martedì 30 settembre 2025

I miracoli di New Gaza

 


Nel Risiko della pace, che tanto l’affascina poiché vuol iscrivere il suo nome nella lista dei Nobel per tale traguardo, Donald Trump lancia venti comandamenti per la Nuova Gaza. Netanyahu li accetta, Hamas sta valutando, avrà ancora a disposizione quarantotto ore, visto che un giorno è già trascorso. Nella lista dei precetti spicca la premessa: Gaza libera dal terrorismo (inteso come rinuncia a qualsiasi difesa da parte palestinese), quindi riqualificazione a beneficio della popolazione di Gaza, che ha sofferto più che abbastanza (sic). E’ servito sotterrare e ferire definitivamente duecentomila cittadini di quei luoghi e sgombrarne quattrocentomila per enunciare questo principio.  Però, ad accettazione di entrambe le parti, tutti gli ostaggi, vivi e deceduti, saranno restituiti. Israele rilascerà anche 250 prigionieri condannati all’ergastolo più 1.700 abitanti di Gaza detenuti dopo il 7 ottobre, comprese tutte le donne e i bambini imprigionati in quel contesto. I membri di Hamas che si dovessero impegnare a una convivenza pacifica, smantellando l’organizzazione politica e militare, guadagnerebbe l’amnistia. Chi fra loro vorrà lasciare la Striscia riceverà un biglietto sicuro di sola andata. Accettato quest’accordo gli aiuti avranno quel via libera che finora Israele ha vietato, fatto marcire, centellinato col contagocce tramite l’erogazione gestita dalla Gaza Humanitarian Foundation (organismo statunitense creato ad hoc) che ha mitragliato e assassinato gazawi affamati, mentre presiedeva le scarse distribuzioni di alimenti. Ora la ripartizione tornerebbe alle agenzie Onu e alla Mezzaluna Rossa, chissà perché tutto ciò finora veniva vietato. La Striscia verrebbe governata da un fantomatico Comitato palestinese tecnocratico e apolitico supervisionato da un sedicente Ufficio della Pace (sic) che avrebbe fra i suoi esponenti di spicco l’ex premier britannico Tony Blair, che un decennio addietro un rapporto (Chilcot l’estensore) di due milioni e mezzo di parole mostrava quale mentitore per i presunti dossier sulle armi di ‘distruzione di massa’ in possesso di Saddam Hussein. 

 

In base a quelle falsità il suo governo appoggiò l’invasione statunitense dell’Iraq e il conseguente sterminio di 150.000  civili. Nel “comitato” potrebbero entrare funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese al momento della realizzazione d’un programma di non meglio definite riforme. Nella Striscia verrebbe istituita una “zona economica speciale con tariffe e tassi d’accesso preferenziali da negoziare con i Paesi partecipanti. Quindi, non solo si riproporrebbe una totale assenza d’uno sviluppo economico autonomo e autoctono, ma nazioni e società esterne trarrebbero vantaggi da quegli investimenti protetti. Chi vorrà potrà lasciare Gaza, ma a dimostrazione delle buone intenzioni dell’Ufficio della Pace, chi volesse rientrare potrà farlo. Tutte le infrastrutture militari in loco verranno distrutte, recita il precetto numero tredici, come se finora le macerie non avessero compreso anche alcune caserma o tunnel di Hamas. In realtà l’80% degli edifici d’ogni genere, compresi ospedali e scuole, sono stati rasi al suolo o irreparabilmente danneggiati. Secondo la versione di Tsahal perché erano rifugi dei miliziani islamici. Accanto all’Idf  (Israeli Defence Forces) comparirà l’Isf (International Stabilization Forces) formata da alleati degli Stati Uniti in Medioriente e nel mondo, che offrirà supporto a una “polizia palestinese” intenta a collaborare con Israele ed Egitto per tutelare la sicurezza interna e i confini settentrionali e meridionali. Il sedicesimo precetto (Israele non occuperà Gaza) è già smentito da Netanyahu. Questi non intende affatto portare via le sue truppe come suggerirebbe Trump a vantaggio del controllo dell’Isf . Fra gli acronimi c’è una sola lettera di differenza, Tel Aviv riconosce e vuol mantenere solo la sua “d”, una difesa che pratica stermini e occupazione. Poiché il veleno è sempre nella parte conclusiva, eccolo il diciannovesimo precetto trumpiano, il più buonista, che fa da prologo alla candidatura al Nobel: “Mentre la riqualificazione di Gaza avanza e quando il programma di riforma dell’Autorità Palestinese verrà fedelmente portato avanti, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come l’aspirazione del popolo palestinese”. Un déjà-vu degli Accordi di Oslo del 1993. Peccato che questo bluff è già stato provato da un popolo turlupinato dalla geopolitica della manipolazione.

sabato 27 settembre 2025

Carnefice

 


