Le vendette si consumano
a freddo, anche i regimi adottano questa norma. Così mentre il premier
dell’Emirato dell’Afghanistan nega che ci siano ritorsioni in corso, men che
meno violente, e mentre la leadership talebana continua a rassicurare i
lavoratori del vecchio governo, circola un documento di Human Rights Watch che all’inverso parla di esecuzioni sommarie verso
cittadini che avevano ricevuto le medesime rassicurazioni. Afghani che nuclei
di turbanti sono andati a cercare nelle loro case, li hanno prelevati e passati
per le armi. La colpa: aver vestito la divisa dell’esercito locale, addestrato
dalle truppe della Nato. Soggetti responsabili di ‘atti imperdonabili’ - dicono
taluni comandanti taliban - che sono diventati essi stessi vittime di
altrettanti ingiustificabili assassini. E’ l’Afghanistan delle faide,
conosciute peraltro da decenni, cui hanno contribuito un po’ tutti i
protagonisti di cinquant’anni di conflitti. Da quelli post monarchici del Partito
Democratico del Popolo, all’Armata Rossa giunta in soccorso. Poi mujaheddin
diventati Signori della guerra, talebani di Omar, americani e occidentali delle
extraordinary rendition definite
‘missioni di pace’, loro imitatori in divisa da Afghan National Security
Forces, talebani della vendetta targati Akhundzada o Haqqani. E gli ex compagni
delle madrase diventati nemici sotto la sigla dell’Isis Khorasan. Contro
quest’ultimi attualmente si registrano retate nella provincia orientale di
Nangarhar. A Jalalabad si è verificata una vera e propria battaglia. I
ricercati hanno attaccato con ogni mezzo, armi e kamikaze. Secondo una
dichiarazione del capo della polizia locale
durante il combattimento, che ha portato all’arresto di due sospettati
miliziani, una coppia s’è fatta esplodere in una casa. Il mantra diffuso dai
portavoce ufficiali è: chiunque non deve avere timore. Ma chi osserva e vede che
gli avvisi di amnistia, addirittura per i reclusi, sono di fatto aggirati da
operazioni come quelle denunciate dal report di HRW, trova una discrasia fra promesse e realtà. Le testimonianze di
familiari e amici parlano di sparizioni, per probabili rapimenti, e raid
diretti nelle case dove elementi noti abitano o sono riparati. E’ accaduto nella
provincia di Kunduz a un appartenente all’Intelligence (NDS) rifugiatosi dai
suoceri e trovato morto per strada. Altre aree interessate: le meridionali di
Kandahar, Helmand e a Ghazni. Secondo l’Ong statunitense ulteriori dichiarazioni
ufficiali dell’attuale governo di voler prevenire abusi, finiscono per ritenere
responsabili gli abusati.
martedì 30 novembre 2021
lunedì 22 novembre 2021
Telekabul del Terzo Millennio
La Telekabul del Terzo
Millennio, prende corpo nella capitale afghana sotto le indicazioni del
dicastero per la Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio, sì
proprio così. Se ne occupa direttamente il ministro Muhammad Khalid Hanafi, che
ieri in conferenza stampa ha annunciato di voler reclutare giornalisti da
opporre alla ‘propaganda negativa’ che investe il governo talebano. L’idea,
immaginiamo, sia quella di promuovere propri propagandisti più che giornalisti,
e si pensa di allargare la professione alle stesse donne. Tutto il personale
dovrà essere in linea coi valori della Shari’a,
ideologicamente ed esteticamente, per cui le anchor indosseranno l’hijab, e più spesso il niqab che lascia liberi solo gli occhi.
Probabilmente i cronisti sfoggeranno una fluente barba. Il ministero vuole
anche ricondurre la visione di film a princìpi corretti che non contrastino la
legge islamica. “Ogni trama che insulti
riti religiosi e la dignità umana non dovrebbe essere mandato in onda” ha
dichiarato Hanafi, rifacendosi al materiale proveniente da produzioni di Paesi
vicini che non adottano un adeguato “sistema di filtraggio”. Il riferimento è rivolto
a filmografia e varietà considerati indecenti, tollerati e trasmessi, ad
esempio dalla tivù pakistana. Ma il concetto dell’indecenza del ministro-censore
è ampio, e può comprendere la presenza sulle scene di personaggi femminili.
