio Oriente ha sdoganato la deportazione di
massa della gente kurda dal confine turco, così il confederalismo democratico
profumato di ecologia, laicità, femminismo segna uno stop, perlomeno nella
veste realizzativa conosciuta nelle difficili fasi di conflitti locali. E’
stata proprio la guerra civile siriana, cui i combattenti delle ‘Unità di
difesa del popolo e delle donne’ (Ypg e Ypj) hanno offerto l’attivo contributo
per liberare decine e decine di chilometri dalle bandiere nere e
dall’oscurantismo dell’Isis, a concimare il fiore del Rojava. Non che gli
ideali dei kurdi di Siria fossero bellicisti, però le avanguardie di questa
gente pongono parimenti l’organizzazione socio-politica e quella militare, e si
son trovati a difendere armi in pugno una terra dove la Storia li ha collocati
da un millennio, seppure altre etnìe son vissute in quei luoghi e si son viste
allontanate dalle autorità di turno, soprattutto in epoca moderna.
Il sogno del Rojava prendeva corpo nel
2012. Una crescita rapida e radicale pur vissuta nella polvere, nella
precarietà, nei rischi della fase iniziale del conflitto civile siriano,
diventato gradualmente guerra aperta ad attori esterni. Nei cantoni di Efrin, Kobanê,
Cizïrê vivevano fino alla metà dell’ottobre scorso due milioni di kurdi che a
guerra aperta son rimasti lì, perché muoversi significava rischiare più di
quanto gli prospettavano l’indisponibilità dell’esercito lealista di Asad che,
come altri considera costoro ladri di terra. E’ il contrappasso dei kurdi, che
pure in certe fasi storiche sono stati irretiti e usati per combattere e
scacciare altre etnìe, per poi finire essi stessi vittime. L’inseguimento di
speranze e illusioni, oltre ai raggiri predisposti dalle potenze che nel primo
dopoguerra ridisegnavano il Mashreq, passarono per il Trattato di Sevrès del
1920 e s’infransero su quello di Losanna di tre anni dopo. Così fra i vasi di
coccio che le nazionalità armena e kurda rappresentavano rispetto a quelli di
ferro di etnìe maggiormente protette, quella kurda finì penalizzata. Visse la
propria diaspora, finendo fra ex imperi (Persie e Turchia) ridimensionati dal
tempo e dalle nuove potenze e Stati nascenti (Siria e Iraq) dove la perfidia
imperiale britannica voleva proseguire i suoi giochi se non amministrativi
sicuramente economici.
La diaspora predisposta dai potentati
del nuovo assetto mondiale, che aveva diviso in gruppi più o meno numerosi la
popolazione kurda, fu sigillata dall’ideologia di punta dominante fra Ottocento
e Novecento: il nazionalismo. Che, comunque, creava figli e figliastri, secondo
interessi tangibili e anche retaggi culturali. Da quest’ultimi “il popolo delle
montagne”, come venivano definiti i kurdi da chi oltre alla lingua voleva
cancellarne anche le radici, furono sempre tenuti a distanza, ritrovandosi
isolati oltre che dominati. A poco servivano le periodiche rivolte: a inizio
degli anni Venti e a metà dei Trenta sempre nella regione di Dersim, sempre
represse nel sangue anche utilizzando altre minoranze come i circassi, uno dei
bracci armati della Turchia kemalista. E le depravate scorrerie registrate non
solo nelle fasi della recente guerra siriana ma in repressioni comunque del
Terzo Millennio, avevano precedenti banditeschi con gente murata viva per non
essersi arresa. Comunque l’accanimento anti-kurdo che il factotum dell’Islam
politico di Turchia - partito attivista, diventato sindaco di Istanbul, quindi
leader anche incarcerato, poi segretario e premier e presidente che propugna e
realizza un presidenzialismo da culto della persona, pur avendo praticato un
approccio col realismo della Road Map del capo kurdo Öcalan - è una
riproposizione di quanto il nazionalismo kemalista più bieco ha compiuto negli
anni Ottanta. L’epoca dell’ultima ondata militarista che cercava di sradicare i
kurdi con ogni mezzo. Una pratica fallimentare.