Finiremo questo lavoro il più velocemente possibile” ha dichiarato il carnefice Netanyahu davanti all’assise vuota e svuotata di senso delle Nazioni Unite. L’unico senso l’avrebbe avuto un arresto immediato, seduta stante del premier israeliano, ricercato dalla Corte Penale dell’Aja per crimini contro l’umanità. E per genocidio, gridano migliaia di piazze nel mondo, al cospetto di esecutivi che condannano ma non agiscono, timorosi verso il protettore principe del malfattore: il governo degli Stati Uniti d’America. Non nuovo a coperture di malavitosi e malavitoso esso stesso per invasioni e guerre seminate e praticate per un secolo intero, dedicato all’altrui sottomissione per mano militare o per intrighi politici. Un ottimo esempio offerto alla banda Netanyahu intenta a strappare vite e terra ai palestinesi, un’entità etnica da cancellare. Questo il piano. Cui s’aggiunge il gentlemen agreement fra premier Erode e presidente Paperone per monetizzare. E dunque: sgombro, deportazione,  ricostruzione di Gaza trasformata in resort, posto che distruzione, sterminio, oblìo sono in corso e tutto sommato accettati dai concittadini israelo-statunitensi che col voto e la noncuranza tengono in vita i due leader. Nel suo astioso proclama all’Onu, una verità Netanyahu l’ha detta: “Abu Mazen e Autorità Nazionale Palestinese sono corrotti fino al midollo”. Lo sa per certo, anch’egli ha contribuito, come altri premier d’Israele a pagare la svendita dei diritti di quel popolo. Una liquidazione che parte da lontano. Passa per gli Accordi di Oslo, premessa di tutte le truffe cui lo stesso Arafat s’era prestato. Per ingenuità? per vanagloria? per aver creduto alla politica dei piccoli passi? Le motivazioni le ha portate nella tomba. Ma già un quindicennio prima il suo popolo, in Cisgiordania e Gaza, aveva voltato le spalle a lui, al suo partito e all’imbroglio d’un simil Stato che, chi vuole sotterrare i palestinesi e la loro causa, continua a rilanciare con la vuota formula dei “due Stati per due popoli”. Malvisto non solo dal sionismo-ortodosso ora rampante. Malvisto dal sionismo intero e dalla comunità ebraica mediorientale e mondiale. Una formula vuota, servita solo a ingannare, visto che il territorio della West Bank è da decenni infiltrato da coloni che diventano padroni di tutto, armi in pugno e Israeli Defence Forces alle spalle. Nel suo manicheismo, tipico d’ogni colonialista, d’ogni nazionalista, Netanyahu cita la missione ebraica contro il Male, cioè Hamas, Hezbollah, Pasdaran e l’Iran intero, più gli Houti. E con la propaganda rovescia i termini d’una realtà ormai chiara a tutti. Lo Stato d’Israele, il distruttore del Medioriente sin dalla sua nascita nel 1948, vuole divorare chi ha intorno. E’ uno Stato antropofago, mangia il cuore di chi lo circonda, dopo essersi posto come entità virale su esistenze millenarie. Fermarlo? Sembra impossibile, vista la crisi identitaria d’un istituto creato per bloccare le guerre mondiali, ma mai le locali. Visto il dissesto del multilateralismo e della cooperazione cui gli Usa tagliano fondi, con Cina e Russia disinteressate e concentrate su altre assisi (Brics, Organizzazione della cooperazione Shanghai). Del resto anche l’Occidente si trova a suo agio nel G20 o nella Nato, in un mondo che chiude le porte alle trattative e impone la legge del più ricco e forte, tecnologicamente e militarmente. Mentre il carnefice Netanyahu e suoi simili sorridono.

giovedì 25 settembre 2025

Diplomazia dei minerali

 


Può essere definita “diplomazia dei minerali”, il volto rassicurante per accaparrarsi elementi naturali strategici per produzioni di alta tecnologia civile, bellica e nano tecnologie, rispetto all’altro passo per ottenerli: le occupazioni territoriali e le guerre. Pronto a servirsene è il Pakistan, per rilanciare una relazione geopolitica pluridecennale verso il colosso mondiale statunitense. Il matrimonio politico fra Washington e Islamabad, passato attraverso i giri di walzer dei presidenti americani in Oriente e le ambiguità dei leader pakistani oscillanti fra un laicismo politico non esente ad aperture para confessionali benevoli col jihadismo, è da alcuni anni in aperta crisi. Con la ricaduta internazionale di una nazione in crescita demografica esponenziale, scelta negli anni Sessanta e Settanta dalla Casa Bianca quale alleato asiatico da contrapporre all’India pro sovietica e alla Cina rivoluzionaria, e perciò rimpinzata di testate atomiche e addestrata da “consiglieri” del Pentagono e della Cia. Ma il Pakistan dei clan Bhutto e Sharif, avidamente impegnati in intrallazzi familiari che consentivano ruberie ai reciproci governi alternatisi al comando, prendeva derive non sempre consone a una geopolitica che nell’ultimo quarto di secolo lo stesso Studio Ovale ha smarrito o fallito. Da lì stalli e intoppi che ora l’affarista Trump, interessato ad arricchire sé stesso e i suoi sodali dicendo di far grande l’America, punta a superare poiché parla il medesimo linguaggio della leadership pakistana: un incamerare dollari mascherato da “interesse nazionale”. Il rilancio d’un nuovo corso con premesse in atto dalla scorsa primavera, ruota attorno al mantra della “lotta al terrorismo”. Che se, un quindicennio fa raggiungeva l’apice con l’eliminazione ad Abbottabad del ricercato numero uno, Osama bin Laden, certificava pure l’ambiguo ‘doppismo’ dei Servizi pakistani, a metà strada fra l’inefficienza e la connivenza col qaedista latitante.  Altra fase, comunque, che l’attuale binomio politico-militare pakistano con Shehbaz Sharif e Asim Munir, ritiene ampiamente superata e normalizzata attraverso rapporti sanati con gli alleati storici occidentali, Stati Uniti in testa. Dunque, largo agli affari. 