Cosicché il dicastero darebbe via libera a contenuti interpretati da soli
attori di sesso maschile. Inoltre “Serie
e immagini del profeta sono assolutamente vietate”. Tutto ciò non viene
posto come imposizione governativa, bensì sotto forma di “consiglio” rivolto a
media e addetti ai lavori. Un consiglio che va ad aggiungersi ad altri, questi
più spinti e divulgati sotto forma di norme relative sempre all’abbigliamento e
all’orientamento di studentesse universitarie e giornaliste, che prendendo un
eccesso di libertà rischiano la fustigazione. Appena dopo la presa del potere i
turbanti avevano sostenuto la volontà di rispettare l’indipendenza dei media,
purché questi non ostacolassero i ‘valori nazionali’. Nel mese di settembre il
suddetto ministero della Promozione della Virtù, in sostituzione del ministero
degli Affari femminili, già impediva
alle donne l’esercizio di molti lavori. Eppure nei Palazzi dell’Emirato ci si
sente innovativi. Nel quinquennio 1996-2001 il governo del mullah Omar,
disdegnava qualsiasi apertura ai media, vietava film e intrattenimenti
giudicati nel complesso immorali. All’epoca i più facoltosi, possessori di
apparecchi televisivi, rischiavano oltre alle pene di fustigazione e possibili
carcerazioni lo smembramento del demoniaco elettrodomestico. L’unica stazione
radio udibile era Voice of Shari’a.
Oggi è tutta un’altra storia.
sabato 20 novembre 2021
India, vince la lunga marcia contadina
Vincono contro tutti gli agricoltori indiani. Contro il premier
Modi, costretto a fare marcia indietro ritirando tre decreti con cui aveva
“riformato” il settore. Vincono contro la stampa ufficiale sempre ambigua verso
la loro rivolta, peraltro in gran parte pacifica seppure macchiata dal sangue
di manifestanti caduti sotto i colpi della polizia, una lotta che i media hanno
cercato inizialmente di sminuire e poi tacciare di passatismo corporativo. I
contadini, quelli minuti e non solo loro, denunciavano come le presunte
riforme, che teoricamente gli consentivano di smerciare direttamente i
prodotti, di fatto li isolavano a vantaggio delle grandi aziende capaci di
mercanteggiare coi ciclopi della produzione e i marchi mondiali. Costoro
impongono prezzi insostenibili per le piccole coltivazioni improntate sui
tradizionali cicli di turnazione dei prodotti, anziché sulle monocolture. Eppure
i piccoli non si son persi d’animo. Dall’ottobre 2020 si sono uniti, nonostante
le difficoltà imposte dalla pandemia di Covid hanno marciato verso grandi
centri, compresa la capitale. Hanno bloccato il traffico con giganteschi
sit-in, sono stati dispersi dalla polizia e sono tornati ad assediare quei
luoghi alla guida di trattori. Hanno circondato le barriere con cui le Forze
dell’Odine li tenevano lontani da New Delhi. Hanno aggirato gli ostacoli
cingendo coi loro corpi lo storico Red Fort in pieno centro cittadino. Dopo le
infuocate giornate dello scorso gennaio, la resistenza passiva proseguiva senza
mollare di un palmo. SI opponevano a cannoni ad acqua, lacrimogeni, fucilate
che colpivano, anche a morte, alcuni di loro. Hanno contato morti in una repressione
durata mesi che non risparmiava neppure i vecchi delle famiglie presenti per via.
Ogni mese cadevano quattro, sette, otto manifestanti, in totale oltre seicento
in differenti distretti, sebbene il centro della protesta sia sempre stato
l’Uttar Pradesh. Ora i politologi affermano che Modi abbia ceduto temendo quel
che potrebbe accadere a febbraio prossimo nel popolosissimo Stato (oltre 200
milioni di abitanti) chiamato alle urne. Perdere in Uttar Pradesh sarebbe un
colpo durissimo per il Bharatra Janata
Party, già messo in difficoltà nel maggio scorso con le elezioni in alcuni
Stati, su tutti un’altra regione assai popolata: il Bengala Occidentale. Comunque
ciò che ha mostrato il movimento degli agricoltori, accanto a tenacia, determinazione,
convinzione di potercela fare, è l’unità d’intenti, aggirando le divisioni religiose
che da anni polarizzano la popolazione all’interno delle stesse categorie di
lavoratori. Il superamento di contrapposizioni anche riguardo ai sistemi di
coltivazione dei campi e dei prodotti, gli esempi di alcune minoranze di
comunità Adivasi attente a proporre varietà autoctone di cereali, il caso di
alcuni tipi di miglio che garantiscono resa e sicurezza alimentare davanti agli
stessi cambiamenti climatici. Così la presunta arretratezza di talune comunità
agricole risulta più oculata e attinente alla realtà di pianificazioni mercantili
legate al profitto unicentrico della monocoltura. E al di là di non secondari
aspetti d’organizzazione economica, tecnica e socio-politica c’è chi vede nel
successo della battaglia del mondo rurale un punto fermo per quel bisogno di
democrazia e dei diritti di cui necessita la società indiana.