Però eguale disamore, se non proprio
odio, i kurdi d’oltreconfine in Siria, l’hanno raccolto da altre sponde. Sebbene,
nella fase di formazione della moderna Siria sotto il protettorato francese,
clan kurdi di proprietari terrieri e contadini meno abbienti vivessero in
alcune aree e condividessero coi beduini arabi luoghi, tragitti e transumanze
commerciali. Alcuni ufficiali kurdi risultavano fra i protagonisti politici
dell’indipendenza del Paese e Shukri al-Qwwatlï venne eletto per due mandati
presidente della Repubblica. Eppure un certo nazionalismo arabo lavorava per una
loro marginalizzazione dal sistema, nel 1962 una legge tolse la cittadinanza a oltre
centomila kurdi, egualmente si comportava la dirigenza del partito Ba’ath che
prese il potere con un colpo di Stato. L’ennesimo
golpismo dell’ufficiale Hafiz Asad, diventato presidente nel 1970, compiva
verso la comunità kurda giri di valzer per utilizzarli a proprio favore,
sfruttandone le doti militari e assimilandoli in corpi speciali assieme ai vari
clan alawiti. Fu un passo che costituì una tregua solo parziale verso la
collettività. Perché negli anni Novanta molti kurdi pativano privazioni del
diritto di voto, di diritti sociali e sanitari, fino all’impossibilità di
rinnovare carte d’identità e passaporti, così da diventare cittadini di serie
B, incapaci a votare e accedere a lavori pubblici. Nel 2010 questi ‘apolidi’
erano calcolati in oltre trecentomila. E’ la politica della ‘carota e del
bastone’ che l’attuale presidente siriano Bashir ha appreso dal padre e che lo
conduceva a inizio mandato a incontrare i capi della comunità riempiendoli di
promesse, mentre faceva infiltrare da agenti Shabiha i loro già frazionati
partiti (Democratico, Democratico Progressista, Unione popolare, Kurdo di
sinistra) per poterli controllare.
Per questo motivo una frangia orientata
su posizioni di difesa dell’identità per la ricerca d’un futuro da vivere nel
presente ha dato vita al Partito dell’Unione Democratica, propulsore della
vicinanza ideale col confederalismo democratico prospettato da Abdullah Öcalan.
Era l’avvìo del progetto Rojava che, nato con l’autogestione nel cantone di
Kobanê, si allargava a una vasta area successivamente oggetto dei tentativi di
espansione dello Stato Islamico. Nel frattempo l’esercito siriano, impegnato a
difendere i territori attorno alla capitale, concentrava le forze nelle aree
centro-occidentali disinteressandosi del controllo sui tre cantoni difesi
militarmente (seppure con armi leggere) dalle milizie kurde. Queste, nel corso
del conflitto svolto in prima linea contro i jihadisti dell’Isis, sono state
sostenute dal materiale bellico procurato dagli Stati Uniti. Quando nel marzo
2016 la conferenza del “Movimento per una società democratica” annunciava la
nascita della Federazione del Rojava-Siria del nord, il presidente Bashar manifestò
il suo aperto dissenso, sostenendo che l’esercito di Siria avrebbe ripreso il
controllo anche di quel lembo di terra che appartiene al governo di Damasco. Cosa
turbasse il dittatorello del clan Asad è presto detto: il progetto
rivoluzionario del Rojava che offre alla gente alternative al paternalismo
autoritario che offusca e opprime il Medio Oriente da sessant’anni. Uno dei
motivi della rivolta del marzo 2011 e tema dominante delle ‘primavere arabe’.
Dunque: i kurdi, fra i gruppi che si
sono scontrati sul terreno siriano erano fra i più rodati militarmente e
indirizzati politicamente verso un piano che i suoi teorici definiscono “Primavera
dei popoli”. A partire dalla metà di luglio 2012 hanno attuato la conquista
armata dei territori dove vive la propria gente, accanto a Kobanê ci sono
Amude, Derik, Tiltemïr e diverse altre cittadine rese tutte autonome, ma le
forze delle Ypg e Ypj hanno preso il controllo anche dei quartieri kurdi di
Aleppo e Raqqa, dove agivano gruppi
armati jihadisti e in seguito i miliziani neri. La maggiore forza politica
kurda, il Pyd, ha rappresentato un polo aggregatore per altre frange politiche che
hanno costituito l’Assemblea nazionale dei kurdi di Siria (Enks) e con questo
passo la rappresentanza della comunità è entrata in rapporto con la diplomazia
internazionale, comprese le potenze che osservano, troppo a lungo passivamente,
lo sviluppo d’un conflitto diventato guerra sporca ed eccidio di massa. Evitando
una peraltro impossibile cronistoria, estranea allo spirito di queste righe, ricordiamo
gli elementi costruttivi e innovativi del progetto kurdo di cui la stampa
mainstream ha divulgato prettamente note sulle forze di difesa. Accanto a esse
è stato creato anche un corpo di polizia per vigilare sulla sicurezza degli abitanti
in luoghi sottoposti allo stress del conflitto dov’è possibile riscontrare
anche reati comuni.