 

Cinquecento milioni di dollari bussano alla porta del governo locale per ottenere minerali pregiati dal sottosuolo. E se gran parte del commercio mondiale piange e subisce i dazi imposti dal tycoon newyorkese per le merci esportate Oltreoceano (l’India se li ritrova addirittura al 50%), Islamabad riceve trattamenti al 19%, una gabella fra le più basse che il presidente Usa ha lanciato nelle sue maramaldesche trattative. Così nei mesi scorsi è stato posto il primo tassello allo scambio fra una delle principali strutture tecnologiche dell’Esercito pakistano, Frontier Works Organization e United States Strategic Metals, società del Missouri, specializzata nel riciclaggio di minerali critici come il litio. Cuore dell’accordo continuano a essere le ‘terre rare’, più rame e antimonio. Si tratta d’un pezzo dello scontro produttivo-economico che contrappone gli Stati Uniti alla Cina, avvantaggiatissima per avere in casa molte di quelle 17 polveri pregiate, indispensabili alla produzione dei famosi semiconduttori e sistemi di difesa. Il ventre pakistano può sopperire alle necessità primarie della Silicon Valley californiana, ma c’è un problemino. Buona parte delle miniere si trovano in due zone minate: il Belochistan a sud (che tesaurizza piombo, zinco, cromite, scandio, rame e oro, celebre la montagna Reko Diq), il centrale Khyber Pakhtunkhwa (ricco di rame). Però in quei luoghi insiste la presenza armata di gruppi jihadisti tutt’altro che propensi a far fare affari a un governo che combatte. Ulteriori giacimenti sono presenti al nord nella regione kashmira, tuttora contesa con l’India. Insomma sono aree dove le aziende di scavo dovranno fare i conti con chi su quel territorio vive e prospetta un proprio futuro. Distruttivo e distopico, ma tant’è. Ne sa qualcosa proprio Pechino la cui Metallurgical Construction Corporation, attiva dall’inizio del nuovo Millennio su quell’area depressa e povera, e oggetto di boicottaggi e attentati da organizzazioni come Baloch Liberation Army, Lashkar-e Taiba, Jaish-e Mohammad. Negli ultimi quattro anni una ventina di cittadini cinesi risultano fra le vittime di azioni armate dei suddetti gruppi che animano una protesta popolare. Contestano un utilizzo di manodopera, anche semplice, esclusivamente cinese a tutto svantaggio dei locali. Oggi anche Pechino guarda di buon occhio gli appalti americani: aumentare imprese e scavi può limitare l’incidenza di minacce e aggressioni jihadiste. Esistono milioni cubi di materiale da prelevare, ce n’è per tutti. L’importante è scavare e capitalizzare.

lunedì 22 settembre 2025

Fuori Alaa

 


Giunge con estremo ritardo, ma è bene che sia arrivata, la liberazione d’un attivista storico d’Egitto: il quarantatreenne Alaa Abd El-Fattah, imprigionato nel 2013 a seguito del golpe bianco di Al Sisi, e poi nuovamente nel 2019, dopo una paradossale scarcerazione che nelle settimane seguenti gli rinnovava una pena di cinque anni per aver diffuso “notizie false” sui social media. Lo fanno uscire di cella il suo persecutore presidente egiziano, che addirittura lo grazia assieme ad altri detenuti politici, e il premier britannico Starmer fino a questo momento accogliente solo a parole delle suppliche della madre di Alaa, la docente universitaria Laila Soueif. La quale s’era spesa tantissimo per il rilascio del figlio che ha cittadinanza anche britannica, da lì la richiesta di coinvolgimento di Downing Street. Laila coi suoi settant’anni oggi sembra una novantenne: l’hanno piegata le pene patite e le lotte intraprese a favore del primogenito. In questi anni ha praticato essa stessa debilitanti scioperi della fame nonostante condizioni sempre più precarie di salute. Le testimonianze delle altre figlie, di amici, le stesse immagini della donna confermano come la professoressa negli ultimi cinque anni sia invecchiata per le sofferenze fisiche e morali subìte dalla famiglia. Perché adesso questa grazia? cosa significa? Da un lato c’è da constatare che Alaa ha quasi scontato per intero l’ennesima condanna, dall’altro c’è l’attuale scelta del governo inglese di esporsi a favore d’un riconoscimento dello Stato Palestinese. Mentre il regime del Cairo segue i dubbi sollevati da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per i recenti attacchi aerei di Israeli Air Force al Qatar, un esplicito schiaffo alle stesse petromonarchie propense a stabilire buoni rapporti con Tel Aviv attraverso gli “Accordi di Abramo”. Ora quest’ultime compiono un passo indietro di fronte all’aggressiva strafottenza dell’esecutivo Netanyahu, il cui isolamento diplomatico è globale. Con l’odierno pronunciamento all’Assemblea delle Nazioni Unite anche di Regno Unito, Australia e Canada, la stragrande maggioranza dei Paesi rappresentati nel Palazzo di Vetro (151 su 193, l’Italia resta nel guado di un “non ora” voluto da una Meloni  filo Maga) chiede quello Stato Palestinese che Israele nega praticando un genocidio strisciante a Gaza e l’occupazione militare e coloniale della Cisgiordania. Comunque l’uomo della repressione interna in Egitto non è cambiato. La sua è l’ennesima mossa buonista per conservare un profilo passabile da mediatore internazionale col quale riesce a conservare uno scranno nei tavoli di trattativa. Lì la partita col mondo islamico la gioca il turco Erdoğan e i rapporti con l’Occidente statunitense li tiene il saudita bin Salman. Sisi sorride e grazia un detenuto impossibile da tenere ai ferri pure per ragioni di passaporto, la svolta potrebbe offrirla liberando migliaia di oppositori di cittadinanza solo egiziana. Non lo farà. 