giovedì 18 novembre 2021
Il governo pakistano sceglie la libertà di fondamentalismo
Saluta, sorride. Riceve
l’onda di giubilo di attivisti e fan Hussain Rizvi, il leader dei Tehereek-i Labbaik Pakistan, liberato
stamane a Lahore. Per lui si sono spalancate le porte di Kot Lakhpat, un lager
per quattromila detenuti che ne ospita più di quindicimila. Un posticino con
tanto di forca per le esecuzioni dove già in passato chi era entrato in piedi
ne usciva definitivamente disteso. Non è il caso di Rizvi, peraltro mica condannato
alla pena capitale, ma a una reclusione (durata sette mesi) per gli infuocati
interventi che ne ribadivano la collocazione nella lista dei politici settari
accusati di terrorismo. La rimozione del suo nome da quella lista lo restituisce
alla vita pubblica, e probabilmente a rinnovati proclami settari. Appena uscito
di prigione Rizvi s’è recato nel quartier generale del partito, nella città di
Lahore, nella moschea Rehmatul Lil Alameen ha incontrato, fra l’interno e
l’esterno, migliaia di sostenitori giubilanti. Il rilascio era atteso, anzi
rientrava nell’accordo che alcuni ministri dell’esecutivo Khan, complice il
premier, avevano sottoscritto giorni or sono per far cessare la protesta dei
militanti del TLP. Questi avevano bloccato importanti arterie del trasporto mercantile
interno, mettendo a repentaglio forniture e commerci. La scarcerazione ha
creato dissensi fra alcuni esponenti del governo, contrari alla sanatoria
lanciata non solo sul nome di Rizvi, ma dello stesso raggruppamento
fondamentalista. Eppure il passo è stato compiuto e ancora maggiore è la gioia
dei supporter TLP perché Rizvi figlio potrà partecipare alla commemorazione
dell’anniversario della morte del padre che ricorre il prossimo 20 novembre.
Tutto sarà ricordato col rituale denominato Urs,
detto ‘matrimonio del santo’, con cui il sufismo indica l’abbandono del corpo
che si è unito all’Eterno. Per il raduno è stato predisposto dal governo un
ampio apparato di controllo con telecamere e vigilanza attorno alla moschea. Dopo
i festeggiamenti c’è chi s’aspetta ulteriori escalation delle posizioni
settarie dei TLP, rivolte alle minoranze confessionali e a chi non pensa e non prega
come loro.
lunedì 15 novembre 2021
India, comunalismo di fuoco
A fine ottobre la devastazione era passata per
Tripura, Stato del nord-est indiano vicino al Bangladesh. I militanti, anche
armati, della destra estrema hindu del Rashtriya
Swayamsevak Sangh, Viswa Hindu
Parishad, Hindu Jagram Manch che
fanno della violenza, spesso assassina, la loro fede ammantandola del peggiore
comunalismo esclusivista, avevano bruciato case, negozi e una quindicina di
moschee. Nel mirino i musulmani locali, che pativano la vendetta per brutalità anti
hindu compiute nelle precedenti settimane in Bangladesh. Una catena che si
alimenta a ripetizione e va a colpire nei luoghi dove ciascuna comunità risulta
minoritaria. Venerdì scorso le fiamme si sono spostate di duemila chilometri,
nel Maharashtra, ad Amravati, città di piccole dimensioni per l’India, circa
seicentomila abitanti. Lì alcune migliaia di musulmani hanno marciato chiedendo
pace, ma covando in seno gruppi che poi si sono lanciati su negozi di famiglie
hindu, saccheggiandoli. Immediata è seguita la ritorsione. Guidata direttamente
dal partito di governo Baharatiya Janata
Party che, tramite leader locali, ha convocato i sempre allerta militanti
dell’hindutva, scatenati a loro volta
e per l’ennesima volta nel vandalizzare gli esercizi commerciali avversari. Come
spesso accade la polizia ha evidenziato tutta la propria inadeguatezza a controllare
l’ordine pubblico, giungendo in forze solo ad azioni compiute, e facendo
pensare alla tattica del lasciar sfogare la rabbia fra contendenti. Così i
militanti dell’hindutva e i miliziani
del fondamentalismo musulmano riescono ad avere campo libero nella propria
furia, possono predicare e divulgare un confessionalismo radicale, metterlo in atto,
scontrandosi in una sorta di guerra civile strisciante. Quest’orizzonte coinvolge
anche cittadini che nulla hanno a che fare con l’estremismo. La loro unica
colpa è appartenere all’una o l’altra fede ed essere conosciuti come tale.