Ma quel che brilla nell’utopia che, mese
dopo mese, per sette anni ha preso corpo è la pratica della democrazia diretta tramite
le assemblee popolari e i comitati chiamati anch’essi del popolo volti a
risolvere questioni sociali, giudiziarie oltreché economiche. Certo con la
mente e i corpi impegnati nell’autodifesa e a evitare l’embargo economico
imposto dal minaccioso confinante turco. Ma anche i micro progetti rivolti alle
cooperative in alcune città (fra esse Efrin e Kobanê) sono stati dei micro gioielli
sparsi nella polvere, linfa vitale d’un sogno non basato solo su promesse e
sentimento bensì su cose tangibili per continuare a costruire quel percorso. Fra
le gemme con cui le avanguardie politiche del Pyd puntano alla trasformazione
umana e sociale della comunità si pone, come elemento centrale, la questione femminile.
Incentrata non solo sulla parità di genere, che nel Rojava ha fatto sorgere
reparti armati tutti al femminile, ma nella trasformazione dei rapporti fra
sessi nel privato e nel pubblico, nei clan familiari e nelle Istituzione che
pure esistono con tanto di ministeri. Una rieducazione del mondo maschile
affinché archivi machismo e patriarcato e ricerchi, assieme alle donne, una
nuova essenza di sé e del vivere comune. Quella rivoluzione a tutto tondo che
per decenni il progressismo mondiale ha provato a impostare con risultati
scarsi se non proprio fallimentari.
A sostegno di questa trasformazione
radicale che deve compiere un lungo percorso e sedimentare, il rapporto educativo
con le nuove generazioni, partendo dall’infanzia, costituisce nel progetto del
Rojava un elemento basilare e imprescindibile. Oltre a rilanciare lo studio
della lingua, dell’arte e della cultura dell’etnìa, che per decenni e nelle
situazioni politiche più diverse (dal mondo post ottomano e coloniale alla
repubblica sedicente socialista del Ba’ath) erano state vietate e represse.
Così i centri d’arte di Derik, Amude, Aleppo, e ancora Efrin e Kobanê sono
stati nei sette anni della paura e della violenza un’àncora di orgoglio per un
futuro dalle prospettive diverse. In questo mondo nuovo dove l’energia
elettrica c’era e non c’era, e spesso con essa generi di esistenza primari, non
generi superflui ma addirittura l’acqua, la spinta al miglioramento e
l’affermazione della normalità hanno creato anche un servizio di organi
mediatici: una tivù e una radio che trasmettono in quattro città, oltre a
giornali per la diffusione di un’informazione alternativa ai canali ufficiali
dei regimi turco e siriano. Tutto questo ben di Dio è messo in discussione dal
patto sancito a Sochi da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan il 22 ottobre scorso
e accettato da tutti, compresi obtorto
collo i non consultati rappresentanti kurdi. Prevede la creazione d’una ‘zona
cuscinetto’ della profondità di 30 km e per 120 di lunghezza, da Tal Abyad a
Ras al Ain, ingombra di autoblindo con la mezzaluna e di pattuglie russe che
pattugliano il territorio da sette anni a giurisdizione kurda. E mette fine,
per ora, a quell’esperienza.
Ancora più inquietante è ciò che il
laboratorio costituzionale per la Siria, che ha iniziato a riunirsi a Ginevra a
fine ottobre, sta preparando per un vago domani. Il fatto che sostituisca un
laboratorio di guerra che in otto anni ha prodotto mezzo milione di morti,
quasi tre milioni di feriti, sei milioni di rifugiati all’estero e sette
milioni di sfollati interni, è sicuramente positivo. Però, mentre a discutere
di riforma costituzionale e future elezioni sarà un comitato di 150 membri, in
realtà l’avvenire su quella terra che è stato un meraviglioso
crocevia di civiltà e fedi è nelle mani di potentati grandi e piccoli che della
‘macelleria siriana’ si sono disinteressati come le amministrazioni
statunitensi, o da un certo punto l’hanno inserita nei propri interessati orizzonti
come ha fatto Mosca del Terzo Millennio che guarda al Mediterraneo di levante e
al Medio Oriente. E dell’Erdoğan, a lungo infiammatore del caos siriano e ora invasore,
e non ultimo del cinico affossatore di civili sunniti Bashir Asad. Quindi, in cauda venenum, i contendenti a
distanza iraniani e sauditi, consiglieri armatori di miliziani in una terra su
cui ciascuno vuol stabilire l’influenza. Non si salvano le anime belle
dell’Unione europea, in verità più zombi politici che convitati di pietra. E’
il crudele mix del realismo politico, specie quando segue l’ecatombe della
pietà oltre che dell’umanità. In questo quadro lo spazio per proseguire l’esperimento
di democrazia diretta del Rojava sembra ristretto o inesistente. Chi discute
dei prossimi equilibri sembra poco disposto a concessioni verso gli ideali che
migliorano l’animo e i corpi di donne e di uomini. Eppure l’utopia è dura a
morire.
Pubblicato sul numero di dicembre del mensile "Confronti"