 

 

domenica 21 settembre 2025

La geopolitica dell’ipocrisia

 


Riconoscere uno Stato Palestinese, come intende fare domani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il Regno Unito, assieme a Canada e Australia, dopo cento e otto anni dalla Dichiarazione di Balfour, ma soprattutto dall’avvìo dello sterminio dei gazawi che dura da quasi due anni, rappresenta l’ennesima incongruenza d’una geopolitica occidentale incentrata sull’ipocrisia. Meglio tardi che mai, sentenzieranno i Soloni dei passi piccini piccini che girano in tondo su sé stessi confermando un’assoluta inutilità. Ma una realtà schiacciata e scacciata, già con la Nakba del 1948, come quella della Palestina storica che proprio i governi britannici sacrificavano alla nascita di Israele, contrapposta alla millenaria vita dei locali arabi e beduini, è un tarato controsenso tenuto in vita per decenni. Durante i quali lo Stato sionista, allora a maggioranza laburista, faceva di tutto per affermare la sua identità etnica a discapito di altre comunità; missione proseguita dall’epoca dei kibbutz a quella d’una nazione sempre più centralista e militarista. Altro che utopia collettiva… Insieme a colleghi europei, il leader britannico Starmer parla di “speranza di pace a una soluzione di due Stati”, come se tutto ciò ch’è accaduto dalla firma degli Accordi di Oslo (1993) in poi non si fosse mai verificato. Gli stessi Ilan Pappé, storico, e Eyal Weizman, architetto, quest’ultimo con doppia cittadinanza britannico-israeliana, da tempo testimoniano la finalità di pulizia etnica e le strategie d’occupazione attraverso le colonie nel presunto territorio destinato ai palestinesi della Cisgiordania. Prigionieri anch’essi in una casa che non è mai stata loro, perché continuamente minacciata da Israel Defence Forces e da ebrei armati. Gli intenti della politica d’ogni governo di Tel Aviv, laburista, Likud, sino all’oltranzismo ebraico delle più recenti formazioni presenti nella Knesset, da anni riduce qualunque capacità di vita ordinaria per i palestinesi, fino ad attentarne l’esistenza interrompendola con azioni armate, ancor più se si verificano rivolte - le Intifade del 1987 e del 2000 - o  singole iniziative di ribellione personale anche omicide. 

 

 


L’alibi è la ‘sicurezza’ d’Israele e della sua gente, che però continuamente minaccia la vita della comunità araba pur nei territori assegnati, che si riducono sempre più. Per i 730 chilometri del Muro voluto da Sharon (2003), per continui insediamenti di coloni provenienti da cento Paesi del mondo che nulla hanno a che vedere col Medioriente, rivendicando un diritto atavico che è pura promozione della sopraffazione e sostituzione etnica.  In queste ore non un membro di Hamas ma Chris Doyle, direttore del Consiglio per la comprensione arabo-britannica (CAABU), afferma: “Molti palestinesi avrebbero voluto celebrare questo momento simbolico, ma non possono. La realtà è che il riconoscimento non porrà fine ai bombardamenti, alla carestia, al genocidio né al sistema di apartheid che i palestinesi stanno sopportando". Perché la soluzione finale con cui Netanyahu e Trump puntano a svuotare la Striscia, deportare il milione e mezzo di cittadini rimasti e comunque sfollati, affamati, sfibrati da malattie endemiche che li possono cadaverizzare da un giorno all’altro, accanto a chi è fucilato da terra e dall’aria, è il futuro previsto per tale Stato fantasma. La cui controfigura è la West Bank ebreizzata dai coloni che raggiungono il milione e non si fermano, secondo la logica di togliere spazio al nemico, soffocarlo in dimensioni sempre più esigue, stritolarlo, farlo impazzire. Mentre le risoluzioni di un’entità, purtroppo decotta qual è l’Onu, vagano vuote nel Palazzo di Vetro, perché inapplicate, visto che da Oltreoceano non si vuole farle applicare. E non solo per il famigerato ‘diritto di veto’ dei Grandi, mai cancellato nell’organismo internazionale, ma perché la politica americana, Democratica o Repubblicana e ora Maga, ha sempre voluto e imposto questo. E vuole eternizzarlo.

martedì 16 settembre 2025

L’inferno di Gaza

 