Costoro, i propri esercizi, le loro case diventano obiettivo dei
fondamentalisti. I più esposti risultano i commercianti, quelli minuti con
bancarelle approssimative perdono poco, ma è un poco di guadagni già scarsi. Poi
ci sono quelli appena un po’ più strutturati che egualmente non possono
permettersi una vigilanza armata, che
comunque in caso di tumulti nulla può oppure si dilegua. Gli attacchi
riguardano le stesse abitazioni private e i luoghi di culto. Recenti testimonianze
riferiscono assalti di manipoli d’una decina di attivisti, ma in certi casi
addirittura di reparti d’una quarantina di elementi, che seguendo una precisa
divisione di compiti sradicano portoni, distruggono elettrodomestici,
frantumano strutture lignee e metalliche oppure le incendiano. La cittadinanza
accusa la polizia per la totale inerzia, visto che quando le violenze erano in
corso alcuni di loro hanno richiesto un
intervento degli agenti per le strade. Ma sia venerdì, quand’erano in azione
attivisti islamici, sia sabato e domenica con le scorribande alimentate dagli
hindu, i poliziotti mobilitati in città risultavano solo alcune decine. L’instabilità
del quotidiano va a minare la convivenza fra le comunità e gli organi preposti
alla sicurezza evitano qualsiasi prevenzione. Di fatto è la politica a soffiare
sul fuoco. E non tanto per immobilismo, al contrario per mobilitazione diretta.
Fra i facinorosi fermati ieri – visto che, dopo due giorni di devastazioni, le
forze dell’ordine domenica si sono adoperate a effettuare 72 fermi e arresti –
fa bella mostra un ex ministro del governo locale appartenente al Bjp. E’ Anil Bonde che assieme al
collega di partito Praveen Pote, scomparso dopo gli scontri probabilmente per
evitare la cattura, ha organizzato l’arrivo in città delle bande armate dell’hindutva. Un’orda di seimila picchiatori
che hanno predicato con spranghe e ordigni incendiari.
venerdì 12 novembre 2021
Pakistan, Khan patto col terrore
Anche chi lo critica per
le ultime due mosse: accordo coi Tehreek Labbaik Pakistan della scorsa
settimana, avvìo di colloqui coi Tehreek-e Pakistan di queste ore, non può dire
che il primo ministro pakistano Imran Khan non apparisse come un eccentrico
egocentrico. Non solo per il glamour da campione del cricket e quello da
sciupafemmine delle cronache rosa. Dopo aver abbracciato la politica e fondato
il suo Tehreek (Movimento)-e Insaf (cioè della Giustizia) ben 25 anni or sono, aveva
già detto di voler dialogare coi talebani. Certo, allora guidava un gruppetto
minoritario, che solo dal 2013 ha iniziato la conquista di seggi in Parlamento,
35, sino al successo del 2018 che gliene ha dati 119. Da odierno leader di una
nazione che, da quando è sorta, si destreggia fra diversità e contraddizioni
Khan sembra voler lasciare il segno in un momento assai delicato per il Grande
Medio Oriente. Il suo daffare s’inserisce nelle manìe di grandezza geopolitica
regionale di altri premier di Islamabad, però desta anche sospetti. Tornando ai
recenti passi gli si contesta l’arrendevolezza verso una formazione minuta ma
agguerritissima (TLP) che ha nel fondamentalismo religioso la linfa incendiaria
della sua politica. Ultimamente i Labbaik facendo leva sulla legge sulla
blasfemia, presente nel Paese dal 1986, hanno avviato un braccio di ferro con
le istituzioni chiedendo l’allontanamento dell’ambasciatore francese (che poi s’è
dileguato di sua iniziativa) per le vignette di Charlie Hebdo e la liberazione di Rizvi, il loro capo, detenuto
dalla scorsa primavera per eccessi fondamentalisti. Per ottenere ciò hanno
minacciato, e per tre settimane, attuato il blocco del traffico commerciale
sulle direttrici nord-sud. Alla fine l’hanno spuntata ricavando con la
mobilitazione di strada un risultato più esplosivo di qualsiasi attentato o
rivolta armata. I grandi imprenditori hanno spinto sul governo per una
soluzione, infischiandosene di come il successo della protesta dei Labbaik ne
potesse accrescere un credito politico tutto giocato sull’intolleranza. Quell’intolleranza
che fa usare la ‘Blasfemy Law’ contro le minoranze cattolica e ahmadi.
Khan ha avallato, incurante oppure
opportunisticamente orientato a favore del sentimento più intransigente che
movimenti estremisti come il TLP veicolano nel Paese. Poi ha raddoppiato,
quando gli echi delle concessioni al radicalismo confessionale non s’era ancora
spento. Eccolo, dunque, aprirsi ai jihadisti. Tali sono i Tehreek-e Taliban,
fuorilegge per avere in quattordici anni insanguinato strade, scuole, parchi
della nazione. Eppure in questi giorni il governo tratta con loro e stabilisce
un mese di cessate il fuoco, sebbene alla vigilia del negoziato nel nord
Waziristan quattro militari sono stati uccisi dai miliziani TTP. Che comunque
per avviare una trattativa chiedono la liberazione di centinaia di loro
militanti. Perché Khan sceglie questo negoziato? E’ lui a farlo? Due ipotesi.