E’ fuga dall’inferno. Inferno di bombe, crolli, macerie sulla carne per chi arranca nella polvere. Di corpi che bruciano dopo aver visto per ventitrè mesi spegnersi ogni tipo di persona: conoscenti e sconosciuti, genitori e fratelli, vecchi e donne, adulti e lattanti rinsecchiti, combattenti, imam, preti della pace. Tsahal ammazza chiunque per ripulire la Striscia. Pulizia etnica. Genocidio. Oggi lo dice pure una commissione indipendente delle Nazioni Unite, immediatamente bollata da Israele come antisemita. Mentre dal cielo droni e missili abbattono gli edifici già spettrali rimasti ancora su, entrano carri e bulldozer a spianare quel che resta coi cannoni e con le lame d’acciaio. Azzerare per purificare e incamerare un territorio impossibile da rivendicare con qualsiasi falsificazione della terra dei padri.  Eppure il mondo lascia fare. A cominciare dal Segretario di Stato americano Rubio, giunto per omaggiare Netanyahu, rassicurarlo che sì, anche questo può farlo e l’affare futuro andrà in porto. Mano sul cuore e volo a ritroso. Con trecentocinquantamila in vagabondaggio forzato verso non luoghi, visto che tutta la Striscia è un ammasso di pietre e cemento terremotati, e duecentomila fra morti e feriti, il primo passo del Grande Israele si sta compiendo. Basterà deportare l’altro milione e mezzo di anime in pena. Numeri enormi, certo. Ma fra la morte per affaticamento, denutrizione, svilimento in un’esistenza sinistrata, l’Erode dell’infanzia palestinese e il tycoon suo protettore sono certi che la deportazione verso il Sudan, il deserto libico, qualche isola dell’arcipelago indonesiano verrà accettata da chi ha la certezza di rimanere profugo vita. Il vertice arabo, riunito ieri a Doha, perde il suo tempo a condannare Tel Aviv più per l’attacco alla capitale qatarina, alla funzione mediatrice dell’emiro al-Thani che alla disintegrazione del territorio gazawi, all’ecatombe dei suoi abitanti, alla disgregazione degli stessi costretti a soluzioni di confino socio-politico. Sessanta nazioni, anche potenze regionali di peso coi presidenti - la Turchia di Erdoğan, condanna, stigmatizza il banditismo d’Israele, l’Iran di Pezeshkian, propone di tagliare i legami con quel Paese, l’Egitto di al Sisi minaccia di rivedere gli accordi precedenti, ma già il Pakistan col filo americano Sharif annuncia solidarietà al Qatar più che ai palestinesi, e il vicepresidente indonesiano Raka parla vagamente di sopravvivenza delle nazioni islamiche, dignità dei popoli, santità del diritto internazionale. Parole sacre, concetti giusti però nessuna azione, quasi fosse un’assise dell’Unione Europea, di quelle che annunciano giustizia al cospetto di chi fa del sopruso criminale una ragione esistenziale. Dunque, per chi scappa e vaga, senza rifugio, speranze, luce futura, resta l’abbaglio del sole cocente, il caotico ammasso di povere cose recuperate a rischio d’essere schiacciati sotto gli ennesimi condomini abbattuti. Resta un errare perpetuo fino all’esaurimento di forze. E forse, se non si crepa oggi, una tenda lacera, un giaciglio di polvere, l’ennesima elemosina d’un pasto per poter andare più in là. Sempre comunque in un tratto, centrale o inferiore, dei quaranta chilometri già adesso scippati. In attesa di finire chissà dove tranne nella Palestina che semplicemente Israele tutta, non Netanyahu, ha deciso di sotterrare.  

lunedì 15 settembre 2025

No pasan

 


Non passano loro, i ciclisti della Israel-Premier Tech, e non passa l’intero gruppo della Vuelta, fermato a cinquantasei chilometri dal traguardo finale di Madrid, perché nella capitale era rivolta. Migliaia di spettatori hanno divelto le transenne occupando il percorso, si sono scontrati con la Guardia Civil, hanno esaltato una protesta che aveva già avuto in più punti della corsa a tappe dissensi, proteste, accuse alla formazione creata ad arte dall’immobiliarista  israeliano-canadese Sylvan Adams per sostenere Israele attraverso il ciclismo. Certo, nel progetto partito undici anni or sono, c’è anche un ex corridore israeliano, Ran Margaliot, professionista poco conosciuto, per i limiti agonistici d’una carriera spesa fra i giri di Slovenia, Picardia, Baviera, tutte gare minori. Margaliot, nel progetto di Adams e del socio statunitense Baron, è servito a offrire credibilità agonistica a un’operazione che ha tutto il sapore di propaganda politica, non tanto perché Israel Cycling Academy sottolineasse un’appartenenza statale pur in un’iniziativa privata, ma per l’insistenza con cui il suo mentore, che tre anni fa ha trasformato la denominazione in Premier Tech (azienda canadese di elettrodomestici per la casa), conservava ostinatamente il nome Israel accanto allo sponsor. Del resto Adams si fa vanto di promuovere nel mondo sportivo la causa d’Israele. Operazione di supporto all’attuale linea governativa e di Stato che gran parte del mondo considera indegne. C’è, dunque, poco da stupirsi se le contestazioni piovono sul manipolo di faticatori del pedale ingaggiati dalla squadra, che nei giorni scorsi aveva rimosso dalla maglia il riferimento a Israel, mentre le bandiere palestinesi dal bordo dei tornanti baschi invadevano il percorso. Non è servito. Nel finale madrileno  una marea umana ha bloccato tutto. Alla faccia di Adams e del suo progetto di “diplomazia sportiva”, già utilizzata nel periodo dello sdoganamento d’Israele nel mondo arabo con gli “Accordi di Abramo” cui Israel Cycling Academy contribuiva partecipando al Giro degli Emirati (sic). 

  

Ora il sindaco della capitale spagnola Martinez-Almeida grida alla vergona gettata addosso al Paese dai manifestanti e pure dal premier Sanchez, ritenuto “responsabile della violenza vincitrice sullo sport”. Martinez-Almeida un cinquantenne il cui curriculum lo dà già ventenne inserito nel Partito Popolare fino all’ingresso in pompa magna nella municipalità nell’anno 2019, in virtù dell’alleanza del suo partito con le formazioni Ciudadanos (gruppo liberale nato nel 2005) e Vox (più recente raggruppamento di estrema destra che proprio nelle elezioni dell’aprile 2019 fece un balzo al 10% con punte nella Spagna provinciale e pure nei distretti di Madrid e Valencia). Il rampante Martinez-Almeida sotto il doppiopetto liberale cela parentele imbarazzanti quale nipote del diplomatico franchista Emilio de Navasqués. Sarà questo lo spirito che l’ha avvicinato alla ricca borghesia barcellonese monarchica, nazionalista, nostalgica da cui proveniva il primo presidente di Vox, il professor Quadras-Roca? O forse è più a suo agio con l’attuale leader del gruppo alleato Abascal Conde, sociologo rude abbastanza da definirsi esplicitamente reazionario, antiislamico e antifemminista per onorare la memoria del nonno sindaco nella Spagna franchista. Gente che in ogni proclama, in qualsiasi affermazione pubblica rigurgita concetti di violenza inaudita, e poi addita gli avversarsi, li accusa, li incolpa di “seminare odio”. Come fa la loro amica, la presidente italiana del Consiglio Giorgia Meloni. Anch’ella beneficiaria di un’alleanza di comodo e d’affari con cui guida fra astensioni maggioritarie un’Italia già “rieducata” dal suo padre putativo Berlusconi e imbesuita da un’opposizione talmente balbettante da risultare scioccamente inutile. Forse le nostre piazze, in troppi casi tradite eppure palpitanti, seguendo l’esempio degli ostinati espectadores de ciclo amantes de la libertad, possono alzare la propria voce, da opporre ai passatisti, ai colonizzatori e usurpatori dello sport, ai massacratori del popolo di Palestina.

 

 


martedì 9 settembre 2025

Bombardare le trattative

 


I quindici missili dell’aviazione israeliana sganciati su un’area residenziale nella qatarina Doha, dov’era ospitato e riunito il vertice Hamas, ha un duplice valore. Quello immediatamente espresso dal governo israeliano: controbattere a suon di bombe l’assalto di ieri nelle strade periferiche di Gerusalemme est, inizialmente pensato come spontaneo e comunque lodato dal Movimento islamista, quindi rivendicato come proprio. Da qui il via libera al raid denominato “Giorno del giudizio” che doveva colpire i restanti leader vecchi e nuovi della resistenza palestinese: Khalil al-Hayya, presidente dell’Ufficio politico di Hamas, Khaled Meshal, Zaher Jabarin. Israele afferma che il colpo è riuscito, facendo intendere che, com’era accaduto ad altri capi palestinesi, l’omicidio mirato è compiuto. La forza palestinese ha rintuzzato la notizia dicendo il contrario: il terzetto è salvo, a perdere la vita sono stati il figlio di al-Hayya, Hammam, e il funzionario del partito Jihad Lubbad. L’ulteriore intento dell’operazione era quello di stoppare l’iniziativa trumpiana d’inseguire un tavolo di trattative, al quale Hamas aveva risposto favorevolmente. Le bombe di oggi pomeriggio ribadiscono la chiusura di Netanyahu verso qualsiasi accordo, anche momentaneo e parziale, rilanciando la linea dell’occupazione di tutta la Striscia, l’evacuazione della popolazione locale, strada unica e forzata senza nessuna alternativa. Poiché per l’odierno raid, Tel Aviv ha avvisato Washington, traspare il doppio taglio con cui il premier d'Israele impone al presidente-tycoon il tragico ‘giorno per giorno’ che disegna il drammatico futuro mediorientale. Comprese le mosse atte a invadere e bombardare Stati sovrani - non solo i nemici libanesi, iraniani, yemeniti, ma gli stessi Paesi alleati dove gli statunitensi conservano proprie basi, come al-Udeid - mentre trova conferma il doppismo del presidente americano. Lui proclama di condurre il gioco, militare e diplomatico, nella regione; invece risulta un complice succube di quanto il sionismo ortodosso e l’ebraismo fondamentalista mettono sul piatto dell’imposizione geopolitica internazionale.

lunedì 8 settembre 2025

Fuoco a Gerusalemme

 


In due, disperati più che accecati di rabbia, stamane hanno preso a sparare nell’agglomerato di Robot, Gerusalemme est, quartiere e territori occupati. Contro un autobus strapieno e contro la cittadinanza ebraica presente alla fermata. Erano, perché li hanno freddati, palestinesi. Venivano dai dintorni di Ramallah, quella della Muqata di Arafat e del sogno che fosse una nuova Palestina, una patria in nuce. Invece era solo illusione compromissoria, era Cisgiordania soffocata dall’occupazione e dai coloni, soprattutto gli haredi una branca degli ultraortodossi che girano armati e fanno fuoco. Pure loro a freddo. Così i due attentatori che stamane hanno assassinato sei cittadini israeliani, fra cui quattro rabbini, e ferito altre dieci persone, sono finiti crivellati loro stessi. Sangue su sangue. Come sia potuto accadere fra muraglie e contro muraglie, una selva di check-point e polizia e militari e civili ebrei armati fino ai denti non è facile capire. Effetto sorpresa da parte di due sfuggiti a ogni controllo, partendo dai villaggi di Qatanna e Qubeiba. Luoghi ora già circondati da blindati e, c’è da giurarlo, puniti in giornata o al più domani. Come? con arresti, sbancamenti perché Netanyahu, che ha mollato ogni impegno accorrendo sul posto per comiziare a suo vantaggio l’accaduto, promette vendetta sulla cerchia degli aiuti. Su chi ha procurato mitra, pur artigianali e imprecisi,  ma efficaci nell’impattare da posizione ravvicinata, nel caos che s’è creato appena è partito il primo colpo, con la gente che si riversava fuori dal bus preso di mira. Perciò i commenti nell’area sono del tono: “Il nemico vuole solo ucciderci, per questo dobbiamo ripulire Gaza e prenderci la Cisgiordania”. Nessuno rivendica un gesto criminale che pare opera diretta di quegli abitanti di serie B, reclusi e frustrati per quel che gli accade attorno, per le esecuzioni di civili che in contemporanea hanno visto crepare quaranta gazawi. Fare paralleli non esiste e non ha senso, ma questi sono i rapporti: sei a quaranta. Duemila a sessantatremila, morto più, morto meno in un calcolo non feroce e cinico bensì approssimativo e reale. Lo Shin Bet sostiene che di simili mattanze volanti ne sventa dieci e più al mese. Stavolta non l’ha fatto, non c’è riuscito, non ha voluto come un po’ per il 7 ottobre? Non lo sapremo mai, anche perché la geopolitica sta avanti e oltre. Ha già scelto cosa far fare a Israele: occupare tutto, trucidare a discrezione, evacuare con lusinghe e con la forza, ogni angolo dove i palestinesi vivono per cancellarne la memoria. Come di quei villaggi e paesini dove la loro progenie trascorreva giorni e notti fino alla metà degli anni Quaranta. E di cui è scomparso qualunque ricordo.  