La prima: lo fa di sua sponte perché tramite i Tehreek-e Taliban vuole accreditarsi
come grande amico dell’Emirato di Kabul, e collocarsi in un futuro prossimo in
prima linea nel condizionare la politica del Paese vicino. Cosa che, peraltro,
i leader di Islamabad provano a fare da decenni. Seconda ipotesi: Khan subisce indirettamente
la spinta fondamentalista, quella populista dei Labbaik e quella jihadista,
sempre latente e pericolosa, dei taliban interni che possono tornare a colpire
indiscriminatamente. Da un quadriennio hanno ricevuto colpi e perdite, sono
riparati entro il confine afghano. In parte fondendosi coi miliziani dell’Isis
Khorasan, ormai presenti in tante province, oltre a Kabul. Continuano a essere
una mina vagante che quella parte del Pakistan legata a capitali, mercati,
rapporti geopolitici non può permettersi di avere come avversario. Così Khan
s’adatta a discutere con chi accampa pretese (il rilascio di soggetti accusati
di terrorismo) prima che i colloqui s’intavolino, e potrebbe scoprire che a
direzionare i Tehreek-e Taliban siano i turbanti d’oltre confine, non nella
persona del morbido Baradar bensì nel pretenzioso clan Haqqani. Il vero jolly di
una partita del fondamentalismo di lotta e di governo, ormai ultra nazionale.
giovedì 11 novembre 2021
Afghanistan, la morte per bombe e quella per fame
Ventitré milioni di afghani rischiano la fame, afferma
un recente rapporto del World Food
Programme che ha corretto in peggio, aumentandola di tre milioni di unità,
la stima offerta a inizio anno d’un pericolo a livello mondiale per
quarantacinque milioni di persone. Non è un caso che la disgrazia riguardi
Paesi dove problemi sociali, geopolitici, climatici rendono difficoltosi anche
aiuti umanitari. Oltre all’Afghanistan sono coinvolte Haiti e alcune nazioni
africane (Etiopia, Somalia, Angola, Kenia, Burundi). La situazione afghana è
precipitata nell’ultimo anno, anche prima della caduta di Kabul in mano
talebana, per cause interne: le reiterate violenze che allontanano la
popolazione d’ogni sesso dalle attività lavorative, la siccità. E per intralci
internazionali: la pandemia e, ultimo, il blocco voluto dagli Stati Uniti dei
fondi destinati alla nazione (9.5 miliardi di dollari) tanto per opporsi alla
ricomparsa dell’Emirato. Abbiamo visto come quest’evento sia stato un tutt’uno
con l’implosione del regime Ghani, il liquefarsi delle locali Forze Armate, la
fuga del presidente e del suo staff con denari destinati all’amministrazione
pubblica. Tutto ciò era prevedibile con gli Accordi di Doha. Ma volendo evitare
di riconoscere un sistema attuato dagli uomini con cui la Casa Bianca ha
trattato, ora si sta punendo un intero popolo che rischia la salute e la vita
stessa. A ruota degli Usa l’Unione Europea ha tagliato i fondi destinati al
Paese, e l’hanno fatto il FMI e la Banca Mondiale che avevano previsto per
l’anno in corso di elargire rispettivamente 400 e 800 milioni di dollari. Quel
miliardo abbondante potrebbe sfamare milioni di disperati. Egualmente i nove
miliardi congelati offrirebbero un sostegno non secondario. Ma si dice di non
voler offrire capitali a chi, come i taliban, possono utilizzarli per piani
terroristici o per proprio tornaconto. Però per due decenni le amministrazioni
Karzai e Ghani hanno incamerato dollari ed euro, anche quando a gestirli,
ai vertici di svariati Esecutivi c’erano terroristi riciclati in qualità di
vicepresidenti: Fahim, Khalili, Dostum, mentre fondamentalisti del calibro di Hekmatyar e
Khan agivano da politici di primo piano.
Uno dei motivi del blocco, che diventa di fatto una ritorsione
verso la già tanto martoriata popolazione, sono le pratiche talebane: segregazione
etnica per gli hazara, segregazione di genere per le donne. Accanto alla
repressione delle iniziali proteste di minuti ma determinatissimi gruppi di attiviste
che lamentavano l’allontanamento femminile dalla politica e dalle professioni imposto
dall’Emirato, sono comparsi: un’obbligata divisione nei corsi universitari fra
studenti e studentesse, il drammatico blocco dell’attività scolastica inferiore
per bambine e ragazze, la dissuasione del lavoro per le donne (rimaste occupate
pur senza salario solo nei ruoli sanitario e di educazione primaria). Ancor più
allarmante è il rilancio di violenze e azioni criminali, giunte sino al
rapimento e all’assassinio di donne che vestivano la divisa, praticavano sport,
s’impegnavano sul fronte sociale e dei diritti. Per questi casi dal ministero
dell’Interno assicurano indagini, ma è proprio il radicalismo di chi dirige
quella struttura – il tristemente noto Sirajuddin Haqqani – a non offrire speranze
di giustizia. Tutto angosciosamente reale. Come è stata reale la pluridecennale
assenza di prospettive che dessero un futuro a chi, allora come oggi, è
costretto a vagare dall’Hindukush ai Carpazi e alle Alpi, abusato e usato da
trafficanti di speranze umane, quelli che mercanteggiano per denaro o per intenti
geopolitici. Per uscire dalla spirale di veti e divieti si dovrebbero cercare
soluzioni di ripiego, perché nell’incerto spazio fra Kunduz e Kandahar, nei
villaggi d’insicure valli da Herat a Jalalabad passando per Kabul, tre milioni
di bambini rischiano di crepare davanti all’inverno che incede. C’è stato il
caso dell’Unicef, che mantiene la
presenza nei campi profughi interni impegnandosi sul fronte sanitario con le
vaccinazioni contro la polio e ha negoziato un accordo coi turbanti, accollandosi il pagamento dei salari di
insegnanti. Così il servizio è comunque garantito senza un passaggio di denaro
nelle mani del governo talebano. Potrebbe essere una strada da seguire anche
per altri interventi, fuori da speculazioni politiche occidentali e
dell’Emirato, attorno al disconoscimento o all’approvazione del regime.
lunedì 8 novembre 2021
Tehreek-i Labbaik Pakistan, il fondamentalismo paga
Vince la piazza, vince il blocco delle autostrade e dei
commerci, vincono gli attivisti del fanatico Tehreek-i Labbaik Pakistan, partito che
dal Punjab fa pesare la sua ombra su Islamabad e sul governo di Imran Khan.
Quest’ultimo cede, e dopo le trattative condotte da due suoi ministri - Qureshi
degli Esteri, Chaudhry dell’Informazione - che per giorni hanno discusso
indirettamente col gruppo islamista tramite il mufti Muneebur Rehman, riescono
a rimuovere i sit-in sulle vie di grande comunicazione a cominciare da
Wazirabad, località orientale a un centinaio di chilometri nord da Lahore. La
contropartita è pesante: un migliaio di attivisti TLP sono già stati
rilasciati, taluni erano stati fermati di recente proprio per le violenti
proteste contro l’ambasciatore francese, simbolo del contrasto
ideologico-religioso contro le vignette blasfeme su Maometto, rilanciato dai
Labbaik. Oggi viene liberato anche il leader TLP Saad Rizvi, mentre il
l’ambasciatore è tornato a Parigi di sua sponte già da giorni, temendo per la
sua incolumità. Forse la ritirata è stata concordata col premier pakistano, che
in tal modo si risparmia una rottura diplomatica con la Francia, partner
economico non indifferente per le non floride finanze interne. Ma sul governo
di Islamabad incombe la richiesta di dimissioni di alcuni politici locali, come
il ministro della Giustizia dello Stato del Punjab, considerato dal gruppo
fondamentalista inadeguato per una corretta applicazione della legge sulla
blasfemia. Proprio l’accusa di blasfemia è diventata il fulcro del programma
politico del Tehreek Labbaik che la lancia contro minoranze etniche e religiose.
La comunità cristiana è da tempo la più colpita, comunitariamente e
individualmente. Nonostante il caso più famoso, quello di Asia Bibi si sia
concluso con un’assoluzione della donna da parte della Corte Suprema, Bibi è
stata costretta a riparare in Canada.
Accanto al rilascio del piretico leader Saad Rizvi, che
scaglierebbe l’atomica sui nemici blasfemi, il riconoscimento maggiore ottenuto
dal TLP con quest’ultimo “braccio di ferro”, è la rimozione del gruppo da una
lista sull’antiterrorismo frutto di una legge pluriventennale. In tal modo lo
sdoganamento del movimento è cosa fatta. Il laicismo del governo dovrà sempre
più fare i conti con questioni d’ordine confessionale nella maniera in cui intende
il fondamentalismo islamico, che su questo terreno punta a pescare consensi in
un Paese al 96% musulmano. A cominciare dalla gestione di normative che il
radicalismo interpreta, e distorce, a piacimento. Questa sigla Tehreek mira a
conservare visibilità e incrementare agibilità, sceglie la protesta di piazza,
scagliando pietre, ma non si arma. Al confronto dei Tehreek-i Taliban e altre
formazioni del jihadismo stragista pakistano imbocca vie differenti, e non è
detto meno incendiarie ed efficaci. Bloccando talune importanti arterie
commerciali, il contrasto delle scorse settimane ha coinvolto anche l’imprenditoria.
Nel negoziato, accanto ai politici, erano presenti alcuni affaristi pakistani.