 

giovedì 4 settembre 2025

Cina vicinissima

 


Fanno più effetto le fitte e perfette file di divise multicolori che percorrono a passo marziale la piazza Tienanmen oppure lo scorrere iper armato di ordigni nucleari (DongFeng-61, JL1 Fulmine), i missili antinave supersonici, i carri e i droni, al cospetto di cittadini estasiati e orgogliosi più del regista e padrone dell’intero spettacolo di grandiosa grandezza dell’Oriente più evoluto? Entrambi. Ma la seconda voce si trascina a suo conforto l’effettiva capacità di questa potenza che è esibizione di tecnologia. L’odierna Cina antioccidentale, anche perché un certo Occidente la stuzzica e continua a bistrattarla, sta raggiungendo quello status per cui gli imperi s’innalzano e s’impongono: la tecnica creata e applicata. La padroneggia ovunque, e ora che ne mostra gli effetti anche nell’antico mestiere delle armi, su cui i nemici storici, nipponici e statunitensi, avevano la meglio diviene lo spettro da cui difendersi. In realtà è più d’un ventennio che l’ora ics è attesa da politologi e analisti economici, ma chi pratica gli effetti di queste materie, che per il dominio del mondo sono accampate fra la Casa Bianca, il Pentagono e Wall Street, dunque dai tempi di Bush junior, passando per Obama, Trump, i generali e i finanzieri posti ai vertici di quegli organismi, ha nicchiato facendo finta che il Dragone esistesse solo nei brutti sogni. Certo, ancora oggi che uno Xi Jinping vestito da Mao Tse Dong si bea sul palco godendosi la propria Pace Celeste, le classifiche del Pil globale mettono gli affari statunitensi davanti a tutti, coi propri sei trilioni di dollari di vantaggio a trainare il carro capitalistico del pianeta. Ancora oggi JB Morgan e Bank of America primeggiano in tutte le Borse, anche in quelle asiatiche di Shanghai e Singapore. Però non durerà. Lo dicono gli advisors di Manhattan, e le statistiche dei numeri che pongono sempre più studenti cinesi (e indiani) nelle università del mondo e conseguentemente negli organismi della ricerca tecnologica e poi della finanza internazionali,  così da scavare spazi per la trasformazione della supremazia e creare sorpassi. La demografia presenta il conto quando s’accompagna a pianificazioni statali, e in questo lo statalismo postcomunista in salsa capitalistica punta a fare Bingo, con la soddisfazione nell’iperuranio dell’uomo che alla scomparsa del grande Timoniere tirava la volata a simili soluzioni, Deng Xiaoping. 

 

 


Forse l’ex “capo architetto” della riforma economica cinese, solo approssimandosi alla dipartita terrena subodorava che il grande balzo avrebbe aperto scenari catastrofici per il cosiddetto Vecchio Mondo, ma chi osservava da un mondo egualmente antico e compassato aveva tutto il tempo di attendere sulla sponda del fiume il passaggio di cadaveri. Capitalismo di Stato, mix di statalismo e privatizzazione, controllo socialista del capitalismo, capitalismo collettivistico burocratico, le definizioni d’un orizzonte socio-economico fino a mezzo secolo addietro sconosciuto si sono sprecate in questi anni. Fra l’altro i tratti sono in divenire e sono mutati dal 1980 ai giorni nostri, con tanto di tratti d’indicibile profitto, corruzione, criminalità speculari alle peggiori storie delle fortune (capitalistiche) indissolubilmente legate al crimine, come ricordava il Balzac di Papà Goriot, perché certi vizi non hanno latitudini geografiche e possono riprodursi ovunque. Ma non sono tali righe una disamina sul dna cinese, non ne avrebbero le competenze che illustri studiosi di sistemi economici realizzano da tempo, proponendo distinguo e contraddizioni di questo Paese, idealizzato prima e dopo il Sessantotto per marxismo-leninismo allo stato puro, con comuni agricole, studenti-operai, ore di studio e lavoro a forgiare una nuova gioventù per una società migliore, comprensiva di ‘rivoluzione culturale’ e Rivoluzione con la maiuscola. Del cambio di passo di Deng, s’è ricordato, e si può pure rammentare la Tienanmen della rivolta studentesca dell’Ottantanove - rivoluzionaria? borghese? - la cortina dell’epoca ne discorreva poco. A Occidente s’insinuava, s’ipotizzava, dall’interno un Deng matusa  celava tutto, soprattutto le vittime d’una repressione protratta nel tempo. Fu l’ultimo anelito d’una Cina  ideologica e ideale? Forse. L’immagine dei Novanta e molto oltre è data dalle impattanti China National Petroleum Corporation, Sinopec, China State Construction Engeneering attive, attivissime ed efficaci sulle piazze mondiali, accusate d’impossessarsi dei tesori dell’altrui sottosuolo in Africa, Asia, Sudamerica. Accusate da chi? dalla concorrenza che pratica il medesimo scippo dall’epoca del colonialismo seicentesco. Nel pieno rilancio dei blocchi commerciali, geopolitici, geo militari, imperi invecchiati e innovati si confrontano, proponendo adesioni. Con uno spazio per le utopie scarso o nullo; i sistemi forti s’espongono per imporsi, gli altri osservano più o meno persi o angosciati.