Fra loro Karim Dhedhi, figlio di un magnate giunto in Pakistan nel 1947.
Attualmente il gruppo di famiglia AKD, definito dalla stampa nazionale un
“gigante del mercato dei capitali”, tratta risorse naturali, infrastrutture,
servizi immobiliari, delle telecomunicazioni e finanziari. Lui e altri tycoon
hanno spinto sui ministri di Khan affinché le richieste dei manifestanti venissero
accolte, pur di liberare le autostrade, far salire merci a Islamabad, farle
imbarcare nel porto di Karachi. Ecco l’arma imbracciata dal TLP, ed ecco gli
alleati, seppure solo opportunisticamente orientati. Ulteriori terreni su cui
spinge l’iniziativa dei Labbaik sono i social, fruibili da decine di milioni di
ragazzi ben oltre le madrase, e il territorio. Metropoli e villaggi altamente
popolati, rappresentano la linfa per chi vuole infiammare gli animi. Gli
attivisti di Rizvi son decisi a sguazzarci.
giovedì 4 novembre 2021
Afghanistan: Haqqani, i guastatori
L’attentato, l’ultimo del 2 novembre all’interno
dell’ospedale militare di Kabul, nella zona non facilmente accessibile di Wabir
Akbar Khan, evidenzia tutta l’impossibilità talebana di controllare il
territorio. Addirittura il centro della capitale. Più o meno quel che accadeva
al peggior esecutivo Ghani da un paio d’anni a questa parte. Pur agghindati con
divise recuperate nei magazzini del governo precedente, le forniture pagate coi
fondi internazionali ora praticamente azzerati per la disperazione della
popolazione e dello stesso Gotha dell’Emirato, i miliziani diventati esperti di
“sicurezza” hanno solo potuto ingaggiare un conflitto a fuoco con gli
assalitori. Ne hanno eliminati cinque – così dichiara un portavoce taliban –
fra la prima deflagrazione del corpo d’un kamikaze e il secondo martire. Ma fra
le vittime, salite a venticinque, c’è anche un responsabile di quelle Forze di
pattugliamento gestite direttamente dalla Rete di Haqqani: Hamdullah Mokhlis,
tenuto in gran considerazione dal clan. Il suo diretto superiore sia nelle
veste ufficiale di ministro degli Interni, sia in quella di leader del network,
Sirajuddin figlio ed erede del fondatore Jalaluddin, dovrebbe risultare
doppiamente colpito. Perché ha perso un elemento di fiducia e perché il piano
di controllo del Paese è palesemente in crisi. Eppure il passato, remoto e
recente, degli Haqqani rende il gruppo sibillino e inaffidabile. Nei due
decenni di conflitto contro le truppe Nato, la maggioritaria Shura di Quetta in più occasioni ha
riscontrato atteggiamenti riottosi di questi ‘studenti coranici’ che
oscillavano fra i confratelli di Peshawar e la vicinanza al mondo qaedista. Sugli
Haqqani ha sempre potuto contare l’Intelligence pakistana (Isi) interessata a
manipolare le alleanze di guerra e guerriglia oltreconfine così da attuare
cospicue ingerenze. Non è un segreto che nei mesi precedenti la presa del
potere a Kabul, il gruppo (oltre a Sirajuddin ci sono lo zio Khalil, il
fratello Anas, i parenti Najibullah e Abdul) abbia premuto per un’accelerazione
della conquista di tutte le province, così da rendere smodata e caotica la
ritirata statunitense.
Strattonando tutti i firmatari dell’Accordo di Doha, non solo Khalilzad,
gli uomini del Pentagono e della Casa Bianca, ma proprio Baradar il capo
delegazione di casa, considerato un moderato. Delle varie anime della galassia
taliban che ha assunto il comando del Secondo Emirato, gli Haqqani sono
risultati solo parzialmente limitati. Certo, a fine agosto Sirajuddin, che
ambiva a diventare premier, s’è ritrovato “solo” capo di Polizia e Intelligence,
e poco importa se queste figure sono incarnate da combattenti riconvertiti in
ruoli di cui hanno solo vaghezza di competenza. Di fatto il leader della Rete ha
uno dei poteri più ambìti. E poi Anas svolge funzioni politiche nell’attuale
transizione, Khalil patrocina il dicastero dei Rifugiati, Najibullah ha il
portafoglio della Comunicazione, Abdul dell’insegnamento Superiore, non tutti
sono incarichi di primo piano, però il clan è un gruppo di potere organizzato. Organizzatissimo.
Il più coeso fra i talebani. E nei frazionamenti e nelle conflittualità interne
potrebbe – come ha fatto altre volte – dare fondo alla doppiezza. Dunque stare
nell’Emirato, ma aprire porte alla dissidenza che ha dato vita allo Stato
Islamico del Khorasan. Alcuni osservatori giurano che, grazie a loro, un
rilancio del qaedismo in terra afghana sia più di un’ipotesi. Del resto
l’Afghanistan attuale sprofonda in un caos anche maggiore a quello degli ultimi
anni. Dal punto di vista dello stragismo verso i civili la situazione insegue
la frequenza di attentati dell’ultimo triennio. Mancano le incursioni dall’aria
operate da caccia e droni americani, ma non è detto che simili interventi non possano
riprendere. O da parte d’una Nato che torna sui suoi passi o delle potenze
interessate al sottosuolo (la Cina innanzitutto) che l’insicurezza della terra
di sopra blocca nel suo affarismo. E gli Haqqani? Per ora sono ministri dell’Emirato,
potrebbero finire nelle maglie d’un Califfato o del terrorismo guastatore che
esalta la morte a prescindere. Come ha fatto di recente Sirajuddin in un raduno
di parenti dei martiri jihadisti capaci di sacrificare l’esistenza per
contrastare l’invasione occidentale. Del resto gli Haqqani pensano che la
trattativa in Qatar abbia rinnegato la ‘guerra santa’. Una battaglia che deve
proseguire e destabilizzare la pacificazione.
martedì 2 novembre 2021
Kabul, l’Isis-K evidenzia l’insicurezza talebana
Come loro, più di loro. L’Isis Khorasan insegue da quattro anni
il primato della destabilizzazione dell’Afghanistan a colpi di esplosioni e
vittime civili. Cercava di colpire il governo Ghani con attentati più eclatanti
e spregiudicati dei talebani. Mentre quest’ultimi indirizzavano camion-bomba e
azioni armate prevalentemente contro obiettivi politici (centri
dell’Intelligence, caserme dell’esercito, militari) falciando spesso anche i
poveri cittadini capitati nel luogo sbagliato, i jihadisti del Khorasan mirano
direttamente a quest’ultimi. Li sterminano nelle moschee sciite, nelle scuole,
negli ospedali, nelle strutture per neonati. L’hanno fatto fino ad agosto
scorso. Continuano a farlo nell’Emirato, con più gusto perché ora lo scontro
coi turbanti non è indiretto. E’ rivolto a quest’ultimi, sebbene finora non ne
abbiano sparso il sangue. Le vite troncate continuano a essere quelle della gente
per via, però gli obiettivi si avvicinano agli uomini di Akhundzada. Oggi
l’Isis-K ha eliminato diciannove persone. Non l’ha rivendicato, ma a tutti
appare chiara la sua matrice. Il numero delle vittime, come sempre, potrà
aumentare se il cuore di qualcuno dei quarantatré feriti cesserà di battere. Sono
state registrate due esplosioni in successione nella capitale. In pieno centro,
all’entrata dell’ospedale militare Mohammad Daud Khan,
appena fuori dalla zona delle ambasciate, quella statunitense dista a mala pena
cinquecento metri. L’area è stata per un ventennio una città proibita,
blindatissima ai più, ipercontrollata con un triplo filtro di check-point.
Eppure i taliban riuscivano a penetrarla e a uccidere lì i soldati di guardia. In
quel modo dicevano a Karzai, a Ghani, ai loro padrini statunitensi, che
inizialmente disponevano marines a difesa della loro ambasciata poi usarono
solo contractors: “Colpisco quando voglio”. Ora i ruoli sono invertiti. A presiedere i
controlli ci sono le pattuglie dei turbanti, che già in varie occasioni si sono
dimostrate inadatte alla bisogna. Nei filmati sui pattugliamenti a Kabul, i
giovani miliziani dell’Emirato paiono intenti a mettersi in mostra, a farsi
fotografare più che a stabilire un reale controllo d’un territorio di per sé difficile
da setacciare. Ma chi ne coordina il “lavoro”, gli altisonanti nomi di Yacoob
(ministro della Difesa) e Haqqani jr (ministro dell’Interno), probabilmente
risultava più capace a pianificare attacchi che a prevenirli. I due dovrebbero ben
conoscere strategie e canali d’infiltrazione, eppure non riescono a frenare i
rivali in terrore. A meno non abbiano rinunciato a priori a quel compito, cosa
che non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. La ricostruzione della “sicurezza”
cerca di minimizzare: l’azione odierna è opera di un kamikaze coadiuvato da
un compagno armato che ha continuato a sparare dopo la prima deflagrazione. Secondo
testimonianze raccolte dall’Agenzia
Bakhtar ci sarebbe stato un vero commando, riuscito a penetrare nell’ospedale e ingaggiare un lungo conflitto
a fuoco con le ‘forze di vigilanza’. Mentre un infermiere, intervistato dai
media locali, ha parlato di due esplosioni susseguitesi nell’arco di dieci
minuti. Non è certo se dentro o fuori dalla cerchia muraria del nosocomio.
Iscriviti a:
Post (Atom)