lunedì 1 settembre 2025

L’altro organismo

 


Il mondo bloccato dai blocchi si mette in posa e mostra l’altra faccia, riassunta dal padrone di casa Xi Jinping e dalla signora Peng, usignolo del Belcanto cinese, che hanno accolto il parterre dei re esclusi dai sovrani d’Occidente stretti alla corte imperiale trumpiana. E’ il mondo dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai cresciuto, dopo più d’un ventennio di vita, e che ha aggiunto agli iniziali membri kazaki, tajiki, uzbeki, kirghizi, le ben più corpose nazioni asiatiche d’India e Pakistan, e le ambiziose potenze regionali turca e iraniana. Non un contropotere, un possibile secondo dominio in un’umanità sottomessa ai signori della terra e delle guerre. Il clou dell’incontro è previsto mercoledì con una parata militare, a ricordo dell’80° anniversario della resa giapponese sullo scenario asiatico del Secondo conflitto mondiale che pose fine alle ostilità, ma la per ora pacifica Cina tiene a sottolineare la sua accresciuta forza bellica, rispetto a fasi recenti. Un balzo tecnologico che confeziona anche terribili strumenti di morte, come i caccia J-10 sfornati per il Pakistan, finora appannaggio delle major armate statunitensi, Lockeheed Martin e sorelle. Certo, nel 2024 l’impatto della spesa militare mondiale poneva Pechino, pur seconda coi suoi 314 miliardi dollari nella tragica graduatoria produttiva, assai lontana dai mille miliardi annui stanziati da Washington, però la rincorsa di chi fa affari a tuttotondo probabilmente assottiglierà la distanza. Che certe presenze nello Sco siano compartecipi è vero, ma è un dato di fatto che tuttora osservano i grandi dal basso verso l’alto. Così l’attenzione degli analisti è rivolta ai soci di maggioranza, quelli iniziali come la Russia e gli acquisiti, l’India. E che l’attuale meeting abbia un contorno propagandistico da contrapporre alle frequenti assise della Nato e agli appuntamenti dei ‘volonterosi’ pro Ucraina, è un’altra scontata verità. Eppure le sempre più marcate spaccature globali, gli embarghi, i veti che logorano una globalizzazione solo un ventennio addietro tanto in voga, aggiungono solchi a una polarizzazione ricercata caparbiamente dalla strapotenza statunitense che con la seconda stagione del presidente-tycoon dichiara di cercare pace attizzando conflitti, mentre ha già lanciato la lacerante guerra dei dazi. 

 

 

E’ il potere stracciante dell’economia a compiere il miracolo di rivitalizzare un padrone che le guerre aveva iniziato a farle già da un quarto di secolo, col benestare europeo in Cecenia e Georgia, e le prosegue. Ma con l’odierna riapparizione nella Sco Putin esce dall’isolamento geopolitico e dalla persecuzione degli embarghi, stringe mani, prende applausi come fosse il Jude Law che lo interpreta ne Il mago del Cremlino. Dominio della realtà sulla finzione. I dazi che il bandito-imbonitore Trump impone al 50% all’India, rea d’aver acquisito idrocarburi russi, fanno riabbracciare dopo un quinquennio Modi e Xi, lasciatisi con una tregua armata sui confini ghiacciati del Ladakh, e ora decisi a collaborare per un futuro radioso dei rispettivi popoli che da soli fanno un quarto della cittadinanza   globale. E nella tensione dell’Indo-Pacifico che comunque la Casa Bianca tiene viva dando sponda alle rivalse di Taiwan, perdere la stima indiana, ora in viaggio verso Pechino, non è un passo di grande lungimiranza. Sulla rappresentanza della comunità mondiale dello Sco ai commenti sempre relativi al peso demografico dell’Organizzazione che vale quasi la metà della popolazione terrestre, c’è chi contrappone il ruolo del Pil. Effettivamente molti dei Paesi Europei, gran sodali degli Usa, lo vantano, per ora, assai più corposo rispetto a Uzbekistan e soci. Però ci sono gli Stati osservatori, da cui possono derivare nuove adesioni. Fra i più solventi spiccano le petromonarchie del Golfo, che coi presidenti Usa patteggiano piani affaristico-politici per il Medioriente, tipo “Accordi di Abramo” oppure stabiliranno ridisegni della Striscia Gaza, comprensivi di resort o meno, ma amano lasciarsi le mani libere per i propri interessi finanziari da patteggiare con chi vogliono. Lo stesso vale  per la Turchia erdoğaniana, liberata dall’incubo del conflitto interno coi kurdi e tornata in prima fila per gestioni d’un Medioriente sottoposto alla pressione del disegno del Grande Israele. Le mosse di Xi, almeno sulla carta, sembrano più vantaggiose delle infide clausole trumpiane. La partita è aperta, ma la diplomazia dell’accoglienza e del sorriso funziona meglio di quella della pacca su una spalla e della bastonata sull’altra distribuite dallo Studio Ovale. A Tianjin anche armeni e azeri, fino al 2020 l’un contro l’altro armati, dialogano. Magari obtorto collo, ma tant’è.